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a vittoria si ottiene quando i superiori e gli inferiori sono animati dallo stesso spirito”. Questa frase, attribuita allo stratega cinese Sun Tzu (VI e il V secolo a.C.), autore del famoso trattato “L’arte della guerra”, non suonerebbe strana neanche in bocca a Confucio, a Mao Zedong o, duemila anni dopo, al presidente in carica Xi Jinping. Coesione e responsabilità sociale sono due principi ricorrenti nella storia della Cina, attraverso un processo di rinnovamento continuo che ne ha permesso l’adattabilità a contesti ed epoche diverse. Il prodotto di questa interminabile palingenesi si riflette nel carattere spiccatamente comunitario della società cinese, impermeabile al concetto rinascimentale-liberale di “individuo” almeno fino all’avvento del cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi”: quello strano modello economico che, unendo libero mercato a retaggi statalisti, ha contagiato l’ex Celeste Impero con le distorsioni sociali tipiche del sistema capitalistico occidentale. Cionondimeno, tutt’oggi, i cinesi conservano mediamente un senso di responsabilità verso il prossimo che attinge tanto alle filosofie dell’età pre-imperiale quanto all’esperienza collettivista del trentennio maoista. D’altronde, prima di rinnegare la “tradizione feudale”, persino il Grande Timoniere si era nutrito in gioventù tanto di Sun Tzu quanto di quel pensiero confuciano che insegna l’amore per il prossimo (rén), l’empatia (shù), il rispetto (jìng), la lealtà (zhōng), l’affidabilità (xìn) e la deferenza verso i superiori (tì).
Questa attitudine “sincretista” tipicamente cinese (e in proporzione minore condivisa dal resto dell’Asia confuciana) trova la sua massima espressione durante i periodi di crisi, quando l’attivismo popolare viene convogliato a supporto delle forze statali. E’ stato così ai tempi del terremoto di Tangshan (il più devastante del secolo scorso), dell’epidemia di Sars del 2003 e del terremoto del Sichuan nel 2008. L’epidemia di COVID-19 ha fornito un nuovo banco di prova, confermando – nonostante le non poche criticità – un generico allineamento tra masse e centro direzionale politico davanti alle catastrofi. In una recente analisi, lo scrittore Roberto Buffagni osserva come – a differenza di Germania, Gran Bretagna e parzialmente Francia – la dirigenza cinese abbia privilegiato il contenimento dell’epidemia con ogni mezzo, arrivando a tollerare ingenti perdite economiche di breve-medio periodo nell’ottica, sul lungo termine, di preservare e anzi rafforzare la coesione sociale e culturale della propria popolazione. Secondo Buffagni, il modello strategico adottato dai vari paesi nella lotta al virus rispecchia l’etica, l’interesse nazionale e le priorità politiche degli Stati e, in misura minore, dei rispettivi popoli. Grattando sulla superficie, tuttavia, si scopre come la coesione sociale non sia stata solo il fine ma anche il mezzo grazie al quale il gigante asiatico è riuscito a domare la pandemia.
In Cina, dove la presa tentacolare del Partito unico soffoca la nascita di una società civile in senso proprio, la dialettica tra forze statali e partecipazione popolare è percorsa da tensioni perenni.
In Cina, dove la presa tentacolare del Partito unico soffoca la nascita di una società civile in senso proprio, la dialettica tra forze statali e partecipazione popolare è percorsa da tensioni perenni. Mentre le riforme economiche anni ’80 hanno prodotto un parziale disimpegno del governo dalla quotidianità, la risoluzione dei problemi ricade ancora prevalentemente nelle mani del Partito-Stato, che fonda la propria legittimità proprio sulla capacità di garantire benessere e armonia sociale. Come spiega Simone Pieranni su il Manifesto, “nella storia della Cina dal 1949 a oggi, il Partito comunista ha più volte mobilitato organi dello stato, amministrazioni e popolazione, per ottimizzare le risposte in casi di emergenza.” Crisi improvvise possono innescare “meccanismi spinti dall’alto in grado di riporre il Pcc al centro della scena sociale quale motore ed equilibratore di situazioni complicate anche nel tentativo di fare dimenticare le iniziali manchevolezze della macchina politico-amministrativa.”
