N on era mai accaduto ciò che è successo a Mario.” Sono parole del procuratore Giovanni Álvarez Santoyo. “La morte di Mario Paciolla avrà indubbiamente degli effetti in Colombia. È molto probabile che siano stati dei gruppi nemici della pace a ucciderlo: questa morte è un attacco allo sforzo del processo di pace portato avanti nel Paese e alla qualità dell’appoggio a esso della Missione di verifica delle Nazioni Unite. Esprimo la nostra tristezza per la sua scomparsa e di conseguenza la preoccupazione profonda delle istituzioni e delle organizzazioni sociali, perché nelle zone più difficili del conflitto armato colombiano l’ONU ha sempre accompagnato le comunità più vulnerabili.”
Mario Paciolla
Santoyo non ha responsabilità dirette nelle indagini sulla morte del trentatreenne napoletano dipendente della Missione di verifica delle Nazioni Unite in Colombia, trovato esanime il 15 luglio 2020 nella sua abitazione a San Vicente del Caguán, ma non è un cittadino qualsiasi: Santoyo dirige la Unidad de Investigación y Acusación (UIA, Unità di Investigazione e Accusa), l’organo inquirente fondamentale della Jurisdicción Especial para la paz (JEP, Giurisdizione speciale per la pace) per l’accertamento dei crimini commessi nella guerra civile colombiana di cui conosce approfonditamente la storia, le circostanze e lo sviluppo.
La JEP con la Comisión para el Esclarecimiento de la Verdad, la Convivencia y la No Repetición (Commissione per la Verità) e alla Unidad de Búsqueda para Personas dadas por Desaparecidas (UBPD, Unità di Ricerca dei Desaparecidos) compone il Sistema Integral de Verdad, Justicia, Reparación y No Repetición, nato nell’ambito dell’accordo di pace del 2016 tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia – FARC con l’intenzione di mettere per la prima volta le vittime al centro di un percorso inedito di riconoscimento delle perdite subite nel conflitto lungo cinquant’anni e di riconciliazione attraverso l’accertamento della verità e l’applicazione della giustizia definita riparativa. L’obiettivo più ambizioso, insieme al valore dell’ascolto delle vittime e della dignità a loro restituita, consiste nello spezzare la ciclicità della violenza che in Colombia ha ragioni economiche e politiche strutturali.
L’ONU ha classificato la morte come self-inflicted. I genitori di Mario Paciolla hanno sempre definito destituita di qualsiasi fondamento l’idea che si sia tolto la vita. Attendevano il rientro del figlio in Italia, ma lui non è riuscito a salire sull’aereo che il 20 luglio 2020 lo avrebbe riportato da Bogotá a Napoli con uno scalo a Parigi. Alle 19:40 del 15 luglio Giuseppe Paciolla e Anna Motta hanno ricevuto la devastante notizia della morte. “Il territorio colombiano è complesso e difficile ancora di più in questo momento storico, però abbiamo la certezza che il delitto sia maturato all’interno dell’Organizzazione delle Nazioni Unite – dicono i genitori –. Vogliamo la verità dall’ONU che era il datore di lavoro di nostro figlio Mario e quindi quantomeno civilmente responsabile della sua morte”.
Dalle prime parole, dando la propria valutazione del caso Paciolla, anche Santoyo considera poco plausibile l’ipotesi del suicidio: “Sin dall’inizio non sembra ci fossero elementi tali da pensare che si sia trattato di questo. Sorge la domanda: ho cercato di portare avanti il mio lavoro, faccio quello che posso, perché dovrei suicidarmi qui? Ripeto, finora non sono emersi argomenti solidi che avvalorino il suicidio, ma dovranno essere altre autorità investigative, la Procura, a fare piena luce e a ricostruire i fatti”.
Ad agosto sarebbe scaduto il contratto di lavoro di Mario con l’Organizzazione. Perché un giovane, descritto da chiunque l’abbia conosciuto nel lavoro e lontano dall’ambiente professionale come una persona appassionata, vulcanica, vitale e competente avrebbe deciso di impiccarsi, dopo essersi inferto delle ferite ai polsi, a pochi giorni dal decollo con tutte le pratiche per il viaggio già espletate? A questa domanda l’indagine interna dell’ONU, che dall’inizio ha classificato la morte come un suicidio, e quella delle autorità investigative colombiane ancora non rispondono. Non c’è traccia del movente dell’eventuale gesto estremo del funzionario. Al momento i genitori non sono a conoscenza di ulteriori sviluppi delle inchieste. Gli esiti della prima autopsia, svolta in Colombia, non coinciderebbero con quella successiva realizzata in Italia. Dallo scorso agosto la Procura di Roma indaga per omicidio.
Mario aveva esternato ai familiari la propria paura e l’urgenza di lasciare il Paese: “La nostra attenzione si concentra sugli ultimi cinque giorni di vita di Mario. L’undici luglio, era un sabato, in un orario insolito, alle 18:20 circa, Mario ci ha telefonato e raccontato di aver avuto una discussione con alcune persone dell’Organizzazione, di essersi messo in un guaio ed era molto preoccupato”. Nei giorni seguenti la frequenza dei contatti con la famiglia è aumentata. La decisione assunta da Mario di rientrare in Italia era definitiva: “Ci ha comunicato che voleva abbandonare la missione nell’immediato. Preparava i documenti necessari. In queste telefonate ha alternato momenti di serenità ad altri di forte timore. Senza giri di parole, ci ha detto che avrebbe portato con sé poche cose, anche se non sarebbe mai più tornato in Colombia, tantomeno con l’ONU. Nel suo ultimo soggiorno in Italia già ci aveva detto, pur senza entrare nel merito delle attività: ‘Se l’ONU mi vuole tirare dentro li abbandono’”.
In precedenza, durante brevi periodi di vacanza trascorsi da Mario a casa, i genitori a differenza del consueto entusiasmo e ottimismo che lo contraddistinguevano, avevano notato segnali di stanchezza per l’impegno colombiano e Mario aveva manifestato la volontà di cambiare destinazione lavorativa con contatti avviati in Europa con altri enti e organizzazioni. Nei mesi segnati dalla pandemia Mario ha vissuto in lockdown, ed era rammaricato per le forti limitazioni imposte al compito di osservatore sul territorio. Ne aveva approfittato per concentrarsi sullo studio e il perfezionamento del francese. Una volta tornato in Italia voleva prendere il titolo per insegnarlo.
