N el 1914 un azzimato Thomas Edward Lawrence posava davanti alla macchina fotografica nel bel mezzo dello scavo archeologico di Carchemish. Di lì a poco la guerra lo avrebbe trascinato tra il Cairo e l’Hejaz, il grande deserto nel cuore dell’Arabia, e poi su fino a Damasco. La sua cavalcata vittoriosa alla testa di uno scalcagnato esercito arabo è scomparsa nel giro di poco, cancellata e riscritta dalla penna di Mark Sykes e François Georges-Picot – e di tanti altri. I nuovi confini hanno tagliato Carchemish in due lungo le rotaie della Berlino-Baghdad su cui viaggiava il celebre Orient Express: a nord la turca Karkamış, a sud la siriana Jarablus.
Vecchi e nuovi confini
Chi sostiene che quei vecchi confini oggi non contino più semplicemente sbaglia. Li ha rispettati l’Isis quando ha occupato Jarablus alla fine del 2013, guardandosi bene dall’avanzare di un solo passo in Turchia. Li ha rispettati anche dopo la tonitruante dichiarazione del Califfato dalla moschea di al-Nuri a Mosul, che quei confini diceva di abbattere: due le “capitali”, una siriana e una irachena. Ancora, è per un presunto sconfinamento che i turchi hanno abbattuto un caccia russo in missione sulla Siria, nel novembre del 2015.
A considerare le vicende degli ultimi anni, tra Siria, Iraq e Turchia sembra proprio l’opposto: i vecchi confini contano molto più di prima perché sono in tanti a volerne tracciare di nuovi. È da Jarablus che l’esercito di Ankara ha invaso la Siria lo scorso agosto, proprio per anticipare le milizie curde siriane e impedire che tracciassero i nuovi confini di una loro zona di autonomia. Gli altri curdi, quelli iracheni, minacciano con cadenza mensile Baghdad paventando la secessione. Da tempo gli osservatori parlano di “Siria utile”, ovvero quello spicchio occidentale di Siria che, se passasse per intero sotto il controllo del regime, garantirebbe a Bashar al-Assad la vittoria anche con l’altra metà del paese in fiamme.
False soluzioni
Il minimo comun denominatore di tutto questo caotico groviglio sembra l’eventualità di una spartizione, il disegno di una nuova mappa per gran parte del Medio Oriente. Tante le ipotesi avanzate, più o meno verosimili. Per fare solo un esempio, la nascita di un grande stato sunnita tra Siria e Iraq, uno staterello alawita come feudo di Assad sul Mediterraneo, un secondo staterello sciita nel sud iracheno e tutta la fascia a nord che diventa il Kurdistan (magari con qualche pezzo di Turchia).
Forse un giorno accadrà tutto questo. Ma a forza di interpretare il Medio Oriente come il teatro di uno scontro epico tra sunniti e sciiti si rischia di restare abbagliati. Gli attori in campo sono tanti, variegati, e con agende e priorità molto lontane tra loro. C’è la guerra, sì: ma non siamo in mezzo a un conflitto mondiale come quelli del secolo scorso, dove ci può essere un vincitore che prende tutto e scrive la storia a suo piacimento. Non ci sarà un solo vincitore, soprattutto dopo che la Russia ha rilanciato intervenendo in Siria. Perciò tracciare nuovi confini, oggi, fa più gola ai “piccoli” che alle potenze regionali e globali: dove i primi vedono un guadagno, le seconde temono nuovi fronti e la moltiplicazione del caos.
Il petrolio conteso tra Baghdad e Erbil
Baricentro e radice di questo caos è la guerra in Siria, definita “una partita a scacchi tridimensionale giocata da nove giocatori e senza alcuna regola”. Un conflitto che mostra già oggi tante ramificazioni e minaccia di allargarsi ancora di più. Ipotetici spillover lambiscono tutta la regione. Quando l’Isis ha conquistato Mosul, nel giugno del 2014, l’esercito iracheno di stanza nella zona si è disgregato nel giro di due giorni. I miliziani di al-Baghdadi non sono gli unici ad averne approfittato: con i militari di Baghdad in rotta, i Peshmerga curdi si sono spinti in avanti occupando porzioni di territorio che, almeno sulla carta, non rientrano sotto la giurisdizione del loro governo autonomo sancito dalla costituzione del 2005. Si tratta di due aree – quella a nord di Mosul e la zona attorno a Kirkuk – ricchissime di petrolio, che da allora sono al centro di un’aspra contesa. Più volte si sono verificati scontri a fuoco tra i Peshmerga e alcune milizie irachene nate per sopperire allo sfacelo dell’esercito regolare.
La diatriba è diventata presto motivo di scontro tra Baghdad e Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno: quando i curdi hanno incominciato a vendere in autonomia quel petrolio tramite la Turchia, da Baghdad hanno bloccato i pagamenti degli stipendi agli impiegati statali curdi. Lo stallo ha spinto i cittadini a scendere in strada con manifestazioni di decine di migliaia di persone, i partiti si sono spaccati, il parlamento del Kurdistan ha interrotto i lavori e a tratti si è respirata la stessa aria del 1994, quando una guerra civile tra le fazioni di Barzani e Talabani aveva di fatto diviso in due la regione. Da pochi mesi c’è un nuovo accordo sul petrolio, ma nemmeno il più ardito amante delle scommesse si sbilancerebbe troppo sulla sua durata. Se finora non si è arrivati a uno scontro aperto tra autorità centrali e Kurdistan è perché la priorità, per tutti, è cacciare via lo Stato Islamico. Così l’offensiva di Mosul, che potrebbe durare ancora qualche mese, più che un punto di arrivo rischia di essere l’inizio di un nuovo conflitto.
