L a politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti”, come Trump e Putin, diceva Beppe Grillo a gennaio in un’intervista al settimanale francese Journal du Dimanche. Uomini? Nel panorama dei populismi, in Europa e non solo, sono sempre di più donne a guidare partiti e movimenti di estrema destra che, con la loro forza elettorale, minacciano la tenuta dei sistemi politici tradizionali. Se il modello di leadership populista è normalmente associato a caratteristiche maschili come la forza, il vigore fisico, l’assertività, Marine Le Pen e Frauke Petry,Pia Kjærsgaard e Siv Jensen, o in Italia Giorgia Meloni, non solo stanno cambiando il profilo del Front National in Francia o del Partito del progresso in Norvegia, ma lo stanno facendo proprio in quanto donne. Giocando con l’identità femminile e nuovi linguaggi, hanno creato un nuovo modello di leadership, che a sua volta ha convinto nuovi elettori – e soprattutto nuove elettrici.
È molto più che pinkwashing. Queste donne, a capo di organizzazioni tradizionalmente maschili, cavalcano temi che sono al cuore dei populismi dell’epoca in cui viviamo, come l’immigrazione: dai muri al “muslim ban”. A volte navigando a vista tra le contraddizioni, come vedremo, sono intenzionate a offrire alle donne dei loro paesi nuovi role model. Come madri, come donne indipendenti, come tutt’e due le cose insieme.
Non solo mamme
Madri del partito, della città, della nazione. Negli Stati Uniti c’è stata la “mamma grizzly” Sarah Palin, la candidata repubblicana alla vicepresidenza Usa nel 2012 e star dei Tea Party. L’associazione tra cura dei figli e cura del popolo intero è un dispositivo simbolico molto forte. Pensiamo a Giorgia Meloni che fece la sua campagna per le amministrative di Roma del 2016 mentre era in gravidanza e rispose, a chi la attaccava: “ho scelto di scendere in campo anche se incinta, Roma ha come simbolo una lupa che allatta due gemelli”.
“La nazione è madre e le leader populiste ne sono le rappresentanti naturali” ci dice Nadia Urbinati, politologa della Columbia University. “Per le madri tutti i figli sono uguali, e soprattutto i figli e le figlie sono privilegiati rispetto agli ospiti occasionali della casa. Quindi inclusive verso i propri e non tenere verso gli altri: una visione nazionalista radicale, più che semplicemente populista”.
Pia Kjærsgaard, la lady di ferro del Partito del popolo danese (Dansk Folkeparti), che nel 2015 ha ottenuto il 21% dei consensi alle elezioni nazionali (diventando secondo partito), ha spesso presentato se stessa come una donna di casa, icona della filosofia di pace e letizia domestica nota come hygge. Kjærsgaard non fa altro che portare nell’arena politica la stessa attenzione all’ordine che mette nella cura della famiglia: il modello Kjærsgaard è quello della donna forte, che dopo aver messo al mondo e cresciuto i propri figli, secondo un copione piuttosto tradizionale, dà vita a un partito e se ne cura fino a che arriva il tempo di metterlo nelle mani dei giovani. Ciò che ha fatto nel 2012 lasciando la leadership a Kristian Thulesen Dahl.
Madri del partito, della città, della nazione. L’associazione tra cura dei figli e cura del popolo intero è un dispositivo simbolico molto forte.
Marine Le Pen si presenta come donna con tre figli ma pluridivorziata, e nel suo libro Controcorrente (2011) ha raccontato la fatica di crescere figli da sola, celebrando la forza e il coraggio di donne che si assumono un doppio carico, pubblico e privato. Senz’altro un messaggio che un gran numero di donne è oggi pronto a recepire. Ma Marine è anche la figlia del leader di estrema destra Jean-Marie Le Pen, erede e artefice della “de-demonizzazione” del partito del padre, e molti osservatori concordano sull’importanza delle sue qualità “femminili” –moderazione, autocontrollo, gentilezza – come chiavi della crescita di consenso del FN.
Madre di quattro figli, separata e convivente con un nuovo compagno è anche Frauke Petry, leader del giovane partito Alternative für Deutschland. In Norvegia, Siv Jensen ha guidato il Partito del progresso a ottenere il 16% alle elezioni del 2013 e a entrare nella coalizione di governo, di cui lei stessa è diventata Ministra delle finanze. Tutto questo, in un partito prevalentemente maschile, e pur essendo single e senza figli.