Mario Paciolla si occupava dell’osservazione del reinserimento degli ex guerriglieri FARC nella società civile.
Mario era così risoluto per la partenza dal concordare con i genitori la spesa, il cibo di suo gradimento da fargli trovare nel frigo della casa a Napoli, dove avrebbe osservato le due settimane di quarantena previste. Quella di Giuseppe e Anna è la testimonianza di una fuga: “Insomma, Mario voleva scappare, ma purtroppo non abbiamo capito che la sua vita era in pericolo. Abbiamo pensato piuttosto a un problema e ripercussioni per la carriera. Alla mezzanotte, in Italia, del 14 luglio, il giorno prima di morire, ci ha confermato l’acquisto del biglietto aereo per la partenza il 20 luglio da Bogotá”.
Mario Paciolla era ben consapevole del contesto in cui agiva. Nel gennaio del 2015 aveva intrapreso un percorso annuale di formazione con l’ONG canadese Peace Brigades International, il cui intervento è radicato in Colombia. Nel marzo del 2016 PBI lo aveva selezionato per un contratto di lavoro biennale nel Paese. Durante questa esperienza l’ONU lo cercò e contattò due volte in qualità di osservatore internazionale. Nell’agosto del 2018 decise di accettare il contratto proposto ed entrare nella Missione di verifica delle Nazioni Unite.
La passione di Mario era il giornalismo, voleva occuparsi di politica estera. Era iscritto come pubblicista all’Ordine dei giornalisti della Campania. Dopo l’Erasmus a Parigi aveva contribuito alla nascita di Cafèbabel a Napoli, dove aveva conseguito la laurea triennale in Lingue e culture comparate, e successivamente la magistrale in Relazioni e istituzioni dell’Asia e dell’Africa nel Dipartimento di scienze umani e sociali presso l’Istituto Orientale. Entrambe con il massimo dei voti e la pubblicazione delle tesi. Della Colombia lo interessava la complessità dello scenario politico e sociale nella fase delicatissima dell’implementazione dell’accordo di pace. Prima aveva collaborato con numerose ONG, maturando esperienze internazionali in Argentina, Giordania e India. In Colombia scriveva moltissimo. Negli ultimi anni aveva firmato numerosi articoli per varie testate giornalistiche con lo pseudonimo di Astolfo Bergman: “Purtroppo dalla sua morte nulla ci è stato ancora consegnato degli scritti di Mario e dei suoi computer. La certezza è che scrivesse parecchio. A casa abbiamo trovato diversi testi redatti in passato, poesie, racconti. Mario era preciso e minuzioso si appuntava tutto preferibilmente con carta e penna”. I cellulari e i computer, di lavoro e personale, sono ancora a sola disposizione dell’ONU e dell’autorità giudiziaria colombiana.
Giuseppe e Anna, assistiti anche dall’avvocatessa Alessandra Ballerini già al fianco della famiglia di Giulio Regeni, pongono all’ONU due domande per determinare innanzitutto lo stato di tensione che aveva spinto Mario a voler interrompere la collaborazione con la Missione: “Che cosa è successo, cosa ha saputo, cosa ha visto Mario esattamente il 9 o 10 luglio, con chi ha discusso all’interno dell’organizzazione e perché?”. La seconda istanza riguarda l’alterazione della scena del decesso: “Perché è stato consentito al rappresentante della sicurezza dell’ONU Christian Leonardo Thompson Garzón, il giorno dopo del ritrovamento del corpo, di recarsi nell’appartamento e ripulire con la candeggina, dichiarando poi di aver gettato in discarica tutti gli oggetti presenti sulla scena del crimine e quindi eliminando prove importanti per l’indagine?”. L’ONU ha risposto indirettamente alla famiglia, limitandosi ad assicurare di aver prestato il massimo aiuto alle autorità competenti per le indagini.
Dallo scorso agosto la Procura di Roma indaga per omicidio.
Nell’incarico di supervisione dell’effettiva concretizzazione dell’accordo di pace, Mario si occupava in particolar modo dell’osservazione di uno dei punti previsti: il reinserimento degli ex guerriglieri FARC nella società civile. Fra i progetti a cui ha dato il proprio apporto c’era la creazione di una squadra di rafting. Si era adoperato per produrre le dovute garanzie e documenti alle persone coinvolte. Seguiva come figura di garanzia i programmi di reintegrazione nei territori affidati agli ex combattenti che, abbandonate le armi, erano diventati agricoltori. Da osservatore Mario redigeva relazioni per l’ONU, tra le quali quella delicata relativa al bombardamento dell’esercito colombiano, avvenuto il 29 agosto 2019, dell’accampamento di Rogelio Bolívar Córdova, comandante di una cellula di dissidenti delle FARC che aveva provocato la morte di sette minori.
Le FARC e il desplaziamento
A San Vicente del Caguán, nel dipartimento di Caquetá, la presenza della formazione guerrigliera era molto forte. Al contempo è stato uno dei luoghi dove si è tentata la strada del dialogo con il governo colombiano e successivamente quella del recupero delle donne e degli uomini fuoriusciti dalla lotta armata. Qual è lo stato della smobilitazione militare? Quanti sono i dissidenti rispetto ai termini del negoziato di pace? “Non credo che i combattenti siano cinquemila, massimo duemila – asserisce Santoyo –. Circa il 10-15% delle FARC non ha deposto le armi, dunque la maggioranza lo ha fatto. Molti di loro sono veramente convinti e partecipano nei progetti di lavoro. Creano cooperative e altre forme d’integrazione nella società colombiana”.
Da vent’anni Santoyo opera con vari incarichi nella Procura Generale della Nazione. Non è stato solo Procuratore nella giustizia ordinaria, ma coinvolto per nove anni nella Unidad Nacional de Derechos Humanos y DIH portando a termine indagini sugli attori armati della guerra civile. Ha coadiuvato per sette anni i lavori della Unidad Nacional de Justicia y Paz, poi denominata Dirección de Justicia Transicional. Il suo gruppo ha documentato i delitti attribuibili alla struttura criminale dei paramilitari della Autodefensas Unidas de Colombia con il comando di Salvatore Mancuso. Ora al vertice della Unità di Indagine e Accusa della JEP si occupa dei principali casi giudiziari inerenti all’accordo di pace tra cui la situazione degli ex FARC.
