È il 9 novembre 2016 e Frau Merkel si presenta verso mezzogiorno davanti ai giornalisti. Si congratula con “il candidato vincitore” Donald Trump e spiega di avere, come tutti, seguito con tensione l’esito delle elezioni americane. Merkel ricorda che chiunque venga eletto negli Stati Uniti ricopre un ruolo dall’importanza globale e che gli USA sono il partner più importante della Germania al di fuori dell’Europa. Fino a qui la routine diplomatica. Poi, la “Cancelliera del Mondo libero”, come l’ha chiamata il Time, aggiunge che Stati Uniti e Germania condividono gli stessi valori di “democrazia, libertà, rispetto della legge e dignità umana […] senza distinzioni di origini, colore della pelle, religione, genere, orientamento sessuale o opinione politica”. Ed è sulla base di questi valori che, qui e ora, Angela Merkel offre la più stretta collaborazione al futuro governo americano.
In altre parole, la Cancelliera tende la mano a Donald Trump, a patto che Donald Trump smetta di fare il Donald Trump. Non si tratta di una speranza vana, è la speranza di tanti ministeri degli esteri del mondo. La speranza che Trump le abbia sparate grosse e sporche per vincere, ma che ora, da buon uomo d’affari, il tycoon sia pronto a istituzionalizzarsi, a entrare negli usi e costumi delle presidenze americane, a ricordarsi chi siano gli amici e gli alleati storici. Se questo non succederà, l’attuale Governo tedesco e quello americano avranno poco da dirsi.
Una strada oltre il disprezzo
Se il sogno di Angela Merkel era di camminare nella Storia con Hillary Clinton, andando a creare la coppia di donne più potenti del mondo libero (o qualcosa del genere), ora la Cancelliera deve confrontarsi con un Presidente che la accusa di “avere rovinato la Germania” e che sembra essere il suo esatto opposto, in tutto e per tutto: politicamente, culturalmente e personalmente. Cancelliera da 11 anni, Merkel si è affermata, nel bene e nel male, come una leader incredibilmente calma e attendista, talvolta quasi ispirata a una strategia del wu wei, l’azione-non-azione taoista. Dopo lo scandalo NSA, Merkel ha riaperto le porte a Barack Obama, dopo una semplice scaramuccia dimostrativa. È sempre Merkel ad aver dialogato con Putin nonostante una guerra in corso in Ucraina ed è lei che continua a dialogare con Erdogan, con un’instancabile e calcolata determinazione. Insomma, Angela Merkel ha il grande dono di non prendere gli attacchi politici come attacchi personali e l’intelligenza di occuparsi della vendetta solo quando non è più pericolosa, come ha fatto nel caso della liquidazione di Silvio Berlusconi.
Donald Trump – fino a oggi – ha dimostrato invece caratteristiche esattamente opposte a quelle della Cancelliera. Non c’è distinzione tra la politica di Trump e la sua persona. Anzi, non c’è distinzione tra la sua politica e il suo stesso corpo. Non solo, tante dichiarazioni di Trump sembrano dettate da una volontà di vendetta, un’emozione che si connette perfettamente con il risentimento sociale e psicologico che contraddistingue ampi strati dell’America che lo ha eletto: uomini e donne, spesso bianchi, che non solo si sentono frustrati dalla loro contingenza sociale, ma si sentono anche penalizzati, colpevolizzati e paradossalmente estromessi dalle narrazioni collettive.
Merkel si è affermata, nel bene e nel male, come una leader incredibilmente calma e attendista.
Il businessman-Presidente ha vinto offrendo loro una narrazione nuova, che ha fatto sentire protagonista chi vive da tempo la percepita umiliazione di un primato perduto. Una narrazione che non si è occupata solo di Stati Uniti d’America. Quando Donald Trump ha voluto parlare delle presunte conseguenze di un’eccessiva tolleranza interculturale, infatti, ha più volte indicato proprio Angela Merkel come il perfetto esempio negativo. Hillary Clinton voleva diventare “la Merkel d’America”, ha detto Trump. Una Merkel americana pronta a fare entrare nel paese centinaia di migliaia di profughi siriani. Non solo immigrati, quindi, ma musulmani: due categorie cruciali per la propaganda di un repubblicano inviso al suo stesso partito.
Da parte loro, i politici di governo tedeschi non hanno risparmiato negli ultimi mesi nessuna critica a Trump, fino a disprezzarlo pubblicamente, in barba a tutte le tradizioni diplomatiche. È con questi presupposti e dopo diverse altre sgradevolezze che, ora, la Cancelliera dovrà trovare una via di pace con il nuovo Presidente americano. Non sarà facile. Merkel dovrà cercare di essere ferma nei principi e paziente nei toni, visto che, almeno mediaticamente, Trump potrebbe inscenare un inedito disinteresse per l’Europa e una qualche forma di vendetta simbolica nei confronti della Germania che lo ha osteggiato.
Un nuovo anno zero delle relazioni?
Secondo diversi analisti tedeschi, le difficoltà economiche in seno alla sgangherata Unione Europea non tarderanno a spuntare, ma quello che sembra preoccupare di più la Germania è trovare subito un dialogo sulla spinosa questione della Nato. Non è un caso se, a poche ore dalle elezioni americane, la Ministra della Difesa tedesca, Ursula von der Leyen, abbia quasi nevroticamente chiesto subito un chiarimento sul futuro americano nell’alleanza atlantica.
