S i potrebbe ipotizzare che non ci sia momento migliore per delle riflessioni a partire dal libro autobiografico di Maria Edgarda (Eddi) Marcucci, Rabbia proteggimi, da poco pubblicato da Rizzoli Lizard con le illustrazioni di Sara Pavan. Il testo racconta infatti della militanza dell’autrice nell’YPJ – l’unità di difesa delle donne curde nel Rojava, da anni impegnata in combattimenti contro l’ISIS – e dell’assurda criminalizzazione seguitane al suo ritorno in Italia, culminata in un provvedimento di sorveglianza speciale che ha limitato per anni la sua libertà personale in virtù di una fantomatica “pericolosità sociale” che Marcucci avrebbe maturato, a detta dei tribunali italiani, proprio nel Kurdistan occidentale. Quando, se non oggi, potremmo renderci conto che la storia narrata da Eddi è quella di una partigiana che mette in gioco la vita per prestare aiuto a un popolo che rischia il genocidio nel silenzio della comunità internazionale?
Le cose, purtroppo, non sono così semplici – basti ricordare che a minacciare l’autonomia e l’esistenza stessa del Rojava sono le truppe di quella Turchia che oggi si vorrebbe mediatrice tra i governi russo e ucraino. Rabbia proteggimi attraversa una vicenda diversa da quella che in queste settimane occupa drammaticamente la sfera pubblica italiana e non solo; una vicenda che mette anzi in scacco le categorie dominanti del dibattito acceso ma deprimente in cui siamo immersi. Una democrazia senza stato si intitola una raccolta di interventi apparsa pochi anni fa proprio sulla traiettoria storica e politica del Rojava: in questa formula paradossale, proveniente dagli scritti di Abdullah Öcalan, c’è la radicale alterità della sperimentazione politica in corso in quella terra, basata su autogoverno, ecologia e femminismo ed esplicitamente alternativa tanto allo stato-nazione quanto al capitalismo. L’asse portante di questa esperienza, come evidenzia la sociologa Dilar Dirik, è proprio l’emancipazione delle donne, la cui oppressione viene considerata alla stregua di una forma di colonialismo interno, dalla quale derivano tutte le altre – quelle delle potenze straniere che da secoli vessano la popolazione curda non meno di quella della “mentalità di stato” in quanto tale.
Marcucci affronta due “fronti”, quello mediorientale e quello italiano – facendoli ora intrecciare ora alternare, seguendo il tracciato analogico dei ricordi, utilizzando una scrittura priva di filtri in cui si susseguono irregolari lampi letterari e gergalità romanesca, comunicati politici e improvvisazioni poetiche. Potrebbe essere utile, allora, seguire uno dei molteplici fili rossi che tengono insieme la narrazione dell’autrice, farne emergere l’importanza e la profondità spingendosi anche oltre quanto lei stessa non dica. Uno dei punti di forza della sua voce narrante è infatti il rigore scarno della testimonianza, la capacità di veicolare un vissuto biografico ma sovraindividuale, che risulta tanto più politico proprio perché non si intestardisce a mettere in posa il sé. Marcucci parla di un popolo e di un movimento dei quali è diventata a tal punto sorella da riconoscerne la preminenza rispetto alle sue stesse, notevoli traversie. Questa posizione chiama inevitabilmente in causa chi legge e ne sonda la disponibilità a lasciarsi sfidare dai tanti rimandi, dal turbinio di riferimenti alla storia italiana e internazionale che, ad averli seguiti fino in fondo, avrebbero condotto Marcucci fuori strada. Il nostro sarà, di conseguenza, solo uno tra i possibili approcci a un libro che impressiona per la sua eccedenza, lontanissima dalle tendenze ombelicali che caratterizzano l’attuale inflazione del memoir.