Questi ultimi appaiono sempre più dei bersagli mobili, e c’è chi decide di risalire in montagna. In una percentuale alta sono colpiti i leader delle attività di reinserimento sociale, persone alla guida di cooperative e meccanismi produttivi che attirano e coinvolgono i reduci della guerriglia. È uno degli attacchi diretti al processo di pace e alla ricerca della verità sul conflitto. Ogni volta che muore uno di loro scompare un pezzo di storia a discapito delle vittime per l’impossibilità di ricostruire gli eventi della guerra. La paura di essere uccisi potrà condurre molti a riprendere le armi. Diminuiranno la qualità e la quantità dell’interazione con la JEP.
“È triste e deplorevole la frequenza di questi assassinii. Senza la protezione degli ex FARC ci sarà un grave impatto sulla riconciliazione dovuto alla progressiva perdita di fiducia – afferma Santoyo –. La tutela è necessaria anche per le vittime del conflitto minacciate per il loro contributo alla JEP. Abbiamo dovuto ricorrere a misure di sicurezza per la loro integrità. Lo Stato e il Governo devono garantire che questo non succeda più, che non si uccidano altri ex guerriglieri e tantomeno altre vittime, né difensori dei diritti umani, un male endemico del Paese”.
Santoyo individua tre fonti principali della minaccia: i gruppi di guerriglieri dissidenti intenzionati a regolare i conti e a rinforzare le file militari, le organizzazioni del narcotraffico che vogliono metterli a tacere e in alcune occasioni le azioni della forza militare pubblica. Più in generale esiste un interesse preciso a perpetuare la dinamica bellica, affliggendo la popolazione colombiana. La violenza è un sistema, non un elemento: continua a essere una componente sostanziale della vita politica, economica e sociale in uno Stato militarista. E la militarizzazione, anche privata, e la permanenza stessa della guerra, sono funzionali a filiere economiche come il commercio di armi, il narcotraffico, l’estrazione mineraria illegale, il latifondismo e l’usurpazione di terre. L’economia della guerra necessita del controllo del territorio, della popolazione e delle vie di accesso a determinate zone decisive per il narcotraffico o per lo sfruttamento delle risorse naturali del sottosuolo. L’economia statale, le esportazioni del Paese, si basano ancora largamente sul petrolio. La dipendenza dalle royalties è dannosa non solo per l’impatto ambientale della produzione petrolifera.
La somma di questi fattori con il tema centrale del possesso delle terre produce un effetto portante e terribile del conflitto colombiano noto come desplazamiento, lo spostamento forzato di popolazione all’interno e all’esterno del Paese. Santoyo lo qualifica come il crimine invisibile: “Vediamo vagare le famiglie ai margini delle grandi città e ci siamo assuefatti. Siamo già entrati nella fase della negazione, malgrado siano milioni le persone sfollate, sradicate dai propri territori”. Questo fenomeno, che mira a centralizzare i possedimenti delle terre e allo sfruttamento intensivo per alcuni comparti produttivi, colpisce la popolazione contadina, mina la sicurezza alimentare e porta all’incremento del narcotraffico, della diffusione delle coltivazioni illegali. “Dalle nostre analisi emerge chiaramente come lo spostamento forzato sia connesso anche all’utilizzo delle terre sottratte per coltivazioni industriali delle palme da olio e del legno di betulla per la costruzione di mobili – prosegue il procuratore –. Zone del Paese di grande importanza agricola si stanno trasformando in produzioni esclusive di queste due coltivazioni, come nel Chocó e in alcune parti della costa”.
Sette dei circa nove milioni di persone riconosciute come vittime della guerra hanno patito lo spostamento forzato. Un delitto che genera altri tipi di crimini. L’azione investigativa della JEP concerne il desplazamiento. Secondo i dati della UIA è il crimine più accresciuto dall’accordo di pace soprattutto a causa degli scontri per il controllo di corridoi strategici per la mobilità, il traffico di droga, armi e altre materie tra l’ELN e i paramilitari del Clan del Golfo, oltre alla presenza di altri gruppi criminali. Le regioni più danneggiate sono Norte de Santander, Antioquia, Chocó e Nariño. Nel 2021 le famiglie costrette a lasciare la propria terra per salvare la vita sono state 1131. Rispetto allo stesso periodo del 2020 il numero delle persone in fuga si è triplicato.
Il desplazamiento, lo spostamento forzato di popolazione all’interno e all’esterno del Paese, è un“crimine invisibile”.
In Colombia l’assassinio sistematico dei leader sociali, che si frappongono anche al desplazamiento, non è mai cessato. Coloro che da cinque anni sostengono l’implementazione degli accordi di pace, la difesa dei territori e lottano per condizioni di vita più eque sono nel mirino. In un recente agguato, teso da un gruppo armato, la leader indigena María Bernarda Juajibio, sindaca del Resguardo del Cabildo Kamentsá ‘Biya’, è stata uccisa insieme alla nipote di un anno e mezzo nel villaggio di La Esmeralda, a Orito, nel dipartimento di Putumayo. Secondo i dati della Ong e Centro studi Indepaz, pubblicati il 12 marzo, dall’inizio dell’anno sono trentuno gli attivisti sociali e difensori dei diritti umani assassinati. Nel 2020 sono state registrate 310 vittime fra contadini, indigeni, afro discendenti, ambientalisti, leader comunali e civici. Indepaz stima che dal 2016 i cosiddetti costruttori di pace uccisi siano 1065. Nel 2021 il numero degli ex FARC caduti in attentati è pari a dieci.