Sembra chiaro che Angela Merkel dovrà convincere Trump che gli Stati Uniti non possano rinunciare a sostenere l’alleato tedesco e che andare ognuno per la propria strada sia un ottimo modo per finire entrambi male. Nel caso l’opera di convincimento non riuscisse, l’America potrebbe subito iniziare a battere cassa nella Nato o, ancora peggio, a isolarsi completamente dagli scenari internazionali. In questo caso la Germania potrebbe essere chiamata a dover investire più soldi nel proprio esercito. Oppure, sarà all’interno della UE che si dovrà provare ad accelerare la creazione di un esercito europeo. In entrambi i casi, ci vorrebbero molti soldi e, nel caso di un nuovo ruolo dell’esercito tedesco, andrebbero a modificarsi la forma e gli equilibri stessi dello Stato federale, le cui forze armate, proprio in base allo spirito della loro adesione alla Nato, sono sempre rimaste un elemento marginale e al di sotto del proprio potenziale.
Si potrebbe anche ipotizzare la possibilità di un inaspettato avvicinamento post-atlantico tra Germania e Russia. Ma bisognerebbe in questo caso chiedersi quale delle Germanie entrerebbe in gioco, visto che i sentimenti tedeschi verso la Russia sono estremamente ambivalenti, in uno scenario di spaccatura quasi geografica, e che l’amicizia tra i due paesi è storicamente macchiata di diffusi rancori. La sola cosa certa è che una mutazione dell’impegno e delle responsabilità militari della Germania sarebbe la vera e propria svolta epocale nelle relazioni con gli Stati Uniti. La Germania democratica che conosciamo oggi è il risultato di uno storico rapporto speciale con gli USA, nato dopo la Seconda Guerra mondiale, quando i tedeschi hanno rinunciato alla rinascita del proprio velenoso spirito espansionistico, traducendolo razionalmente nell’esportazione commerciale degli sforzi industriali e nella ricerca di un potere economico e non militare.
Donald Trump, fino a oggi, ha invece dimostrato caratteristiche esattamente opposte a quelle della Cancelliera.
La Germania di oggi, in sostanza, è ancora il risultato di quel capolavoro pacificatore che, da momenti di annichilimento completo come il bombardamento di Dresda o esorcismi collettivi come il processo di Norimberga, era evoluto nel piano Marshall e nel sostegno americano del boom economico della RFT. Nel corso dei decenni, la stessa economia sociale di mercato tedesca è stata avallata dalle amministrazioni americane in funzione anticomunista e non c’è stato presidente americano, Nixon incluso, che non abbia dialogato a braccetto con le leadership socialdemocratiche e cristiano-democratiche della Germania occidentale. Ecco perché, ad esempio, paragonare l’attuale successo di Trump a quello di Reagan è abbastanza fuorviante: Ronald Reagan era un candidato in piena linea con la politica estera dell’establishment americano. Un quarto di secolo dopo l’”Ich bin ein Berliner” di Kennedy, l’ex attore diventato Presidente arrivò a Berlino ed esclamò in mondovisione: “Signor Gorbaciov, tiri giù questo muro!”. E il muro venne giù, poco dopo. Se domani nella capitale tedesca arrivasse Donald Trump, per intenderci, il meglio che potrà fare è raccontare come, questa volta, un muro verrà tirato su di nuovo, più precisamente tra gli Stati Uniti e il Messico.
In ultima analisi, ancora prima dei problemi strategici, sono la personalità e la cultura stessa di Trump che rischiano di sancire la fine definitiva del feeling tra governi USA e quella Germania sconfitta che fu trasformata in amica. Per decenni, in un modo o in un altro, i tedeschi hanno accolto, rimodulato e riprodotto il messaggio di ideologia della libertà degli Stati Uniti. Se questo messaggio diventa secondario o scompare, viene distrutto il valore che ha fondato l’amicizia tra i due paesi dal dopoguerra in poi. E si ritornerebbe all’anno zero.
Trump come virus
Se vogliamo quindi chiederci quale sia la più grande urgenza della nuova politica americana della Germania, oltre alla Nato e alle costanti minacce di una nuova crisi economica, c’è certamente anche la preoccupazione dell’attuale establishment istituzionale tedesco di evitare che Trump galvanizzi il fronte populista interno, già di suo in ascesa. Il successo di Trump è stato raggiunto con una comunicazione spregiudicata che rivendica l’abbattimento di tabù linguistici, la decisa affermazione identitaria e l’accusa di disonestà intrinseca rivolta verso i media, rischiando così di diventare un canovaccio troppo simile e sovrapponibile per il populismo tedesco.
Si potrebbe anche ipotizzare la possibilità di un inaspettato avvicinamento post-atlantico tra Germania e Russia.
Se poi si conta che in Germania ci sono elementi oggettivi e contingenti di conflitto etnico e sociale (due su tutti: la cosiddetta crisi dei migranti e l’aggressività degli islamismi più oltranzisti) il Governo tedesco sa che il Paese potrebbe gradualmente deviare verso una cultura opposta all’attenta e talvolta repressiva correttezza formale di oggi, che sembra tenere unicamente a causa della particolare storia nazionale, ma che viene sempre più strattonata da nuovi e veloci estremismi. E il fatto che le origini di Trump siano tedesche (suo nonno emigrò da Kallstadt a fine Ottocento) potrebbe paradossalmente fornire ulteriore benzina al motore identitario, anche solo sul piano narrativo.
Da questi rischi nasce l’attuale speranza tedesca che la Presidenza Trump si trasformi al più presto in una più vaga forma di management del consenso politico, capace di allargare il target group della propria politica e di fare agilmente un rebranding del marchio, in nome di spietati ma non contagiosi valori puramente capitalistici. Se non fosse così, la possibilità più concreta è che la svolta americana di Trump si sviluppi in un virus capace di inoculare l’ispirazione finale per i populismi identitari europei.