Impedire il Rojava
Ciò che l’Iraq teme è già una realtà in Turchia. E anche in questo caso tutto parte dalla Siria. La guerra senza quartiere che Erdogan sta portando avanti contro la minoranza curda ne è conseguenza diretta. Per paradossale che possa sembrare, la soluzione pacifica della questione curda in Turchia non è mai stata così a portata di mano come nella lunga èra dell’attuale presidente. Il processo di pace che è naufragato nell’estate del 2015 è stata una sua iniziativa: quanto fosse sincera e quanto, invece, una mossa calcolata, è questione ancora aperta. Ad ogni modo, la ragione della virulenza con cui il governo sta rispondendo è una sola e si chiama Rojava (così i curdi siriani chiamano le aree sotto il loro controllo). Più questi si espandevano a ridosso del confine turco, più ad Ankara si temeva che ciò fosse il preludio ad un Kurdistan allargato. Che osteggia anche una semplice zona autonoma per i curdi in Siria, vista come un serbatoio di uomini e armi per il Pkk.
Dal punto di vista di Erdogan, l’intervento militare in Siria iniziato lo scorso agosto ha tamponato la situazione: adesso i curdi non possono avanzare oltre. Ankara ha messo un piede oltre confine appena ha potuto, ovvero quando la presidenza Obama si avviava a scadenza e una serie di circostanze hanno permesso di riallacciare i rapporti con la Russia. Se è vero che l’offensiva non poteva partire senza il benestare del Cremlino, vale anche il rovescio di questa affermazione: Erdogan farà di tutto per mantenere buoni rapporti con Putin finché avrà bisogno di manovrare in Siria.
La ritrovata sintonia, d’altronde, è una dinamica reciproca. Anche Putin ha da guadagnare nel convergere con la Turchia, la cui crisi con Washington non sembra diminuire d’intensità. Dopo il golpe fallito, in cui Ankara legge ancora il sospetto di un qualche ruolo degli Stati Uniti, le relazioni sempre più tese in ambito Nato e due agende completamente divergenti per quanto riguarda la Siria, la Russia ha gioco facile a lasciare spazio a Erdogan e usarlo come “disturbatore”. Per il Cremlino questa dinamica è talmente preziosa che neppure l’uccisione dell’ambasciatore russo ad Ankara in un attentato ne ha scatenato le reazioni. Un fatto gravissimo, forse ancora più del già citato abbattimento del caccia russo, che però tanto i turchi quanto i russi hanno subito declassato a “provocazione” mirata a incrinare la loro intesa.
Adesso Erdogan gli attriti maggiori li avrà con gli Stati Uniti, che non possono fare a meno dei curdi siriani per combattere lo Stato Islamico, e si oppongono a qualsiasi tentativo turco di spazzare via del tutto il Rojava. Mentre il dossier passa in mano a Donald Trump resta l’incognita: cosa succederà quando i curdi non “serviranno” più a Washington?
Dopo Aleppo
La guerra in Siria continua ad essere un incubatore di nuovi conflitti anche dopo la fine della battaglia per Aleppo. Le seconda città del paese è tornata sotto il controllo del regime, ma sarebbe sbagliato pensare che sia una vittoria di Assad, che non è neppure stato consultato nelle trattative per la tregua finale (hanno fatto tutto Russia, Iran e Turchia). L’eterogeneo e frammentato fronte dei ribelli ha ormai poca o nessuna rilevanza, ma il presidente resta un fantoccio bisognoso della stampella russa e iraniana per non collassare su se stesso. Dopo aver riconquistato Aleppo Assad non vi ha ancora messo piede, mentre a poche ore dalla fine dei combattimenti il generale iraniano Qassem Soleimani si faceva fotografare ai piedi della Cittadella.
È il simbolo dello strapotere che l’Iran ha guadagnato in questi anni sulla Siria. Iraniane sono le forze speciali che combattono in prima linea, dove i soldati di Assad sono per lo più assenti. Diretto dall’Iran è anche l’intricato reticolo di milizie mercenarie provenienti dall’Iraq, che Teheran ha spedito oltre confine e che ora conta decine di migliaia di uomini. Damasco ormai sembra parlare persiano. Giudicato con gli occhi della Russia, il cui apporto militare è e resta fondamentale, l’Iran ha tanto, troppo peso. In ballo c’è l’influenza sul regime siriano e su chi ne farà parte quando un trattato di pace decreterà la fine della guerra. C’è la vicinanza con il Libano e con Israele, e uno sbocco sul Mediterraneo. C’è la ghiotta torta della ricostruzione post-conflitto su cui mettere le mani. Quello che si profila all’orizzonte è uno scontro tra due alleati scomodi, che per il momento resta sottotraccia e difficilmente esploderà in modi clamorosi, ma non può che lasciare il segno sul futuro della Siria e sulla stabilità dell’intera regione.