Per le rilevazioni fornite dalla Missione di verifica delle Nazioni Unite, aggiornate al 20 gennaio, sono 252 gli ex guerriglieri uccisi dall’accordo di pace. Venticinque di loro avevano richiesto protezione. Mille sono in attesa di risposta a questa domanda. Il picco è stato raggiunto nel 2019 con 78 morti. Il 35% è avvenuto nelle aree sorte per la loro incorporazione nella società. Il 75% in zone rurali con colture illegali soprattutto nei dipartimenti di Meta, Valle del Cauca, Cauca, Chocó e Putumayo. I dati fotografano la difficoltà di reale attuazione dell’accordo de L’Avana e l’incapacità o inerzia governativa nella sua difesa, nonostante i progressi e le vite risparmiate grazie al passaggio storico del 2016.
La Jurisdicción Especial para la paz
Naydú Cabrera Reyes, giovane avvocatessa della Unità di Indagine e Accusa (UIA), descrive così le implicazioni personali del processo di riconciliazione nazionale attraverso il Sistema Integrale di Verità, Giustizia, Riparazione e Non Ripetizione: “Come funzionaria pubblica appartengo all’unità che va nei territori a parlare con le vittime. Ho potuto conoscere quindi più da vicino le realtà locali distanti da Bogotá e credo che questo mi abbia cambiato la vita. Se prima ero convinta che la pace fosse un tema necessario e che la disuguaglianza nel nostro Paese fosse da combattere alla radice, ora la partecipazione è irrinunciabile. L’indifferenza non può essere un’opzione per nessuno che viva in Colombia o che sia colombiano”.
Che cosa implica essere protagonisti del processo di pace e costruzione di una nuova società che unisce generazioni e avrà bisogno della costanza di altre generazioni per il pieno compimento? “Il processo è frustrante, non posso mentire – dice Cabrera Reyes –. Constatare la quantità di vittime che ci sono, il poco tempo a disposizione, la quantità di problematiche e l’ambiente politico così complesso in cui viviamo è stato sconfortante. Questo non è solo un lavoro ma una condizione esistenziale. Sono cosciente che l’incarico è una missione: restituire con la verità la dignità alle vittime”. La JEP, entrata in funzione nel gennaio del 2018, è la componente giudiziaria del Sistema Integrale. L’obiettivo dell’istituzione, il cui mandato durerà quindici anni, consiste nel dialogo con le vittime alla ricerca di un’interlocuzione permanente e di promuovere l’innovazione della giustizia riparativa. La raccolta delle testimonianze è effettuata nelle Sale di Riconoscimento, in cui si illustrano e presentano i casi alla JEP con un giudice chiamato ad accogliere le istanze. Si tratta perlopiù di casi collettivi che raggruppano un gran numero di vittime, ma sono valutate anche a livello individuale.
“Le istituzioni non hanno spesso creduto ai racconti delle vittime e trascurano la loro realtà, vita ed esperienza – spiega Cabrera –. Le vittime hanno la possibilità di intervenire in tutte le tappe del processo. Il loro ruolo è attivo rispetto alla giustizia ordinaria, quando solo la sentenza definitiva con il verdetto di colpevolezza può restituire qualcosa. Il processo della JEP è parte integrante della riparazione. Non si delega solo alla sentenza”.
L’orizzonte di senso finale non è il carcere per i colpevoli. Lo scopo è la riconciliazione. Ai carnefici è chiesto di accettare le proprie responsabilità dei delitti commessi nel confronto diretto con le vittime, o i familiari, e contribuire all’accertamento della verità. Quando non capita, l’Unità di Indagine e Accusa si muove per dimostrare la colpevolezza. In assenza dunque di un processo dialettico tra le due parti, l’UIA assume la funzione di una Procura ordinaria per un processo penale, transitando dal concetto di giustizia riparativa a quello di retributiva che pone al centro la trasgressione e la punizione. I reati di violenza sessuale sono quelli meno ammessi.
La sfida generale decisiva sta nel riattivare, ampliare e approfondire i procedimenti fermi da anni nella giustizia ordinaria, che ha lasciato la maggioranza delle inchieste sul conflitto armato alla JEP: “Il processo di pace produrrà dei grandi ripensamenti sul funzionamento della giustizia in Colombia – osserva Santoyo –. Il carcere non ha risolto i problemi. Le vittime più di sapere l’imputato dietro le sbarre vogliono la verità sui fatti ed essere riconosciute. Il codice sanzionatorio del Sistema Integrale, che prevede pene alternative, sarà il frutto di negoziati che saranno costruiti insieme alle vittime. Soltanto queste ultime potranno legittimare il processo e realizzare la riconciliazione”.
La legittimazione passa dalla conoscenza e dal radicamento nel Paese del processo, che sollecita nuovi modelli di comunicazione e la costruzione di un rapporto di fiducia tra le istituzioni e la società colombiana. L’organico della JEP è relativamente limitato per la vastità del compito (novecento persone tra l’amministrazione, i giudici, i procuratori e gli investigatori): indagare i crimini del conflitto che da mezzo secolo attanaglia la Colombia e non è ancora concluso. La delicatezza della missione espone la JEP agli effetti della polarizzazione politica e della società sull’accordo di pace: “Il meccanismo di scelta del personale è stato completamente apolitico, nonostante il Sistema Integrale nasca da una scelta condivisa degli schieramenti politici – precisa il direttore dell’UIA –. Il lavoro della JEP non è manipolato dai partiti. L’autonomia della istituzione è totale nelle sue funzioni, a livello amministrativo e di budget”.
Le vittime, più che sapere l’imputato dietro le sbarre, vogliono la verità sui fatti ed essere riconosciute.
Tra i sette casi collettivi nell’agenda della JEP in particolare due inquietano il mondo politico: Caso 01: Toma de rehenes y otras privaciones graves de la libertad cometidas por las FARC EP e il Caso 03: Muertes ilegítimamente presentadas como bajas en combate por agentes del Estado. Il 4 luglio del 2018 la JEP, che si fonda sul diritto penale internazionale ampliando il quadro delle imputazioni previste dal codice penale colombiano, ha aperto il caso 01 che ha portato a identificare 21.396 vittime dell’industria dei sequestri, parte del finanziamento della guerriglia, a opera delle FARC-EP.