Rabbia proteggimi è, tra le molte cose, un libro sulla giustizia e sulla relazione catastrofica intrattenuta con essa in Italia da quella parte politica definita più o meno impropriamente sinistra. Persino la biografia di Öcalan è legata a doppio filo, come Eddi ricorda, alle vicende del nostro paese. Espulso nel 1998 dalla Siria dopo essere già da tempo fuggito dalla Turchia, il fondatore del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e oggi ispiratore del PYD (Partito dell’Unione Democratica) iniziò una serie di peregrinazioni alla ricerca di asilo politico, nel corso delle quali giunse anche nell’Italia dell’allora governo D’Alema. Al termine di una intricata trattativa internazionale, le autorità italiane (ministro degli esteri era il liberale Lamberto Dini, della giustizia il comunista Oliviero Diliberto) imboccarono quella che è stata definita una “via vergognosa”: non intendendo né estradare Öcalan in Turchia (dove avrebbe subito un processo iniquo e rischiato concretamente la pena di morte) né contrariare uno stato con cui intratteneva importanti relazioni economiche (per non parlare degli alleati statunitensi, che consideravano il PKK un’organizzazione terroristica), si scelse, al di fuori di qualunque cornice giuridica, di “accompagnare” il leader curdo alla frontiera, nonostante la sua formale richiesta di asilo risultasse ancora pendente. Potendo dirigersi a quel punto solo nel nativo Kenya, Öcalan venne lì catturato dai servizi segreti turchi e quindi condannato all’ergastolo ostativo da scontare nel carcere di massima sicurezza situato sull’isola di İmralı, di cui è ad oggi l’unico detenuto. In modo beffardo, gli venne riconosciuto dalla competente commissione lo status di rifugiato politico in Italia quando era ormai già stato riportato in Turchia.
Rabbia proteggimi è, tra le molte cose, un libro sulla giustizia e sulla relazione catastrofica intrattenuta con essa dal centrosinistra italiano.
Il rapporto altalenante delle forze politiche di sinistra con il nesso di giustizia e legalità diventa evidente se si considera che gli anni in cui si sbarazzavano di Öcalan con poco riguardo per il diritto erano anche quelli durante i quali il ruolo e l’attività della magistratura diventavano il principale terreno di scontro con la destra guidata da Berlusconi, i cui guai giudiziari avrebbero segnato il quindicennio successivo. Progressivamente incapace di distinguersi dagli avversari sul piano delle politiche economiche e sociali, il centro-sinistra fece gradualmente delle legalità e della tutela delle prerogative del potere giudiziario il più forte elemento di contrapposizione al Cavaliere. Si registrava, nel frattempo, l’ingresso in politica di diversi magistrati illustri, alcuni dei quali avevano già segnato la fase di Mani Pulite, mentre molti altri acquisirono ampia visibilità pubblica per il loro impegno nel contrastare l’intreccio di politica e malaffare. Tra questi c’era Gianfranco Caselli, artefice fra l’altro del processo per reati di mafia all’ex presidente del consiglio Andreotti e dell’arresto di Totò Riina e Leoluca Bagarella. Esponente di spicco di Magistratura Democratica e notoriamente sfavorevole alle politiche degli esecutivi Berlusconi in materia di giustizia, Caselli divenne, al termine di una carriera brillante, procuratore capo a Torino. In quella veste si segnalò per l’aggressiva attività inquirente contro il movimento No Tav, di cui sotto la sua guida la procura torinese sostenne, senza esito, la prossimità al terrorismo. La criminalizzazione del movimento durante il mandato di Caselli e nel periodo successivo è stata criticata, negli anni, da molti studiosi e studiose – basti ricordare qui i lavori di Livio Pepino, Alessandro Senaldi e Xenia Chiaramonte.
Alla mobilitazione No Tav e a molte altre realtà dell’attivismo si avvicinava anche una studentessa romana di filosofia arrivata a Torino poco dopo l’inizio dell’incarico di Caselli: Maria Edgarda Marcucci aveva appena iniziato la sua formazione politica sullo sfondo di uno scenario in evoluzione, dove il rilievo della questione giudiziaria era cresciuto ulteriormente. Inneggiando alla cacciata dei condannati dal parlamento e all’uguaglianza davanti alla legge anche per i componenti di quella che era divenuta nota come la casta, il comico genovese Beppe Grillo radunava folle oceaniche e si poneva rapidamente alla testa di un nuovo, popolare partito politico. Il centrosinistra, che aveva giocato più volte la carta della legalità contro Berlusconi, faticava in quel momento a competere con il rigore tribunizio del proprio avversario, ritrovandosi zavorrato dai tanti propri esponenti di peso finiti a loro volta al centro di indagini giudiziarie. All’appiattimento della giustizia sulla legge andava presto ad aggiungersi quello della legge sulla morale: la parola d’ordine del Movimento Cinque Stelle era, non a caso, onestà.
