P er la sofferenza che vi è stata inflitta vi chiedo, a nome del Governo svizzero, sinceramente e dal profondo del cuore, perdono”. Con queste parole, l’11 aprile 2013, la consigliera federale Simonetta Sommaruga ha presentato le scuse della Confederazione Elvetica alle vittime delle cosiddette “misure coercitive a scopo assistenziale”. Ovvero ai cittadini svizzeri che sono stati internati, sterilizzati, costretti ad abortire, separati dalle famiglie e sfruttati come manodopera a basso costo senza aver commesso alcun reato, senza processo e senza possibilità di ricorso in giudizio.
Fino agli anni ottanta, le autorità amministrative svizzere applicano questi provvedimenti a decine di migliaia di persone considerate non conformi – per condotta, censo, o etnia – ai valori dell’integrazione sociale e del successo economico. Per finire in un campo di lavoro è sufficiente essere “bevitori, vagabondi, oziosi e dissoluti”; le prostitute, le ragazze madri, le donne sole con figli a carico (nubili, divorziate, vedove) vengono spedite in case d’internamento o direttamente in carcere. Se sono incinte, le autorità possono farle abortire; se ancora non lo sono, possono sottoporle a sterilizzazione. Lo stesso vale per “dementi di ogni grado”, donne “pericolose”, “deviate”, o solo appariscenti: “una che si è tinta di biondo, una che ride troppo in giro per il paese” racconta Erna Eugster, ex internata, può essere privata della libertà simpliciter et de plano, sine strepitu et figura iudicii, come usava nei processi di stregoneria nell’Europa di Zwingli e di Lutero. Poi ci sono i Verdingkinder, i “bambini-schiavi”, ovvero: minori con difficoltà cognitive, figli illegittimi, figli di genitori divorziati, o poveri, o Jenisch (gli “zingari bianchi” di origine germanica) prelevati d’autorità e collocati in istituti o fattorie per essere impiegati come forza lavoro.
La prassi degli internamenti si interrompe nel 1981, anno in cui la Svizzera si decide a modificare il Codice Civile in materia di privazione della libertà. I collocamenti extrafamiliari dei minori sopravvivono un po’ di più, si perdono a poco a poco con la modernizzazione agricola e industriale del paese. Poi, tutto tace. Per oltre un ventennio l’anomalia dei provvedimenti amministrativi resta sigillata nelle memorie individuali. Nel 2003 una pioniera del movimento delle vittime, Louisette Buchard-Molteni, con uno sciopero della fame costringe il governo a stanziare una piccola somma per una ricerca sul fenomeno dei Verdingkinder. Alcuni giornali sollevano timidamente il problema.
Per finire in un campo di lavoro è sufficiente essere “bevitori, vagabondi, oziosi e dissoluti”; le prostitute, le ragazze madri, le donne sole con figli a carico vengono spedite in case d’internamento o direttamente in carcere.
Nel 2013 il movimento ottiene le scuse della consigliera federale: a questo punto la Svizzera comincia a prendere coscienza del proprio passato. Per la prima volta si parla di risarcimenti in denaro e nel 2014 viene istituita una Commissione peritale indipendente composta da storici, giuristi e psichiatri. A poco a poco, accanto al quadro normativo, emerge quello delle violenze sessuali, fisiche e psicologiche perpetrate negli istituti o nelle fattorie ai danni dei bambini. Non tutte le vittime sono disposte a uscire allo scoperto: è la vergogna profonda degli stigmatizzati, che nessun argomento razionale potrà mai vincere.
I Verdingkinder che riescono a parlare raccontano che più degli abusi e del lavoro disumano, era l’assenza di qualunque forma di amore a rendere misere le loro vite. Alcuni hanno vissuto la separazione da un animale, o da un oggetto-feticcio, come uno dei momenti più drammatici di quell’esperienza. Sergio Devecchi ricorda con grande sentimento una mucca e un’educatrice dell’Istituto Dio Aiuta di Pura, nel Canton Ticino: “Era una piccola donna un po’ handicappata, incredibilmente affettuosa. Anche lei era cresciuta in istituto. Era l’unica persona che ogni tanto mi abbracciava. Credo sia stata lei a darmi i fondamenti della vita”. Figlio di madre nubile, Devecchi viene prelevato nel 1947, ancora neonato. Oggi è una delle colonne portanti del movimento delle vittime. E la sua storia, simile a quella di migliaia di altri bambini, è diventata un’autobiografia: Infanzia rubata, ora in Italia grazie all’editore ticinese Casagrande.
“Mia madre è tornata a casa e non mi ha più trovato”, racconta. “Come ho saputo solo dopo, per un po’ è venuta a visitarmi in istituto. Poi, mostrandole delle carte false, l’hanno convinta che ero stato adottato”. Al Dio aiuta di Pura è proibito piangere e quando ci si ammala c’è il rischio di essere picchiati; i genitori, come categoria sociale, “sono considerati esseri di un altro pianeta”. Eppure il bambino intuisce che fuori dall’istituto c’è “qualcosa di grande e di bello”. Un giorno cede al richiamo dell’altrove: fugge attraverso i boschi e arriva nella piazza di un villaggio; c’è una fontana con dei bambini che si schizzano a vicenda, i genitori li osservano all’ombra degli alberi. “Mi avvicinai di soppiatto e bevvi, nessuno fece caso a me. Poi corsi indietro veloce come ero venuto”.