Le vittime accreditate nella Sala di Riconoscimento per i crimini compiuti dalle FARC nel processo sono 2542 e finora 350 membri della guerriglia hanno deposto al tribunale, ammettendo le proprie colpe. Nel periodo massimo di espansione le FARC erano dotate di sessanta strutture operative per i sequestri di persona ed erano articolate in cinque blocchi con due comandi congiunti. L’ostaggio trattenuto più a lungo ha trascorso quattordici anni in cattività. Ai rapimenti si aggiungono reati correlati: omicidio, sparizione forzata, violenza sessuale, tortura e desplazamiento. A gennaio la JEP ha formalmente imputato di crimini di guerra e lesa umanità otto figure apicali della guerriglia, compreso l’ex segretario generale Rodrigo Londoño, noto come Timochenko, oggi presidente di Comunes, il nuovo partito legale sorto sulle ceneri dell’organizzazione disciolta, che ha cominciato un percorso di collaborazione con la Commissione per la Verità. Chi scegliesse di non condividere il sistema di giustizia transizionale rischia fino a venti anni di carcere.
Falsos positivos
La politica guarda specialmente un’altra inchiesta. Il 18 febbraio l’indagine della JEP ha triplicato il numero delle vittime che allarga lo scenario e le implicazioni del caso 03, noto con l’espressione Falsos positivos. Dal 2002 al 2008, durante il mandato presidenziale di Álvaro Uribe, le forze militari e di polizia dello Stato colombiano hanno ucciso almeno 6.402 civili che sono stati presentati alla nazione come guerriglieri, appartenenti a gruppi fuorilegge, morti dunque in combattimento. In precedenza la stima dell’autorità giudiziaria era pari a 2.249 vittime.
Ciò che veniva propagandato come il successo dello Stato sugli insorti era falso: “Uccidevano giovani innocenti – dice Santoyo – spesso tratti in inganno con la promessa di un lavoro, per poi essere assassinati e venduti all’opinione pubblica come morti in battaglia”. L’investigazione si focalizza anche nell’attività delle Sale di Riconoscimento soprattutto nei dipartimenti di Antioquia, Costa Caribe, Norte de Santander, Huila, Casanare e Meta con sotto casi aperti per ognuna di queste aree. È solo la prima fase dell’indagine: “Devo confessarvi che ancora non sappiamo la quantità esatta di queste uccisioni. Il numero è più alto di quel che credevamo, però sarei un bugiardo se vi dicessi che abbiamo una cifra definitiva, stiamo ancora lavorando su questo processo. Ci potranno essere dei maxiprocessi sui Falsos positivos, così come si celebreranno per i fermi illegali”.
Il problema sono i legami tra la politica e la guerra. L’urgenza consiste nel separare la politica dalla guerra e dalle armi.
Nell’avanzamento della ricerca di verità e giustizia hanno un ruolo fondamentale le Madres de los llamados “Falsos Positivos” de Colombia (Mafapo). Da oltre un decennio cercano di ritrovare i figli scomparsi e uccisi, di ricostruire esattamente che cosa sia accaduto. Lottano contro il negazionismo, e non si sono lasciate intimidire dalle minacce ricevute. A marzo una rappresentanza dell’associazione Mafapo è stata ascoltata congiuntamente dalla JEP e dalla Commissione per la Verità. Come ha detto la commissaria Alejandra Miller Restrepo, queste donne insegnano al Paese, e non solo, che cosa significhi tatuarsi il dolore e l’amore sul corpo. La settantatenne Doris e il marito Dario hanno parlato con Óscar Alexánder, il quinto di sei figli, per l’ultima volta il 31 dicembre 2007. Óscar è stato assassinato il 16 gennaio 2008. Da tredici anni non consentono di ritrovare i suoi resti. Nel 2011 il Cuerpo Técnico de Investigación della Procura della Nazione ha informato la famiglia che il figlio era morto in guerra a El Copey, Cesar. Era diventato da venditore di capi di abbigliamento, che provava a lavorare a Cúcuta, un supposto guerrigliero. Il volto di Óscar appare tra i tessuti della piccola sartoria domestica nella loro casa di mattoni e Doris, come le altre madres, lo ha tatuato sul braccio destro. Nulla potrà riparare il dolore, ma vogliono rompere la congiura del silenzio e restituire la dignità alla storia di Óscar, che aveva ventisei anni.
“I familiari hanno preso coscienza che i figli, partiti con l’idea di lavorare, non torneranno più – osserva Luz Marina Monzón, direttrice della Unidad de Búsqueda para Personas dadas por Desaparecidas –. Hanno iniziato a protestare e pretendere risposte dallo Stato, comprendendo qual è stata la logica degli organi militari istituzionali che hanno attuato questo piano tanto atroce”. Le parole di Doris Tejada lasciano il segno: “Per qualunque persona è difficile immaginarsi di fronte a una fossa nella quale giacciono impilati molti corpi, uno sovrapposto all’altro, e sai che devi muoverli e vederli da vicino, uno a uno, per incontrare chi hai amato. Affrontare faccia a faccia così la morte è qualcosa che nulla può cancellare dalla mente, riemerge costantemente come un incubo. Nel mio caso il dolore è ancora più forte, perché ho dovuto confrontarmi spesso con questo incubo senza ricevere il corpo di mio figlio, senza conoscere la verità, senza sapere dove si trova. Ora ho paura che svaniscano le possibilità di incontrarlo, perché potrebbero costruire sopra il luogo, dove è possibile che sia stato sotterrato”.
Per determinare il numero, insieme alla raccolta delle informazioni, alle riesumazioni dalle fosse comuni, la JEP ha incrociato varie base dati che concordano nel concentrare il 78% degli assassinii nello stesso lasso temporale (2002-2008). Tra il 2008 e il 2009 numero delle vittime è sceso drasticamente da 792 a 122. L’indagine si muove dall’individuazione degli autori materiali per risalire all’intera catena di comando. Eduardo Cifuentes, presidente della JEP, ha sottolineato come sia determinante il sostegno dello Stato per scavare in profondità nella vicenda dei Falsos positivos. La questione chiave non è la tutt’altro che scontata quantificazione esatta delle vittime: la svolta necessaria è la comprensione delle dinamiche criminali del conflitto colombiano. A differenza della giustizia ordinaria, la ricostruzione della JEP dei casi collettivi può consentirne la visione di insieme e la connessione fra gli eventi. Lo “scandalo dei falsi positivi” crea fibrillazione, perché chiede allo Stato di guardarsi dentro attraverso l’ammissione degli eccidi compiuti dai propri corpi militari, che possono presentarsi solo volontariamente alla JEP, mentre per gli ex guerriglieri è obbligatorio.
