N ella luce del mattino, tra fichi d’india e muretti a secco, un uomo corre a perdifiato lungo un sentiero sconnesso che si affaccia sul mare. Cerca di raggiungere un traghetto prima che salpi, e intanto urla con quanto fiato ha in corpo: “Meme! Intelligenze artificiali! Notifiche! Sincronizzazione tra dispositivi! Aspettatemi! Ma come fate a vivere senza content? Ferma! Fermi! Ian Bogost mi fa pena quando dice che dovremmo limitare i nostri contatti online a centocinquanta persone! Aaaah! Ferma! Nicholas Carr, hai torto marcio! Non è vero che Internet ci rende stupidi! Anzi, le persone grazie a Internet sono esposte alla necessità di ragionare più spesso di quanto lo siano mai state prima!”
Se entro i prossimi vent’anni verrà girato un remake di Caro Diario di Nanni Moretti, probabilmente conterrà una scena come questa. Nel film originale, Gerardo (Renato Carpentieri) è in fuga dall’isola di Alicudi dopo un soggiorno brevissimo, avendo appena scoperto che sull’isola non esistono televisori. Mentre corre, sbraita contro Hans Magnus Enzensberger e Karl Popper, colpevoli di aver detto che “la televisione è il nulla” e che fa rincretinire i bambini. Fino a pochi giorni prima, aveva sottoscritto lui stesso quelle critiche nonostante non vedesse un minuto di televisione da decenni, occupato com’era a studiare Ulisse di James Joyce in ritiro sulla vicina isola di Lipari. Ha rivalutato le trasmissioni televisive – anzi, sembra non saperne fare a meno – da quando ha capito che possono indurre in chi le segue esperienze significative quanto qualunque altro prodotto culturale.
Un Gerardo sarebbe d’obbligo, nell’ipotetico remake di Caro Diario al tempo delle piattaforme digitali. Il conflitto di fondo incarnato dal personaggio, quello tra una parte della sinistra e i mezzi di comunicazione di massa, resta irrisolto: dal secondo dopoguerra a oggi ha portato intellettuali di vaglia e loro seguaci a vivere con distacco e sospetto il cinema, poi la televisione, e negli ultimi anni ovviamente i social media.
È vero che i mezzi di comunicazione, in una società dominata dal capitale, funzionano anche come strumenti di persuasione o sedazione al servizio del capitale stesso. Dalla sinistra radicale però ci si aspetta che punti a conquistare, e non a disprezzare, i mezzi di produzione di cultura, come punta a conquistare i mezzi di produzione di beni. Alcuni ritengono che questa considerazione basti a rimuovere ogni problema; altri portano il ragionamento ancora più in là.
Dalla sinistra radicale ci si aspetta che punti a conquistare, e non a disprezzare, i mezzi di produzione di cultura, come punta a conquistare i mezzi di produzione di beni.
Sappiamo che la tecnologia non è neutrale: se dunque gli schermi grandi, piccoli e palmari sono progettati in funzione degli obiettivi e delle logiche del capitalismo, non saranno intrinsecamente destinati ad assopire le coscienze davanti all’ingiustizia del sistema, persino quando cerchiamo di usarli per risvegliarle? Se girare film, intervenire nei talk show e postare meme anticapitalisti servisse a qualcosa, davvero ce lo lascerebbero fare?
Che i prodotti culturali di sinistra servano a qualcosa, è difficile dirlo. L’utilità non è la categoria migliore a cui fare riferimento per esprimere giudizi su queste cose; non lo sarebbe neppure se parlassimo di cinema, televisione e content intenti a sostenere il clima economico-politico imperante anziché opporvisi. Forse anche in virtù di questa consapevolezza, tra le altre, il rapporto della sinistra con le arti e la comunicazione non si è mai davvero interrotto. Si tratta sempre di un rapporto problematico, però, che richiede riflessioni e condivisione e dibattiti.
Per quanto riguarda i meme, sui quali si concentrerà questo articolo, è uscito da pochi mesi in italiano Perché la sinistra non impara a usare il meme? di Mike Watson (Meltemi, 2022, trad. Federica Maria Marrella). Il titolo può suonare come un’esortazione da seguire o come un problema da indagare, ma implica che la sinistra non abbia mai imparato come si usano i meme. A chiunque segua la produzione memetica italiana e/o internazionale con occhio laico, sembrerà un giudizio esagerato: com’è naturale, per ogni parte politica ci sono da tempo persone e collettivi in grado di realizzare con una qualche costanza meme significativi, divertenti, talvolta profondi. In coda all’articolo, provvederemo a tracciare le linee essenziali del caso italiano.