Come in altri istituti per bambini, a Pura ci sono collaboratori con tendenze pedofile: di tanto in tanto qualcuno porta un bambino nella stalla dei maiali; Sergio Devecchi è il favorito del figlio maggiore del direttore. Ma la fame di contatto fisico è tale che le attenzioni meno violente, per esempio le carezze di uno degli insegnanti delle elementari, gli fanno addirittura piacere. All’età di 11 anni, senza spiegazioni, viene trasferito all’istituto Von Mentlen di Bellinzona.
Nel tentativo di descrivere ciò che provò allora, traslocato come un oggetto da quella che considerava la sua “patria”, Devecchi usa la parola tedesca Heimweh. È anche il titolo tedesco della sua autobiografia. In Italiano si può tradurre con “nostalgia di casa”, ma non rende fino in fondo: “In Essere senza destino di Imre Kertész”, spiega, “c’è un adolescente che viene deportato nei campi di Buchenwald; dopo la liberazione si ritrova di nuovo a casa, solo e senza speranze, allora nasce in lui il desiderio terribile di tornare laggiù. Questo è Heimweh. Quando mi hanno portato via da Pura non sapevo chi fossi, né da dove venissi, l’unica cosa che sapevo era che appartenevo a quell’istituto”. Ciò che segue è un avvicendarsi di fughe, trasferimenti disciplinari e punizioni. Tra le peggiori ci sono le marce notturne sotto zero, in pigiama e piedi nudi.
A scuola prende bei voti e un insegnante gli consiglia di frequentare il liceo a Coira: “Quando lo raccontai al direttore durante la mungitura, per tutta risposta ottenni un ceffone. ‘Siete figli di ubriaconi e di gente non sposata, resterete sempre in basso’, diceva. ‘L’unica cosa che dovreste imparare è rassegnarvi alla miseria’”. Con questa intesa l’autorità lo dimette, diciassettenne, ributtandolo nel mondo senza soldi, né identità, né casa. È qui che il Verdingkinder, e con lui lo Stato, toccano il punto più basso dell’esperienza assistenziale. Ma Devecchi ha avuto in sorte una forza che altri non avevano; e un incontro fortunato: un giovane assistente sociale riesce a fargli ottenere un sussidio, poi gli propone un tirocinio come educatore sociale. La “nostalgia di casa” lo riporta in istituto come educatore.
Devecchi diventa un pedagogista e un riformatore, sarà direttore di vari istituti e presidente della Società svizzera di pedagogia sociale. Una vergogna mal compresa gli ha impedito di parlare del suo passato fino al giorno del pensionamento: ormai ha 63 anni. “Oggi ne ho 72 e ancora non ne sono uscito. Per anni ho cercato mia madre, ma invano, perché tutti i documenti sono stati distrutti. Ho trovato solo un foglietto con su scritto ‘Sergio Devecchi, figlio illegittimo’. Poi un giorno è suonato il telefono. Era lei, mi aveva visto in tv”.
I Verdingkinder (“bambini-schiavi”) erano minori con difficoltà cognitive, figli illegittimi, figli di genitori divorziati, o poveri, o Jenisch, prelevati d’autorità e collocati in istituti o fattorie per essere impiegati come forza lavoro.
Prima delle responsabilità individuali, quelle dei direttori e degli educatori che hanno permesso o inflitto violenze, prima della negligenza dello Stato, che non ha controllato cosa accadeva negli istituti, c’è un sistema politico e legale che mette nei campi di lavoro i poveri e gli “asociali” (nella Germania nazista il verdetto fatale era “carenza di Gemüt”, lo spirito sociale). E questo ben dopo la Convenzione europea per i diritti dell’uomo (1950). Che la Svizzera, peraltro, ratifica solo nel 1974, necessariamente con riserva dell’articolo 5 del trattato, dove si regolano le condizioni per la privazione della libertà. L’adesione completa alla Convenzione, di fatto, avverrà solo nel ‘81.
Sebbene in alcuni casi “misure necessarie” siano state applicate oltre questa data. Gabriella Salvi è stata rinchiusa nella prigione femminile di Hindelbank il 27 luglio 1983. Le autorità ne ordinano l’internamento per sottrarla a una famiglia povera e violenta; ma a differenza delle criminali comuni a lei non è dato conoscere la durata della sua pena. Ursula Müller-Biondi è arrivata a Hindelbank nel 1967. Capo d’accusa: gravidanza illegittima. «L’unica differenza tra le assassine e quelle come noi era il colore della divisa. Fortunatamente quando mi hanno arrestato ero già al quinto mese di gravidanza, altrimenti mi avrebbero fatto abortire. Il bambino me l’hanno tolto appena nato, neanche il tempo di tenerlo in braccio per un istante». Ursula è riuscita a riavere suo figlio.