Insomma, mamme o non mamme, donne “tradizionali” o donne “emancipate”, queste leader non giocano su un unico modello femminile, ma offrono al loro elettorato qualcosa di nuovo, forse rassicurante, di sicuro convincente.
Outsider
“Quello che hanno in comune tutti i leader populisti è il fatto di presentarsi come una voce del popolo, come outsider politici e al tempo stesso autentici rappresentanti della gente comune”. Si tratta di un’immagine costruita con attenzione dagli stessi leader populisti, un tratto distintivo, spiegano Cas Mudde e Cristobal Rovira Kaltwasser nel loro recentissimo Populism. A very short introduction.
Le donne in posizione di leadership sono ancora, quasi sempre, delle outsider, delle eccezioni, dei casi atipici. Un elemento chiave nel profilo delle leader populiste è dunque la loro “doppia estraneità”. Nella stanza dei giochi della politica si presentano come particolarmente adatte a incarnare l’opposizione tra popolo ed élite, che è l’asse su cui s’incardinano tutti i populismi: le donne sono/rappresentano il popolo perché in quanto donne non sono l’élite e sono escluse dal campo delle decisioni. È questo che dal punto di vista simbolico funziona nel gioco populista, al pari dell’imprenditore e del comico che scendono in campo.
“Il solo fatto che un leader populista sia una donna, mentre la vasta maggioranza delle élite (politiche) è composta da maschi, rafforza la sua immagine di outsider politica” proseguono Mudde e Kaltwasser. Questo non significa che le campionesse del populismo in Europa non siano professioniste della politica. Le Pen è nata dentro il Front National, Kjærsgaard è una delle fondatrici del Partito del popolo danese che ha guidato fino al 2012 e di Giorgia Meloni conosciamo la lunga storia politica nella destra italiana. Eppure, quel che è decisivo è il loro essere donne e neanche troppo “ordinarie” in un contesto tradizionale.
Eccolo il “fattore Marine”. Donna, non giovanissima ma ancora giovane, ha dato una svolta soft al programma del FN, rifondandolo sulla retorica della Francia repubblicana, e coniugando gli obiettivi della difesa nazionale e resistenza all’“oppressore” con un linguaggio di eguaglianza, libertà e laicità.
Le donne in posizione di leadership sono ancora, quasi sempre, delle outsider. Per questo sono adatte a incarnare l’opposizione tra popolo ed élite: l’asse su cui s’incardinano tutti i populismi.
“Marine Le Pen, la figlia di Jean-Marie Le Pen, ha abbandonato il revisionismo storico del padre (tristemente famoso per aver definito le camere a gas un “dettaglio storico”) e ha cercato di presentare il proprio partito come l’ultimo difensore dei valori repubblicani francesi contro le minacce dell’Islam e della dittatura economica dell’Area Euro da parte della Germania” nota il politologo di Princeton Jan-Werner Müller in Cos’è il populismo?.
Il nemico sono gli immigrati e l’Islam, mentre alcune battaglie conservatrici, sebbene non siano rimosse, restano sotto traccia. “Io sono contraria, ma capisco chi abortisce” ha detto Marine, che sull’interruzione di gravidanza ha posizioni più soft della nipote Marion Le Pen, giovane astro nascente del partito. Anche l’antisemitismo bandiera del vecchio Jean-Marie è cancellato (anche se di recente si è riaccesa una polemica sulla doppia cittadinanza che riguarderebbe anche gli ebrei francesi).
Femme, femme, femme. “Essere donna in politica non è un handicap ma un bene”. Sulla copertina della rivista/depliant che ha distribuito in 4 milioni di copie a febbraio, è chiaro come Marine voglia presentarsi: come una donna. Nel lungo e faticoso processo di distacco – quantomeno politico – dal padre questo è un passo fondamentale. Marine è “una madre, una sorella, una donna in politica in un mondo di uomini”.
Conquistare il voto femminile – Le elettrici
Il gender gap tra gli elettori del FN si sarebbe chiuso. Stando ai sondaggi attuali, infatti, la torta elettorale lepenista sarebbe divisa a metà: 50% uomini e 50% donne. Ma c’è di più. Secondo un sondaggio realizzato da Elabe, in un ipotetico – ma ormai non improbabile – secondo turno tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, quest’ultima avrebbe dalla sua più donne che uomini, 39% e 37%. Cinque anni fa, nel voto che avrebbe portato Francois Hollande all’Eliseo erano solo il 17% le donne francesi che sceglievano Marine. Il tradizionale Front National tutto maschile di Jean-Marie non esiste più e l’ex delfina è la responsabile della trasformazione. Parlare alle donne francesi significa al tempo stesso parlare a una fetta d’elettorato dimenticata fino a ieri e intestarsi alcune battaglie che sono “repubblicane” e “femministe”.