La traduzione del titolo del libro non ha conservato il riferimento originale: Can the left learn to meme? trasformava in domanda un vecchio sfottò dell’alt-right, The left can’t meme, secondo cui la sinistra sarebbe impedita dai legacci del politicamente corretto e quindi incapace di memare. Del resto, anche se l’editore si fosse attenuto alla lettera con “La sinistra può imparare a memare?”, non sarebbe cambiato l’implicito di fondo, con la sinistra che deve ancora apprendere come fare meme – e che potrebbe persino non poterlo apprendere, per una qualche tara intrinseca.
Se girare film, intervenire nei talk show e postare meme anticapitalisti servisse a qualcosa, davvero ce lo lascerebbero fare?
Se l’implicito pare fuori luogo è anche perché il saggio risale al 2018, nonostante sia stato tradotto in italiano solo adesso. Da allora, il meme-attivismo grassroots, dal basso, ha conosciuto una grande diffusione tra gli utenti, diventando un fenomeno che interessa una fascia sempre più ampia di utenti creator o condivisori, e il linguaggio memetico è stato ampiamente cooptato dalla comunicazione politica oltre che da quella aziendale.
Sebbene il contesto sia cambiato, e sebbene il libro di Watson non sembri interessato a ciò che i meme politici nella maggior parte dei casi sono (cioè strumenti per diffondere alcune narrazioni e sabotarne altre, consolidare i ranghi degli amici e indispettire i nemici, etc), possiamo ancora trarre dal saggio qualcosa di significativo: non un invito a realizzare meme di un certo specifico tipo, quanto le lenti con cui riconoscere a posteriori una qualità “di sinistra” o “anticapitalista” a un certo modo di stare sui social media (ed eventualmente memare) che già esiste anche se spesso non è politicizzato.
L’azione di contrasto che propone non si gioca sull’assetto proprietario delle piattaforme digitali, sul consenso popolare o sul potere politico, ma nella coscienza dell’utente; Perché la sinistra non impara a usare il meme traccia una via d’uscita dalle dinamiche oppressive della cultura capitalista, ma spirituale e temporanea (se non proprio fugace).
L’azione di contrasto che propone Watson non si gioca sull’assetto proprietario delle piattaforme digitali, sul consenso popolare o sul potere politico, ma nella coscienza dell’utente.
Precedente illustre e parallelo costante, nel corso del libro, sono le teorie di Theodor W. Adorno (1903-1969) sulle potenzialità dell’arte astratta: secondo il filosofo francofortese, l’opera d’arte astratta sarebbe capace di rompere le catene iper-razionaliste imposte al pensiero da una civiltà come quella occidentale, colpevole di aver preso l’Illuminismo troppo sul serio e di averlo portato alle estreme conseguenze. Nel tentativo di soggiogare e controllare una natura misteriosa e minacciosa, dice Adorno, gli esseri umani si sono costruiti un paradigma concettuale adeguato al compito, e hanno iniziato a percepirsi come soggetti in un mondo popolato da oggetti. Questo modello, il “pensiero dell’identità”, trova l’apoteosi nell’attuale sistema socio-economico.
Così riassume Watson:Per Adorno, è l’opera d’arte astratta moderna che espone momentaneamente la menzogna intrinseca che caratterizza la società omogenea e mercificata. Quando il soggetto osserva l’opera d’arte moderna, può sentirsi “sopraffatto”, riportandolo così a un senso di “brivido primordiale” che il soggetto ha provato di fronte alla natura sfrenata prima che esistessero forme di dominio illuminista. […] la natura bizzarra dell’opera astratta è al di là dell’identificazione da parte del soggetto e quindi lo riporta a uno stato d’essere pre-soggettivo.