La difficile transizione
Uribe, che nell’agosto del 2020 si è dimesso dalla carica di senatore in seguito all’arresto con l’accusa di presunta truffa e di aver influenzato i testimoni dei crimini della guerra civile colombiana, ha qualificato come di parte l’azione della JEP che discredita “la politica di sicurezza democratica”. L’ex presidente, che tra poco più di una settimana sarà rinviato o meno a giudizio, rimprovera la JEP di equiparare le forze armate e i terroristi. La reazione del suo successore Juan Manuel Santos, nonché ministro della Difesa nella presidenza Uribe e insignito del Premio Nobel per l’accordo di pace del 2016, invece è stata di altro tenore. Si è reso pienamente disponibile a interagire con la JEP e parlerà il 5 aprile. Una presa di distanza, che in una prospettiva politica più ampia, suggerisce l’avvenuta incrinatura con l’accordo di pace del monolitismo dell’élite conservatrice del Paese e la possibile riconfigurazione degli equilibri politici, seppure sia molto prematura l’uscita di scena di Uribe vicino all’attuale presidente Iván Duque Márquez. La giustizia transizionale necessita di un vento e di un assetto politico nuovi. C’è chi considera possibile, in vista delle prossime elezioni, una convergenza tra forze democratiche liberali della destra, del centro e della sinistra per un governo che abbia come programma la costruzione di un sostegno incondizionato alla pace.
La politica colombiana, in prospettiva delle presidenziali che si terranno nel 2022, scruta con attenzione, e in alcuni casi preoccupazione, l’evolversi degli atti della Commissione per la Verità, guidata dal sacerdote gesuita, filosofo ed economista Francisco de Roux Rengifo, dagli anni Ottanta protagonista dell’impegno per la costruzione della pace. La Commissione per la Verità ha il mandato temporale più breve fra gli organismi del Sistema Integrale di Verità, Giustizia, Riparazione e Non Ripetizione che scadrà il 28 novembre. L’esito dell’attività triennale è particolarmente atteso e si rifletterà a lungo termine sull’intero sviluppo dell’ordinamento della giustizia transizionale.
L’opposizione politica e la dissidenza non possono equivalere al nemico interno da eliminare.
Carlos Martín Beristain, medico e psicologo basco con una vastissima esperienza internazionale di sostegno psicosociale alle vittime delle guerre, è atterrato in Colombia nel 1994, provenendo da El Salvador e dal Guatemala, con le Brigate Internazionali di Pace, quando l’impatto dell’aiuto umanitario era inesistente. Beristain iniziò la cooperazione con le realtà sociali, la Chiesa, le associazioni delle donne nella capitale e a Barrancabermeja, la città del petrolio e del movimento sindacale, considerata zona rossa dal punto di vista politico della guerra. Beristain è l’unico membro straniero della Commissione per la verità e coordinerà il delicato rapporto finale della Commissione, da pubblicare entro un mese dalla scadenza del mandato, di cui anticipa le linee guida. Insieme all’incontro con le vittime e alla raccolta del contributo testimoniale volontario degli attori del conflitto (ex FARC, militari e paramilitari), la Commissione per la Verità per contribuire a spezzare il ciclo continuo della violenza proverà a rispondere ad alcune domande decisive: da che cosa dipende la persistenza dell’apertura e della successiva chiusura a settori della società della democrazia colombiana? Chi chiude gli spazi e con quali intenzioni?
“Le pressioni sulla Commissione sono cominciate già nel 2018, adducendo che la verità provochi ulteriori divisioni – spiega Beristain –. In realtà sono tentativi di richiudere lo spazio di partecipazione democratica e mettere in discussione le evidenze che produrremo. Quando pubblicheremo il rapporto finale, che non è certo di per sé risolutivo, ci saranno diverse reazioni negative, perché esistono dei fattori strutturali che perpetuano la degradazione dello scontro armato”. Il problema sono i legami tra la politica e la guerra. L’urgenza consiste nel separare la politica dalla guerra e dalle armi: “Negli ultimi anni, almeno in quattro o cinque occasioni, la pace sembrava a portata di mano con condizioni e possibilità concrete – continua Beristain –. Poi è sfuggita. C’è una macchina che ferma questo processo, non è casuale. Non è questione di un presidente o di un leader di partito. Esistono diversi interessi affinché la pace non si consolidi. Sussistono reti che mescolano l’economia e la politica con la dimensione armata. È a causa di queste relazioni che si protrae il conflitto, nel quale il narcotraffico si inserisce e funziona come elemento chiave. Non si possono comprendere le dinamiche della violenza in Colombia senza quelle del narcotraffico”.
Il narcotraffico è stato la benzina del conflitto, fonte di finanziamento dei gruppi armati e corruzione dell’autorità pubblica. I paramilitari sono diventati cartelli del narcotraffico. L’accordo di pace non ha modificato l’incidenza dell’economia, integrata a livello mondiale, del narcotraffico nelle vicende del Paese. La produzione di cocaina è cresciuta significativamente dal 2015. Nel 2019, a fronte della diminuzione della estensione delle coltivazioni, la quantità di cocaina prodotta è aumentata mediante l’implementazione dell’uso delle sostanze chimiche per la trasformazione delle foglie di coca.
La Colombia vive una sorta di bipolarismo per il quale se a Bogotá gli echi della guerra risuonano distanti, le zone rurali sono quelle più afflitte dai crimini e dall’assenza di giustizia. In questo senso è efficace il racconto del procuratore Santoyo: “Ho vissuto con dolore la mancanza di giustizia soprattutto nei dipartimenti più vulnerabili del Paese. I fatti di violenza più crudeli sono avvenuti nelle aree rurali, dove lo Stato era debole. La geografia della nazione, la mancanza di vie di collegamento, l’estensione stratificata dei combattimenti hanno lasciato la popolazione senza l’intervento concreto dello Stato. Fa male dirlo, ma in parti del Paese i gruppi fuorilegge, guerriglieri o paramilitari, erano, e talora sono, l’autorità anche al cospetto di quella statale come un potere assoluto. I commissariati di polizia, sindaci, procuratori e giudici sono stati corrotti e obbedivano a loro. Di conseguenza in molte regioni si sono instaurati regimi di terrore”.