Chi di sicuro non ha lasciato passare invano quegli anni è stato Öcalan, che trascorreva la prigionia leggendo e rinnovando significativamente le coordinate del proprio pensiero politico: dal vecchio marxismo-leninismo al municipalismo libertario teorizzato dall’anarchico Murray Bookchin, che insieme a influssi ecologisti e femministi andava a sfociare nel cosiddetto confederalismo democratico. Il carisma e la credibilità di Öcalan presso la comunità curda fecero sì che il cambiamento non rimanesse lettera morta: dopo una discussione interna durata alcuni anni, il PKK e i partiti suoi alleati hanno assunto il confederalismo come piattaforma politica. Tra gli sviluppi più interessanti di questa visione c’è stato il ripensamento del sistema giudiziario da parte delle regioni sulle quali la popolazione curda ha rivendicato l’autogoverno. In Rojava, la giustizia è basata su un modello riparativo anziché retributivo: per questo – scrive Janet Biehl – “il suo obiettivo non è soltanto quello di stabilire se un individuo abbia o no commesso un determinato crimine, ma anche di capire perché abbia agito in quel modo così da dargli degli strumenti per cambiare il suo modo di agire”. Lunghe pene detentive (fino a vent’anni) sono pertanto previste per un numero assai limitato di casi (omicidio, tortura, terrorismo), mentre i tribunali sono composti da persone elette all’interno della comunità, di cui almeno il 40% devono essere donne – il 100% se si tratta di giudicare una violenza compiuta da un uomo contro una donna.
Il sistema giudiziario del Rojava non muove pertanto da una pretesa di imparzialità, ma opera nella convinzione che esistano forme di parzialità positive (far giudicare i casi di violenza di genere alle sole donne) e altre negative (assegnare tale prerogativa solamente agli uomini). Significativo, in tal senso, è che i magistrati stessi incoraggiano forme di contradditorio nei confronti della propria attività che vanno ben oltre la presenza di diversi gradi di giudizio: fino a trecento individui possono richiedere di essere ascoltati, a titolo individuale o in rappresentanza di istanze sociali, dalle commissioni di giustizia che si trovano a decidere l’esito di un processo. L’elemento più radicale del sistema è probabilmente quello per cui, pur in presenza di una sorta di costituzione (chiamata contratto sociale) e di un codice di leggi, l’implementazione delle norme all’interno delle varie comunità prevede ampi margini di manovra – per cui ad esempio un furto commesso da una persona abbiente non sarà considerato allo stesso modo di uno compiuto da una povera. Questo è possibile perché molte dispute vengono risolte nell’ambito dei comitati di pace organizzati a livello di quartiere o cittadino, che deliberano all’unanimità in un’ottica di risoluzione dei conflitti invece che di repressione. È per conoscere da vicino un simile modello di società che Marcucci si reca per la prima volta in Rojava insieme ad altri attivisti italiani, nel 2017. Quello che avrà modo di vedere la convincerà a tornare pochi mesi più tardi, stavolta per combattere: nella resistenza e nella politica curde ha trovato un’idea di società per cui ha senso rischiare la vita.
In Rojava, la giustizia è basata su un modello riparativo anziché retributivo.
Al rientro in Italia la attende un modo assai diverso di intendere la giustizia. Per quanto sia incensurata, già in aeroporto un gruppo di poliziotti le notifica la richiesta di una “misura di prevenzione” a suo carico. La tesi della procura di Torino è tanto chiara quanto improbabile: a venire contestata non è né la partecipazione alla guerra contro l’ISIS, che non costituisce certo un illecito, né l’attivismo pregresso di Eddi e di quattro altri italiani che hanno fatto la stessa scelta, ma la combinazione tra le due circostanze. Condotte che non configurano un reato né singolarmente né nel loro insieme possono infatti divenire rilevanti nell’ottica delle misure preventive, un dispositivo giuridicamente obsoleto (retaggio dello stato liberale, furono rese tristemente celebri dal fascismo) che mira a colpire una non meglio precisata “pericolosità sociale”. Accade così che in uno stato fondato sulla resistenza al nazifascismo, a cui diedero un contributo fondamentale comunisti e socialisti, un pubblico ministero possa dichiarare che Marcucci e i suoi co-imputati “hanno fatto della lotta al sistema capitalista la loro ragione di vita ed è per questo che dopo aver acquisito un addestramento di tipo militare in Siria sono diventati socialmente pericolosi”. Secondo una simile logica, una buona parte dei partigiani e delle partigiane avrebbero dovuto ricevere, dopo il termine del secondo conflitto mondiale, misure di limitazione preventiva della libertà.