Curatore di mostre e critico d’arte egli stesso, Watson non ha alcuna fiducia nella prospettiva che oggi una qualche liberazione possa provenire dal circuito dell’arte contemporanea, completamente assorbito da quella che Adorno stesso definiva con disprezzo “industria culturale” e trasformato in circuito d’investimento anziché motore di sovversione. Anche i meme e gli altri contenuti che viaggiano sulle grandi piattaforme digitali concorrono ad alimentare nient’altro che la forma più recente di capitalismo estrattivo, l’economia dei dati; a Watson, il punto non sfugge. Tuttavia, trova che nella radicale democrazia creativa di internet ci sia comunque una libertà da sfruttare e, non presagendo un crollo del sistema a breve, non vede alternativa al prendervi parte, a patto di non lasciarsi assimilare dalle logiche che lo governano. Una produzione significativa o veramente “libera” sembra quasi impossibile. Sembrerebbe quindi che l’unica opzione che abbiamo sia quella di imbastardire i meccanismi di produzione e ricezione culturale capitalista dall’interno, ancora e ancora, sapendo sempre che la macchina è troppo vasta, troppo onnicomprensiva per essere superata completamente. Come pezzi di quella macchina, abbiamo il diritto di aiutare a riconfigurarla con shock e brividi che potrebbero riverberare e ringiovanire il pubblico almeno temporaneamente.
Non tutti i meme sono in grado di provocare “shock e brividi”. Anzi, la maggior parte dei contenuti che incontriamo sui social media – quelli che ottengono il maggior successo – sono improntati proprio al “pensiero dell’identità”, al tentativo di autorappresentarsi in modo sorvegliato, coerente e riassumibile in una bio. I nostri profili social sono una tavoletta vuota che potrebbe funzionare come uno specchio – rimandare la nostra immagine in tutte le sue asimmetrie e imperfezioni – ma preferiamo sempre disegnarci sopra un autoritratto stilizzato; nei momenti d’incertezza torniamo a guardarlo convinti di ritrovarvi ciò che siamo, e invece stiamo guardando una caricatura. Lo fanno anche le persone “di sinistra”, ma in quest’ottica lo si potrebbe definire un gesto “di destra”.
I riferimenti ai meme nel testo di Watson sono molto generici ed è difficile capire quali, secondo l’autore, producano un effetto paragonabile a quello che per Adorno aveva l’arte astratta. A essere citati sono piuttosto la musica Vaporwave, la serie YouTube Don’t Hug Me I’m Scared e alcuni videogiochi online come Overwatch e League of Legends. Esempi discutibili per una quantità di ragioni, e ormai datati; del resto, possiamo pensare che la selezione sia insoddisfacente senza per questo squalificare tutto il discorso.
La maggior parte dei contenuti che incontriamo sui social media sono improntati al “pensiero dell’identità”, al tentativo di autorappresentarsi in modo sorvegliato, coerente e riassumibile in una bio.
Proviamo allora a trovare esempi più convincenti. A chi ha coltivato i propri feed social in modo da ricevere, di tanto in tanto, la doccia fredda dello straniamento, leggendo Watson verrà forse da pensare alle cursed images, alle surreali combinazioni automatizzate di pagine come Four Panel Bot, alle immagini disturbanti generate da tecnologie text-to-image o al cosiddetto schizoposting. Tutti materiali “difficili”, senza un senso chiaro e univoco (a volte, senza alcun senso) o complessi da decifrare, talvolta a rischio di censura da parte delle piattaforme; radicalmente altri rispetto al flusso social ordinario di ricordi, battute, analisi, proclami e autopromozione.
Nel noioso brusio dello scrolling infinito, imbatterci nei post più caratteristici di ÐΣΣP ÐΣΛ7H 腐敗 (ex Carogne Sommerse) significa ritrovarci all’improvviso in una quiete quasi sacrale; leggere, dopo decine di stupidaggini dimenticabili, un componimento di Nuova Poesia Troll, ci strappa per un momento alla macchina del quotidiano e ci dà una sensazione simile a quella di cui parlano Adorno e Watson: indossiamo gli occhiali di Essi vivono, realizziamo di essere costantemente esposti a nient’altro che propaganda.
Name one thing in this photo pic.twitter.com/zgyE9rL2XP
— 𝙙𝙪𝙢𝙗𝙖𝙨𝙨 𝙖𝙨𝙨 𝙞𝙙𝙞𝙤𝙩 (@melip0ne) April 23, 2019
Il perturbante nel 2022: un’immagine in cui tutto sembra familiare ma nulla lo è davvero
Agli albori di Facebook, molti utenti tendevano a scrivere qualunque banalità passasse loro per la testa e a raccontare qualunque attività a cui si stessero dedicando. I primi post di polemica interna a Facebook sono stati proprio quelli di chi si scagliava contro gli aggiornamenti di stato dei propri amici che scrivevano (in terza persona, per via della formattazione dei post) “è in doccia”, “ora risponde a tutte le mail arretrate” e simili. Rispetto ad allora, l’uso degli stati di Facebook non ricalca più quello di Msn Messenger; i più accorti hanno anche provveduto a nascondere o cancellare retroattivamente le proprie tracce digitali ingenue e talvolta imbarazzanti. Il testo di Watson, invece, potrebbe essere letto come un invito a rivalutarle, in quanto slegate dalla competizione per l’autorappresentazione.