Un esempio: l’intervento dell’esercito – che in Cina risponde direttamente al Partito – nella distribuzione delle forniture sanitarie durante la fase più drammatica del contagio. Oltre 10.000 medici militari sono stati spediti a Wuhan, la città epicentro dell’epidemia, 1.400 dei quali dislocati nel primo degli ospedali temporanei costruiti in tempi record per far fronte alla penuria di risorse locali. Compreso il personale civile, negli ultimi due mesi, il governo centrale ha dispiegato complessivamente oltre 60.000 operatori sanitari nella battaglia contro COVID-19. A ciò si aggiunge il contributo delle aziende statali (SOEs). Mentre buona parte del paese era ancora sotto quarantena, le SOEs hanno continuato a rispondere al fabbisogno nazionale di carbone, elettricità, petrolio e gas, incrementando inoltre la capacità produttiva giornaliera di mascherine e tute protettive. In alcuni casi, aprendo nuove linee di produzione per sopperire alla mancanza di materie prime essenziali nella fabbricazione di forniture mediche.
Proprio l’efficienza degli apparati statali è il leitmotiv della controffensiva mediatica con cui Pechino sta magnificando la gestione cinese della crisi in contrapposizione alla confusione in cui versano Stati Uniti ed Europa. Un messaggio rivolto soprattutto a un pubblico interno nel tentativo di riscattare l’immagine della leadership dalle critiche ricevute nel primo mese di contagio. In questa autocelebrazione del Partito, rimane poco spazio per il discreto ma fondamentale contributo dei cittadini. Sebbene lo stesso Xi Jinping abbia definito la pandemia una “guerra del popolo”, barriere istituzionali e cavilli burocratici rendono la partecipazione dal basso particolarmente difficoltosa. I più giovani sono riusciti ad aggirare i paletti grazie all’uso dei social network e a una rete internazionale di conoscenze personali. Ma rimangono iniziative sporadiche condotte sul filo della legalità.
Sebbene lo stesso Xi Jinping abbia definito la pandemia una “guerra del popolo”, barriere istituzionali e cavilli burocratici rendono la partecipazione dal basso particolarmente difficoltosa.
“Uno dei problemi principali degli stati autoritari come la Cina è che cercano di controllare al massimo la società civile”, ci spiega Miriam Gross, storica e autrice di Farewell to the God of Plague (Chairman Mao’s Campaign to Deworm), “in Cina non esistono ONG, ma solo GONGO”: organizzazioni formalmente non governative ma organizzate e patrocinate dal governo. Ferree leggi sulle associazioni benefiche e le congregazioni religiose, di fatto, assegnano il monopolio delle attività filantropiche a una limitata cerchia di enti parastatali come la Croce Rossa cinese, praticamente l’unica organizzazione autorizzata a gestire le donazioni dall’inizio dell’epidemia nonostante un turbolento trascorso costellato di scandali e casi di corruzione. Un po’ per protagonismo, un po’ per l’ossessione della stabilità sociale, la classe dirigente mal tollera l’ingerenza di elementi esterni al sistema. Lo dimostra il basso profilo mantenuto dagli imprenditori cinesi – generosissimi invece all’estero – e il giro di vite scagliato contro il giornalismo partecipativo germogliato a Wuhan per fare chiarezza sul’’operato delle autorità. Ma questo non significa non esistano margini per una partecipazione popolare, per quanto strettamente imbrigliata.