C’è a chi è andata molto peggio. Elisabetta viene internata nel ’54: famiglia numerosa e zigana. A 13 anni, spaventata dall’arrivo delle prime mestruazioni, chiede aiuto a una suora dell’istituto. La ricoverano in infermeria dicendole che è appendicite. Molti anni dopo, non riuscendo ad avere figli, si sottopone a delle analisi e scopre di essere stata sterilizzata. Bernadette Gächter ha subito la stessa operazione nel 1972: “Avevo 18 anni. Mi convinsero che ero affetta da disturbi mentali e che mio figlio sarebbe nato ritardato. Prima ci fu l’aborto, poi la sterilizzazione. Da allora ho perso ogni sensibilità al ventre”. Il numero reale delle vittime di sterilizzazione è ignoto, anche se lo storico Thomas Huonker parla di quasi diecimila casi documentati. Sul fenomeno complessivo le stime sono più precise: circa sessantamila internati, circa centomila bambini-schiavi. Le vittime ancora in vita dovrebbero essere tra le dodici e le quindicimila. E qui arriviamo alla questione dei risarcimenti.
La Confederazione ha stanziato 300 milioni di franchi prevedendo un contributo di solidarietà di venticinquemila franchi a persona: le domande potevano essere inviate entro il 31 marzo 2018; ne sono arrivate solo novemila, ma i soldi che avanzano (circa 100 milioni), invece di essere redistribuiti, torneranno nelle casse federali. Per spiegare un numero così basso di domande sono state formulate alcune ipotesi: molte vittime hanno paura dell’autorità pubblica; molte vivono emarginate e in povertà, alcune non hanno saputo, o non avevano gli strumenti per affrontare la burocrazia. Sergio Devecchi ne ha aiutate diverse a preparare i dossier: “È molto complicato, perché bisogna dimostrare di essere stati internati, ma la maggior parte dei documenti è stata distrutta; e poi bisogna dimostrare di aver subito abusi con una relazione dettagliata e convincente. Se la documentazione suscita dei dubbi verremo convocati a Berna per essere ascoltati da una commissione”. Un iter alquanto respingente per delle persone che soffrono quasi tutte di disturbo post-traumatico da stress, come ha mostrato una ricerca dello psicologo Andreas Maercker.
Si è discusso anche della responsabilità morale dei medici e degli psichiatri. Come spiega Marco Borghi, professore di Diritto all’Università della Svizzera Italiana ed esperto di diritti umani, “quelle persone erano viste come diverse, il che giustificava un trattamento diverso, rafforzando lo stigma della diversità. E il problema non è del tutto risolto. Oggi in Svizzera poco meno del 50 per cento dei ricoveri psichiatrici è coatto. Un numero oggettivamente anomalo. Se c’è una persona che disturba e crea problemi il suo destino è di essere ricoverata in una struttura ospedaliera. Qui l’accento non è posto sull’aspetto terapeutico, ma custodialistico”. Un processo di rielaborazione che rievoca la Schuldfrage, la “questione della colpa” aperta dagli intellettuali tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale.
Prima delle responsabilità individuali, prima della negligenza dello Stato, c’è un sistema politico e legale che mette nei campi di lavoro i poveri e gli “asociali”.
Ora la grande domanda è: perché questo ritardo della Svizzera sul piano dei diritti umani? Altri paesi, in realtà, hanno adottato misure “assistenziali” in contraddizione con la Convenzione di Ginevra (sono noti i casi della Germania, dell’Austria, della Svezia, dell’Irlanda). Gli storici tendono ad associare questo fenomeno alle crisi economiche del dopoguerra e al tentativo di ritardare la meccanizzazione dell’agricoltura (e così i grandi investimenti) sfruttando forza lavoro. La storica Loretta Seglias (Università di Basilea), nella Commissione peritale indipendente, riconduce la peculiarità della Svizzera al federalismo e all’idea della povertà come colpa individuale: “Nel Novecento ventisei cantoni, ognuno con le proprie leggi, si sono trovati a fronteggiare una situazione di povertà diffusa. I collocamenti extrafamiliari dei bambini erano un sollievo finanziario non solo per le famiglie, ma per lo Stato che non poteva aiutarle. Ovviamente quelle misure avevano anche una funzione educativa e morale, perché la povertà era considerata una colpa da correggere. L’idea era: togliamo queste persone dalla società, le correggiamo e nel frattempo le mettiamo in condizione di produrre ricchezza”. La commissione ha terminato i lavori. Novemila persone riceveranno venticinquemila franchi. “Così si chiuderà la pagina delle misure coercitive a scopo assistenziale”, commenta amaramente Devecchi.
Immagini dalle fonti della Commissione peritale indipendente Internamenti amministrativi (CPI)