Nel 2018, Alessandro Lolli aveva celebrato lo shitposting (in particolare nella forma del textposting) proprio come violazione delle regole implicite dei discorsi social: negazione del self-branding, critica al content ipercurato, spudorata incontinenza verbale, versione evoluta di “è in doccia” dotata di una consapevolezza e un’intenzione che all’originale mancavano.
Il textposting è nemico tanto dell’intervento serio sull’attualità o della satira politica, quanto della battutina costruita a puntino intorno a un aneddoto di vita vissuta. Il textposting somiglia al flusso di coscienza, al diario privato, all’osservazione casuale, alla confessione inopportuna, alla parabola surreale, alla chiacchierata tra amici.
In un passaggio dell’articolo di Lolli troviamo anche un riferimento che non stonerebbe nel libro di Watson a proposito di superamento del “pensiero dell’identità”: Lo shitposting, anche quando produce contenuti ironici, ha dimesso l’io, è anzi il rumore di una ferocissima battaglia per annullarlo, per conquistare il diritto di parlare senza calcoli, senza astuzie, senza artifici.
Sottrarsi alle regole non scritte dei social senza ridursi al silenzio è un’impresa davvero degna di nota, a livello personale e artistico. D’altra parte, è difficile immaginare che valore possa avere per “la sinistra”. Lo stesso Adorno ammetteva di non sapere come o quanto potesse essere utile, in termini collettivi e pratici, il raggiungimento momentaneo di uno stato “pre-soggettivo”.
Sottrarsi alle regole dei social è un’impresa davvero degna di nota, a livello personale e artistico, ma è difficile immaginare che valore possa avere per “la sinistra”.
Contenuti che si rifiutano di sottostare alle logiche degli algoritmi e della popolarità social attirano inevitabilmente un pubblico ridotto, se non vogliono precipitare nel paradosso: sarebbero un fallimento se avessero successo. Troveranno una nicchia che li apprezza – e che in parte li apprezza proprio perché li vede staccarsi dallo sfondo del consueto chiacchiericcio – ma non potranno essere strumento di un diffuso risveglio dal torpore capitalista. La sinistra, come qualunque forza politica, di un’identità ne avrebbe bisogno, per ottenere un qualche risultato. Non è del tutto impossibile politicizzare il distacco dal mondo, con una certa dose d’ipocrisia, ma maestra in questa operazione non è la sinistra: basti vedere in che modo l’aristocratico sprezzo verso il mondano di un personaggio come Carmelo Bene sia da tempo oggetto di fascino in Casa Pound e tra molti giovani di destra di una qualche cultura.
Per Adorno, obiettivo fondamentale era che l’essere umano ritrovasse una speranza a cui tendere, in un tempo che aveva conosciuto orrori come quelli di Auschwitz; orrori non irrazionali ma troppo razionali, costruiti intorno alla possibilità di concepire come oggetti persino gli altri soggetti. Intuì che l’arte astratta, svincolata dalla razionalità e dall’identificabilità della figurazione, poteva offrire un minuto di libertà a chi voleva sottrarsi al dominio dell’utile e del produttivo. Sulla scorta di questo ragionamento, Watson cerca speranza nell’opporsi alle forze conservatrici che interpretano la contemporaneità come disordine; suoi bersagli polemici, nel libro, sono in particolare Jordan Peterson e Steve Bannon, fautori di un rapporto rigido e tradizionalista con sé stessi e con la società. Da qui, con coerenza, deriva l’interesse del testo di Watson per la dis-individuazione piuttosto che per strategia e organizzazione. Se pure quello contemporaneo è caos, non va ridotto all’ordine ma accolto e tradotto in arte: “abbracciare i modi di astrazione che emergono dal panorama dei nuovi media”, scrive Watson, “perché è lì che i millennial si rifiutano di arrendersi al cinismo dei mercati o al populismo di destra, sovvertendo (out-weirding) il mondo in generale”.