Negli Usa, la candidatura “femminista” di Hillary Clinton non ha riscosso successo tra le donne, in particolare nelle fasce della società più esposte alla crisi come le elettrici bianche senza laurea che negli stati chiave – per esempio Michigan e Ohio – hanno premiato in massa Donald Trump. La scommessa democratica sul tema del machismo e le accuse di molestie sessuali al candidato della destra non ha pagato. Il fattore (negativo) Trump non c’è stato, gli elettori – uomini e donne – l’hanno scelto senza badare a quello che si raccontava su di lui, spinte da fattori quali la condizione economica e l’appartenenza razziale.
Un trend analogo pare sia in corso anche in Europa. La crescita di Marine tra le donne francesi ha delle ragioni precise, spiega la sociologa Nonna Mayer, che da 25 anni studia il Front National. In primo luogo c’è il cambiamento di ruolo delle donne nella società in un’epoca di crisi economica. Negli ultimi dieci anni è aumentato il numero delle donne nelle fasce lavorative meno qualificate, operaie, commesse ecc. Proprio quel popolo degli esclusi e degli “sconfitti dalla globalizzazione” a cui si rivolgono i populisti in tutto il mondo. “Le donne sono la chiave” dice Mayer “Queste donne che spesso si sono astenute oggi sostengono Le Pen per proteggere il loro lavoro e la loro sicurezza”.
Negli ultimi dieci anni è aumentato il numero delle donne nelle fasce lavorative meno qualificate: proprio quel popolo degli esclusi a cui si rivolgono i populisti in tutto il mondo.
“I movimenti di destra attirano oggi perché sono prima di tutto nazionalisti, e non perché siano plebiscitari che inneggiano a un leader. Lo stile populista è machista, non come quello nazionalista che, come detto, è aperto alla nazione materna” ci dice ancora Urbinati. Si sta quindi incrinando quello stigma nei confronti dei partiti di estrema destra europei al quale – secondo il politologo olandese Eelco Harteveld – sarebbero più sensibili le donne rispetto agli uomini.
“Difendiamo le nostre donne”
Difendiamo la libertà delle “nostre” donne (o “difendiamoci, donne!”) dal pericolo dell’immigrato e del musulmano. Ma anche: liberiamo le donne immigrate e musulmane dal giogo patriarcale della loro cultura. Sono questi i due slogan più ricorrenti nella propaganda populista europea che mescola argomenti razzisti con l’appello all’uguaglianza tra i sessi.
Lo studio Understanding the Populist Shift individua tre tipologie di discorsi che partiti e movimenti populisti di estrema destra utilizzano per parlare di genere e sessualità: quelli che si richiamano alla “natura”, ai ruoli naturali di donne e uomini; quelli che difendono il modello della famiglia tradizionale ma riconoscono il diritto di ognuno di vivere la propria sessualità come crede, purché resti nel privato; quelli che difendono l’eguaglianza di genere, la libertà sessuale, i diritti delle minoranze come valori caratteristici dell’Occidente, a cui si contrappone la cultura “altra”, inassimilabile, dell’Islam, in particolare dell’uomo musulmano.
Le tre tipologie di discorsi sono spesso mescolate tra loro, non senza evidenti contraddizioni, ma la terza sembra prevalere tra le leader populiste di cui stiamo parlando, almeno nei riguardi dei diritti delle donne.
All’inizio del 2016, Marine Le Pen utilizzò strategicamente le confuse notizie provenienti dalla notte di Capodanno a Colonia, quando centinaia di donne sporsero denuncia contro stranieri ignoti per aggressioni sessuali e furti, per lanciare l’idea di un referendum anti-immigrati in Francia. “Sono disgustata”, scriveva sul quotidiano L’Opinion, “dall’inaccettabile silenzio e quindi tacito consenso della sinistra francese di fronte a questi attacchi fondamentali ai diritti delle donne”.
Richiamandosi alla madre del femminismo francese, Simone de Beauvoir, e al suo monito “soffriremo di una crisi politica, economica e religiosa per cui i diritti delle donne saranno rimessi in questione”, Le Pen identificava nella crisi migratoria, “l’inizio della fine dei diritti delle donne”.