“Dovendo gestire 1,4 miliardi di abitanti e un’estensione geografica sconfinata, il governo cinese ha bisogno di una presenza capillare sul territorio nella prevenzione delle malattie”, spiega Gross, che introduce una distinzione fondamentale all’interno del confuso concetto di “dongyuan” (mobilitazione): per “mobilitazione di massa” si intendono quelle campagne in grado di “smuovere rapidamente l’intera popolazione per svolgere lavori duri, dalla costruzione di un canale di irrigazione alla gestione di una campagna di risanamento. In passato, sono state impiegate spesso nella salute pubblica e ambientale – per uccidere ratti, rimuovere i rifiuti, condurre vaccinazioni di massa e, più recentemente, nei lavori di bonifica durante la SARS.” Richiedono una partecipazione obbligatoria, e sebbene non siano impeccabili quanto a qualità, si distinguono per velocità d’attuazione. Affondano le radici nell’era maoista e sono quasi sempre incorniciate in un contesto “militare”. Secondo l’esperta, sebbene in questi giorni la narrazione ufficiale abbia attinto generosamente all’immaginario delle vecchie campagne di massa, è impossibile non notare un paradosso: “la guerra contro Covid-19 richiede ai cittadini-soldati isolamento e reclusione tra le mura domestiche. Esattamente il contrario di quanto implica il concetto stesso di mobilitazione”.
Discorso a parte meritano i “ju wei hui”, comitati residenziali “spontanei” di supporto all’amministrazione locale nello svolgimento di attività quotidiane, dallo smaltimento dei rifiuti al controllo delle politiche demografiche. Sono loro ad aver combattuto in prima linea il virus, garantendo la distribuzione dei beni di prima necessità, controllando la temperatura dei residenti e assicurando il rispetto del lockdown. Talvolta, fungendo da punchingball per le sfuriate della popolazione stremata dalla prolungata prigionia. È proprio a loro che sembrano ispirarsi gli “assistenti civici” incaricati dal Ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia di svolgere mansioni di “pubblica utilità” durante la Fase 2.
Tradizione e innovazione continuano a dialogare, fornendo al Partito-Stato inedite soluzioni gestionali. Il rigore tramandato dagli antichi alimenta l’innata propensione alla partecipazione comunitaria.
“Generalmente si è soliti rintracciare l’origine dei ju wei hui nei baojia di età imperiale, unità familiari rurali declinate essenzialmente all’applicazione delle leggi, alla riscossione delle corvée e al controllo civile, più tardi sfruttate per rinforzare le difese locali”, spiega la storica, “è un esempio di come la responsabilità collettiva sia stata strumentalizzata dai governanti per scopi di sorveglianza senza costi aggiunti. Ma i baojia erano odiati dal popolo cinese e scomparivano ogni volta che il potere centrale mostrava segni di debolezza per poi riapparire sotto la dinastia successiva. Quando i giapponesi colonizzarono Taiwan, scoperto il sistema, lo trovarono molto utile e decisero di destinarlo a tutta una serie di nuove mansioni, anche in ambito sanitario. Nella Cina continentale, la sua versione urbana risale proprio all’occupazione nipponica, durante la Guerra del Pacifico.”
Un tempo arruolati su base volontaria, sotto il governo Xi Jinping, “è probabile che la componente politica abbia preso il sopravvento e che buona parte dei comitati sia oggi composta da membri del Partito”, ipotizza Gross, segnalando la rinascita di un altro vecchio strumento amministrativo introdotto su base sperimentale nel 2004 e ampliato su scala nazionale cinque anni fa: quello del “shehui wangge hua guanli”, sistema di divisione dello spazio urbano in “griglie”, ciascuna delle quali assegnate a gestori incaricati di supervisionare in maniera capillare le aree residenziali di competenza. Un compito che, nell’era di WeChat e dell’intelligenza artificiale, è stato esteso alla raccolta di informazioni sullo stato di salute dei cittadini e alla creazione di un sistema di controllo digitale attraverso i big data.
Così, tradizione e innovazione continuano a dialogare, fornendo al Partito-Stato inedite soluzioni gestionali. Il rigore tramandato dagli antichi alimenta quell’innata propensione alla partecipazione comunitaria. Ma, se si vuole guardare al passato, più che la scuola confuciana, forse è la corrente legista – quintessenza di una visione autoritaria – ad aver ispirato i baojia e le sue evoluzioni. Come ricorda Gross, molti altri elementi concorrono a conquistare l’obbedienza dei cittadini, dal sistema educativo al diffuso controllo sociale passando per l’assenza di un’informazione libera: “come in Italia, e in Cina ai tempi della Sars, probabilmente anche a Wuhan l’istinto di molti lavoratori migranti sarebbe stato quello di fuggire a casa prima della quarantena. Se solo lo avessero saputo prima”.