La generazione millennial è la fetta di popolazione (occidentale) che oggi si trova tra la seconda metà dei vent’anni e la prima metà dei quaranta. Perché la sinistra non impara a usare il meme? vede in questa fascia d’età una diffusa disillusione per le promesse dei principali sistemi politici, quello capitalista e quelli comunisti del Novecento. Accertato il fallimento di questi sistemi pensati per controllare la società e le risorse del pianeta, sostiene Watson, i millennial sono nella posizione giusta per riconoscere il valore dell’astrazione e delle esperienze irrazionali. “L’autonomia individuale (libertà, se si può essere così audaci) può essere avvertita solo come una forma di disprezzo per i processi della vita quotidiana”, scrive Watson. In un altro passo, riassume: “il millennial è adorniano”.
Non è del tutto impossibile politicizzare il distacco dal mondo, con una certa dose d’ipocrisia, ma maestra in questa operazione non è la sinistra.
È una scelta curiosa, quella di individuare nel millennial il soggetto-chiave di un discorso come questo, che di un soggetto-chiave avrebbe potuto fare a meno. Anche altrove nel testo, per inciso, Watson sceglie dei rappresentanti assai opinabili per esporre la sua proposta. Su tutti, la famiglia Kardashian-Jenner: Si possono disprezzare i Kardashian-Jenner con tutto il cuore, ma allo stesso tempo vedere la potenzialità nel sistema che ha dato loro un grande potere culturale, e che darà potere a molte altre persone, e potrebbe anche alla fine rompere il sistema dell’élite culturale. […]
Vale la pena, ad esempio, tenere presente che l’uso dei social media da parte dei Kardashian-Jenner, come strumento per attirare l’attenzione delle persone, ha ispirato una generazione di giovani donne ad acquisire fama e/o notorietà dove altrimenti non sarebbe stato possibile.
La corsa alla fama, nella società dello spettacolo, è il genere di accumulazione di capitale pertinente all’industria culturale; il contrario dell’arte astratta a cui pensava Adorno, e riesce difficile pensare che possa avere un ruolo nell’avversare il sistema. Senza scadere nel moralismo che riconosce purezza solo all’irrilevanza, possiamo dire che nella quasi totalità dei casi, nelle società occidentali, ottenere notorietà ha il solo effetto di convalidare e riprodurre le meccaniche già dominanti. La stessa comparsa sugli schermi di personaggi outsider è una pantomima d’inclusività utile solo ad accogliere chi non può mettere il sistema in discussione.
Perché la sinistra non impara a usare il meme? lavora con ciò che il mondo contemporaneo mette sul tavolo; in un’operazione del genere, è difficile non sporcarsi le mani. Vista la disponibilità di Watson ad avventurarsi tra i casi concreti, sarebbe stato interessante leggere un’analisi approfondita di meme propriamente detti, o di progetti memetici a opera di singoli o gruppi. D’altra parte, l’ottica del testo non sarebbe stata adeguata a discuterli: soprattutto in Italia, dove Watson viveva mentre scriveva il libro, la sinistra memetica è stata in buona parte frutto di una visione strategica, espressione di un tentativo di controllo della realtà molto poco “adorniano”.
Tra il 2017 e il 2019, in particolare, quando qualcuno credeva ancora che da sinistra non si potesse memare in modo credibile e il fervore creativo della sottocultura memetica era più vivo a destra che a sinistra, diverse centinaia di persone hanno tenuto vivo un dibattito online che aveva i caratteri dell’assemblea e del laboratorio, per insegnarsi da sole come fare meme efficaci e coerenti con le proprie idee. Nella Wunderkammer dove sono custodite le esperienze collettive che hanno animato e dilaniato la sinistra, a queste vicende spetterà almeno una piccola teca. È una storia che merita un breve approfondimento, sia di per sé, sia per giustificare l’attenzione che abbiamo dedicato più sopra alle aspettative suscitate dal titolo del libro di Watson.
In Italia la sinistra memetica è stata in buona parte frutto di una visione strategica, espressione di un tentativo di controllo della realtà molto poco “adorniano”.
L’epicentro di questa elaborazione memetica di sinistra, nella sua prima fase, è stato il gruppo Facebook Suona come il sinistralibro italiano ma va bene (d’ora in poi, Sinistralibro); non perché tutto avvenisse lì o perché nulla fosse avvenuto prima, ma perché sono state le posizioni emerse dagli utenti di quel gruppo a segnare in modo più chiaro e più a lungo, per quanto ci è dato di vedere oggi, la percezione diffusa di come vadano fatti i meme di sinistra. Se di questo c’è una conferma lampante, è nel fatto che la polemica contro i meme di sinistra tende tuttora a bersagliare proprio quell’approccio politico ed estetico, riconoscendolo come punto di riferimento.