Il personale della Commissione per la Verità, malgrado le restrizioni dovute alla pandemia, ha viaggiato nel Paese con gruppi di lavoro mobili per raggiungere i vari dipartimenti e raccogliere le testimonianze. Sono state realizzate ventidue case della verità per far emergere la voce dei territori. L’orizzonte della riconciliazione e della non ripetizione va contestualizzato in una situazione di guerra che non è finita con i guerriglieri dell’ELN. Non è conclusa nelle aree controllate dai paramilitari. C’è la dissidenza tra le fila delle ex FARC. Il 21 aprile si celebrerà un momento importante dell’attività della Commissione. Due figure di spicco contrapposte nella guerra civile, Salvatore Mancuso, detenuto negli Stati Uniti, e Rodrigo Londoño interverranno pubblicamente, dopo aver chiesto di parlare. In una prima breve sessione hanno ammesso il proprio grado di colpa per le brutalità e il dolore inferto alle vittime, sostenendo l’intenzione di far affiorare e spiegare l’articolazione reale del sistema bellico che hanno alimentato.
Il nemico interno
Nell’arco dei lunghi, tortuosi e frammentati processi di pace colombiani, mai del tutto compiuti, la vicenda della Unión Patriótica, che compare tra i macro casi indagati dalla JEP, è simbolica. Nel cuore degli anni Ottanta, durante la presidenza di Belisario Betancur, il primo grande cantiere di dialogo tra il governo e le FARC consentì l’ingresso in politica di ex guerriglieri. L’UP incarnava questo esperimento, incorporando movimenti sociali, sindacali con un riscontro positivo alla prova elettorale. È stato concepito un genocidio per dissolvere questa forma di organizzazione e l’accoglimento delle istanze politiche che mai avevano ottenuto una rappresentanza parlamentare. Si è inteso riaffermare il potere delle armi su quello di una democrazia plurale che costringe ad ascoltare tutte le voci della società. Sono state uccise seimila persone riconducibili alla Unión Patriótica.
Beristain, comparando l’esperienza maturata in Guatemala, dove nel 1998 ha diretto il rapporto Guatemala nunca más della Commissione della Verità, evidenzia proprio questo aspetto rilevante della biografia nazionale colombiana; la capacità di resistenza all’orrore: “L’impatto del terrore in Guatemala era sconvolgente. Le comunità indigene non parlavano. In Colombia ho trovato un’energia positiva a livello organizzativo. La potenza si esprime nella capacità di lotta dei popoli indigeni, afro discendenti, contadini, leader sociali difensori dei diritti umani. Per questa ragione il Paese non si è spezzato pur con tutto ciò è accaduto”.
Uno degli obiettivi del processo di pace è la decostruzione della figura del nemico interno, utilizzata come strumento di propagazione della guerra civile: “Il leader contadino e sociale, il sindacalista, il difensore dei diritti umani sono stati trasformati e identificati nel nemico e successivamente uccisi. Abbiamo tante prove di questo – argomenta Beristain –. Ciò deve cambiare in Colombia. L’opposizione politica e la dissidenza non possono equivalere al nemico interno da eliminare”.
Beristain ricorda l’importanza del sostegno internazionale all’accordo del 2016 e al tentativo organico di superamento della frammentarietà dei processi di pace colombiani. La ricerca della verità e della giustizia non può essere disgiunta dal progresso delle condizioni sociali ed economiche. La Colombia è fra gli Stati più marcati dalle disuguaglianze.
La Colombia è fra gli Stati più marcati dalle disuguaglianze socioeconomiche.
In Colombia storicamente il ruolo degli Stati Uniti è stato dirimente e ancora lo è. Beristain indica il cambio di passo: “L’agenda della sicurezza degli Stati Uniti per il Sudamerica passa dalla Colombia. Ed è l’agenda della élite colombiana che si allea con quella nordamericana. La dottrina della sicurezza nazionale è stata cruciale per molte cose verificatesi. L’intervento statunitense attraverso il Plan Colombia, sebbene sia stato presentato come un progetto contro il narcotraffico, in realtà è stato indirizzato agli insorti. Ora c’è bisogno che gli Stati Uniti favoriscano il processo di pace e lo amplino senza tornare all’idea del Plan Colombia, una guerra condotta sotto il cartello del contrasto al narcotraffico”.
Transparentes
L’ascolto delle vittime non si limita ai confini nazionali. L’opera della Commissione sull’esilio colombiano è fondamentale. Esiste una Colombia fuori dalla Colombia coinvolta nel processo di pace. L’evento di riconoscimento ha interconnesso 24 paesi. La Commissione ha registrato finora 1600 testimonianze di esiliati sulle dodicimila complessive. Migliaia di esuli hanno trovato il modo di raccontare ciò che hanno vissuto. Nei cinque Stati confinanti con la Colombia, negli ultimi vent’anni almeno 524.496 persone hanno richiesto asilo politico. Le loro parole non sono destinate a essere sepolte negli archivi. È già cominciata l’attività divulgativa di produzione culturale per esempio con il graphic novel Transparentes. Historias del exilio colombiano, disegnato dal noto fumettista spagnolo Javier de Isusi, basandosi sulle storie degli esuli.
Le tavole di Transparentes sono un’opera collettiva ispirata agli incontri della Commissione per la Verità con la seconda generazione degli esuli colombiani. Il trentaseienne Juan Camilo Zuluaga, nato a Medellín e cresciuto a Roma, figlio di Amparo del Carmen Tordecilla Trujillo, ha posato la propria tessera nel mosaico del progetto. Amparo, originaria di Montería, faceva la maestra e aveva ventotto anni, quando almeno quattro rapitori vestiti in borghese della struttura d’intelligence Brigata XX Batallón Charry Solano del BINCI (Batallón Único de Inteligencia y Contrainteligencia) dell’esercito colombiano la sequestrarono in pieno centro a Bogotá.