Sonore sono state anche le prese di posizione della leader del Front National sul velo islamico, tema sempre caldo nel dibattito francese sulla laïcité. Durante la sua visita in Libano, a febbraio di quest’anno, Le Pen ha rifiutato di indossare il velo per incontrare il Gran Mufti, e il numero due del Front National, Florian Philippot, ha esultato per il messaggio di emancipazione.
Richiamandosi alla madre del femminismo francese, Simone de Beauvoir, Le Pen identificava nella crisi migratoria, ‘l’inizio della fine dei diritti delle donne’.
Nel 2015, Giorgia Meloni approfittò invece della giornata contro la violenza sulle donne del 25 novembre per contrapporre la situazione italiana, in cui – scriveva su Libero – “l’arretramento culturale che fomenta il maschilismo e nei casi più gravi la violenza sulle donne è un fenomeno oggettivamente in regressione”, e quella delle nazioni che “soffrono la presenza di un’ideologia religiosa repressiva e discriminante nei confronti delle donne”, in particolare nel mondo islamico. Non possiamo “sottovalutare il dramma con cui talvolta sono costrette a convivere le donne islamiche che vivono in Italia”, affermava la leader di Fratelli d’Italia. Come sopra: eguaglianza di genere in funzione anti-islamica.
Anche il partito di Frauke Petry ha assunto nell’ultimo anno posizioni sempre più apertamente anti-islamiche, rappresentando il velo e i matrimoni forzati come tratti di radicale estraneità di questa religione all’identità tedesca. “Una donna ben integrata in Germania”, ha detto la leader dell’AfD, “non ha bisogno del velo”: se coprire il capo e il corpo ha la funzione di proteggere le donne dagli uomini, questo potrà valere nelle società musulmane, non certo in Germania.
La norvegese Siv Jensen, spesso descritta come post-femminista perché si presenta come una feroce avversaria del “femminismo di Stato”, propone apertamente un doppio standard: no alle politiche di eguaglianza di genere per le donne norvegesi, che non ne hanno più bisogno; sì a queste politiche per le donne immigrate, in particolare provenienti da paesi a maggioranza musulmana, donne soggette a una cultura patriarcale da cui vanno liberate.
Omosessuali e populismi di destra
Sulle questioni LGBTQ il panorama dei diversi paesi si fa più mosso. Le donne leader dei populismi europei non sembrano riservare ai diritti di gay e lesbiche la stessa attenzione che questi ricevono, per esempio, nel programma dell’olandese Geert Wilders, che afferma di volerli difendere contro l’intolleranza dei musulmani. In Olanda, del resto, c’è il precedente di Pim Fortuyn, omosessuale ferocemente anti-islamista e aperto sostenitore dei diritti delle minoranze sessuali.
Anche Marine Le Pen, tuttavia, ha portato il partito ereditato dal padre – che non esitava a definire l’omosessualità come “un’anomalia biologica e sociale” – su posizioni sempre più avanzate, guadagnando un consenso crescente tra i gay francesi. Secondo uno studio dell’istituto Cevipof, alle ultime elezioni regionali ha votato per il Front National il 32% delle coppie omosessuali sposate, contro il 30% delle coppie eterosessuali sposate.
Certo, Le Pen intende abolire il matrimonio egualitario, tornando alla situazione precedente quando era disponibile solo l’istituto delle unioni civili, ma questo non sembra turbare il mondo LGBTQ quanto la minaccia identitaria rappresentata dall’“islamizzazione”. La mossa vincente è stata inserire gli omosessuali tra le categorie minacciate dall’Islam radicale, che l’FN è pronto a difendere: “sento sempre più testimonianze sul fatto che, in certi quartieri non è facile essere né donna, né omosessuale, né ebreo né addirittura francese o bianco”, disse nel 2010 in un discorso pronunciato a Lione.
Non si può dire lo stesso dei populismi di destra italiani, che restano ostili ai diritti LGBTQ. Anche qui, però, si può notare la maggiore “morbidezza” nel discorso di Giorgia Meloni rispetto alle posizioni classiche dell’estrema destra. Dopo l’annuncio della sua gravidanza, durante il Family Day del gennaio 2016, la leader di Fratelli d’Italia ricevette l’augurio ironico di Vladimir Luxuria “Auguri e figli trans!”, a cui rispose: “Se mio figlio fosse gay, trans, bisex, quadrisex, lo amerei come qualunque madre ama suo figlio, ma continuerei a essere contraria alle unioni omosessuali”.
Così torna la leader-madre che difende i figli e li ama prima di tutto. La soglia di casa e della famiglia coincide con le frontiere geografiche del paese e culturali di un popolo. Meglio che gli ospiti si accomodino alla porta.