Dal Sinistralibro c’è stato travaso verso altri gruppi Facebook dalla sensibilità politica più o meno affine – alcuni preesistenti e più popolati – come Odio di classe, Hipster Democratici e Palazzo Chigi. Dai nomi coinvolti è facile farsi un’idea dello spettro di visioni in gioco, dalle più movimentiste a quelle più vicine alle istituzioni. In parte, ciò è avvenuto perché gli stessi utenti frequentavano più gruppi; in parte, perché gli utenti di casa nel Sinistralibro avevano più spesso, per “cultura condivisa”, la tendenza a esprimersi col piglio di chi sente di avere ragione; e in parte perché dal Sinistralibro, in quel periodo, uscivano meme che attiravano l’attenzione e polarizzavano le posizioni. A un qualche livello, probabilmente, promettevano di essere quelli “più di sinistra”, qualità che sempre affascina chi teme di non esserlo abbastanza. Naturalmente, ci sono stati anche casi di contaminazioni in senso opposto, dagli altri gruppi verso il Sinistralibro.
I problemi con cui confrontarsi per delineare una memetica di sinistra erano molti. Su quali social media ha senso postare meme di sinistra? Con quali giustificazioni teoriche e pratiche? Quali basi è lecito usare, e quali battute è opportuno fare, per non ripetere stereotipi razzisti, sessisti, transfobici, etc? Come interpretare politicamente un dato fenomeno di attualità? Come evitare di farsi bannare dalle piattaforme? A che fascia di pubblico parlare, con quali riferimenti culturali? Come interagire con le pagine di posizioni affini, come con quelle avversarie, e come con i commenti critici?
Da risposte diverse a queste domande sono nate numerose pagine: per coprire pubblici più ampi, per mettere a frutto diverse sensibilità creative, o per la tradizionale tendenza della sinistra al dissidio interno. Citiamo alcune tra le più longeve (al netto di ban e riaperture), senza pretesa di completezza: Automatizzato Comunismo Memetico, La sinistra che odia, Polpo di Stato, Il tempo delle meme. Nel tempo, sono nati anche ulteriori spazi online di coordinamento per proporre e discutere meme, e per smistare i contenuti tra pagine a seconda della linea editoriale di ciascuna e tra piattaforme a seconda dei rischi di censura.
Per prendere il potere e per conservarlo, gli interventi sull’immaginario collettivo sono sempre stati necessari, non sono mai stati sufficienti.
Quando parliamo di meme “efficaci”, come scritto qualche paragrafo più sopra, non dobbiamo pensare ai meme che fanno vincere un’elezione o provocano una rivoluzione; quelli sarebbero senz’altro meme efficaci, ma non esistono. Dei post su una piattaforma non sono abbastanza per trasformare l’assetto di fondo di una società complessa come la nostra. Nemmeno una trasmissione televisiva negli anni d’oro della televisione sarebbe stata all’altezza di un compito del genere. Per prendere il potere e per conservarlo, l’arte, le narrazioni, il giornalismo, la propaganda e in generale gli interventi sull’immaginario collettivo sono sempre stati necessari, non sono mai stati sufficienti.
Meme politici efficaci funzionano all’interno del loro ambito, la comunicazione: costruiscono dissenso intorno a una realtà presente, consenso intorno a un’alternativa, e mettono un arsenale retorico a disposizione di chi ne sente il bisogno, per far fronte alle argomentazioni degli avversari e per tenere in riga gli eventuali dubbi privati. Popolano di simboli e parole d’ordine un immaginario che fino a quel momento era stato occupato da altre forze. In Italia tutto questo è successo, in una certa misura, spesso in relazione di rinforzo reciproco con dinamiche più ampie – non ultime, lo slacktivism e l’appropriazione da parte del discorso dominante di termini e simboli che nascevano per scardinarlo.
Le dinamiche dei collettivi radicali portano facilmente al settarismo, al rancore e all’inazione; nel caso del Sinistralibro e degli altri spazi di discussione, l’inazione memetica è stata scongiurata. Per il resto, la scena nel corso degli anni si è frammentata, anche complice il movimento verso piattaforme come Instagram, pensate per i singoli più che per i gruppi. Il genere di confronto tra account militanti non è scomparso, ma non sembra esistere più uno spazio di autodidattica e confronto tanto partecipato quanto lo è stato il Sinistralibro. Probabilmente anche perché ormai non serve: con più o meno consapevolezza, i meme di molti riecheggiano lessico e retoriche visive che hanno preso piede proprio in quella “generazione” di creator.