Era il 25 aprile 1989. Da trent’anni Juan Camilo non sa dove sia Amparo, ma sa che è stata torturata. Il corpo non risulta ancora individuabile, seppure nel Duemila siano stati condannati in via definitiva dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani i responsabili materiali (e non i mandanti) della sparizione forzata dopo anni di insabbiamenti e depistaggi del tribunale militare. “Come gli altri familiari di desaparecidos, vivo nel limbo di una presenza, assenza indefinibile – racconta Juan”.
Esiste una Colombia fuori dalla Colombia coinvolta nel processo di pace.
Secondo lo studio più organico, diffuso nel 2018 dal Centro Nacional de Memoria Historica, durante il conflitto armato tra il 1958 e il 2018 si stima siano 86.000 le persone scomparse forzatamente, 32.000 quelle sequestrate e 17.000 reclutate con violenza nelle fila delle varie milizie e dei corpi militari. “La sparizione forzata si pone il fine di occultare il luogo in cui è nascosta la vittima – spiega Luz Marina Monzón, al vertice dell’Unità di Ricerca dei Desaparecidos (UBPD) –. I propositi dei rapitori sono specificatamente politici. Si confondono le informazioni sul loro destino. Il sequestro invece non ha l’intenzionalità di sottrarre la persona per sempre”.
In Colombia, l’alba del fenomeno della Desaparición forzada risale al 1977 con la scomparsa della trentenne Omaira Montoya, batteriologa, al terzo mese di gravidanza, che militava nell’ELN. Monzón indica il momento più critico per la quantità delle sparizioni tra il 2000 e il 2005. E in precedenza negli anni Ottanta con gli attacchi alle persone ritenute appartenenti alla guerriglia e impegnate nei processi sociali più radicali.
In giovane età Amparo si legò proprio ai movimenti sociali, nei sindacati della scuola e con il partito marxista-leninista. Successivamente decise di aderire all’Ejército Popular de Liberación (EPL), fino ad accedere al vertice organizzativo del comandante Ernesto Rojas, assassinato nel 1984 durante le trattative di pace tra il governo e i guerriglieri. Nell’EPL Amparo, che svolgeva mansioni di supporto logistico e altri incarichi urbani, conobbe Bernardo Gutiérrez Zuluaga, classe 1954, fuoriuscito nel 1978 dalle FARC e approdato al comando maggiore dopo la morte di Rojas. Nel 1984 Juan Camilo è nato dalla loro unione.
“Nella fase di apertura del dialogo con lo Stato nel cuore degli anni Ottanta, i miei genitori, e più in generale il comando dell’EPL, avevano maturato la convinzione che la lotta armata fosse divenuta controproducente sia nel rapporto con la popolazione sia per i loro scopi politici – evidenzia Juan Camilo –. Il rapimento di mia madre, che ricopriva un ruolo di mediazione, mirava a ostacolare i colloqui di pace avviati”.
Juan Camilo si è assunto il rischio di porre domande scomode, di rompere alcuni tabù nella famiglia. Ha ripreso in mano le lettere, ha riguardato le fotografie e preziosi filmati d’epoca che incarnano l’esserci di Amparo. Lui vede nell’attuale processo di pace l’opportunità di riaprire i cassetti chiusi della memoria e dei sentimenti: “Nel tempo ho tentato di sollevare il velo del mito della donna guerrigliera per cogliere la sostanza di mia madre. A distanza non è stato facile parlare di lei con i parenti, che vivono in Colombia, però ho la loro solidarietà e vicinanza nella ricerca. Neanche con mio padre era semplice farlo”.
Molti parenti delle vittime in Colombia hanno smesso, o non hanno iniziato proprio le ricerche, in larga parte per assenza di fiducia nelle istituzioni.
Le indagini per onorare Amparo proseguono con l’UBPD che ha un mandato ventennale nel Sistema Integrale di Verità, Giustizia, Riparazione e Non Ripetizione. La missione è dispiegata in tutto il Paese con piani regionali e non è vincolata al processo giudiziario. Nell’Istituto Nazionale di Medicina Legale è stata istituita con la legge 1408 del 2010 la banca dati genetica, ma è entrata in funzione solo nel 2015 e non è ancora a pieno regime. La famiglia di Juan Camilo ha sostenuto quattro prove di identificazione mediante il DNA. Venticinquemila corpi sono stati oggetto di analisi nell’Istituto Nazionale di Medicina Legale senza tuttavia essere identificati e poi in parte sono stati dislocati in altri luoghi. Quei corpi possono corrispondere a desaparecidos.
Molti parenti delle vittime in Colombia hanno smesso, o non hanno iniziato proprio le ricerche, in larga parte per assenza di fiducia nelle istituzioni: “La società colombiana non sembra ferita dalle sparizioni forzate, perché non sono conosciute – conclude Monzón –. La sparizione non ha un’immagine, dunque è difficile identificarla. Come Unità dobbiamo migliorare nella trasmissione delle informazioni che deve essere fluida, chiara e ampia soprattutto per i familiari dei desaparecidos fiaccati psicologicamente e troppo spesso rassegnati”.
Juan Camilo ha affrontato questioni complesse nel confronto con la figura politica paterna, che ha trascorso quasi vent’anni nella guerriglia: “La scelta della lotta armata deve essere contestualizzata nella cornice storica della repressione di qualsiasi forma di dissenso, della militarizzazione totalizzante della società colombiana, in cui sono cresciuti i miei genitori”. Juan Camilo non è a proprio agio nella posizione della vittima: “Nello scontro armato Bernardo Gutiérrez avrà ucciso o fatto uccidere. La guerriglia dell’EPL ha creato orfani, vedove e sofferenze. Per questa ragione ho maturato una critica generale al mito della violenza o della guerra giusta. So che figli di poliziotti, paramilitari o dirigenti politici di destra hanno vissuto la mia stessa sorte. Non ho alcun diritto di giustificare solo il dolore per mia madre”. E risuona la domanda più scomoda: “Lei è stata rapita, torturata ed è desaparecida, perché nel suo immaginario c’era un mondo migliore da costruire. È valsa la pena?Ho provato impazienza nel rispondere. Qualche suo seme germoglia”.
L’autore ringrazia Cecilia Raneri e Maria Pina Iannuzzi per il contributo nella traduzione delle tante ore di interviste.