La sorveglianza speciale verrà alla fine approvata soltanto per Eddi, la più giovane delle persone per cui era stata richiesta, nonché l’unica donna. La sua identità di genere, come sottolineano alcune delle pagine più drammatiche del libro, sembra quasi costituire un’aggravante: di lei si registrano con disapprovazione il “passo marziale” e “l’andatura aggressiva”, mentre mai annotazioni simili vengono fatte nei confronti degli altri imputati. Che una donna possa decidere di imbracciare le armi in difesa di un’ideale politico democratico ed egualitario appare come qualcosa di irricevibile, che necessita la presenza di ulteriori e ben meno nobili motivazioni.
Non è forse sorprendente che vicende come quella di Marcucci siano rimaste ai margini del dibattito politico nazionale: le forze di sinistra con un qualche peso nelle istituzioni sono ormai prive di strumenti concettuali e valoriali che possano comprendere la giustezza di una posizione che si pone apertamente in contrasto con gli orientamenti del potere giudiziario (giova qui ricordare che la sorveglianza speciale ai danni di Eddi è stata confermata in tutti i gradi di giudizio); quelle di destra, dal canto loro, possono intrattenere in vari casi un rapporto più ambivalente nei confronti dell’ordinamento – ma di certo non quando la deroga alla legalità è fatta in nome di forme di vita e di governo sideralmente lontane dalla propria visione del mondo, come avviene con il Rojava. Al di là di questa doppia impossibilità resta lo spazio sociale magmatico popolato da movimenti femministi e sindacati di base, ambientalisti e intellettuali, associazioni a difesa dei diritti delle persone migranti e centri sociali – tutte realtà che, a titolo e in modi diversi, hanno manifestato a Marcucci il proprio supporto. Non si tratta di guerriglieri “dal passo marziale”, ma di persone come Piersante Paneghel, lo zio di una ragazza (Valeria Solesin) uccisa dai terroristi dell’ISIS nell’attentato del Bataclan, la cui splendida lettera a Eddi e ai suoi compagni è inclusa in Rabbia proteggimi. Il libro può allora essere letto come uno dei rari documenti in grado di mostrare con semplicità lo scollamento tra componenti progressivamente più ampie della società civile italiana e quei poteri che quotidianamente appiattiscono la giustizia sulla legalità e questa su un moralismo da farisei.
La storia di Maria Edgarda Marcucci è, in diverse accezioni, esemplare. In grammatica – Giorgio Agamben lo ricorda più volte nei suoi lavori – l’esempio mostra la caratteristica che unisce i membri di una certa classe (i termini a cui si applica una regola), ma nel farlo si protende oltre i confini della classe stessa, sfiorando, al massimo della sua efficacia, la forma dell’antonomasia – cioè di un caso che è esemplare proprio perché non è più un esempio fra gli altri, ma l’esempio migliore. Tuttavia, l’esempio linguistico mantiene ancora una sua inequivocabilità, poiché il suo verso non è mai veramente in discussione: è l’uso della lingua che fa la regola linguistica, non il contrario (la regola, in altre parole, codifica un uso preesistente). Nell’ambito giuridico (e in quello etico), di contro, l’esempio può procedere tanto dal generale al particolare (una sentenza che applica in modo inconfondibile una norma preesistente; la condotta del discepolo che si estrinseca nel rispetto minuzioso dei precetti trasmessi dal maestro), quanto dal particolare al generale (un caso che mette in crisi le norme vigenti, testimoniando la necessità di innovare il diritto; un’esistenza che crea scandalo nell’incarnare dei principi radicalmente altri rispetto a quelli della morale dominante). Nel confronto di queste due dimensioni – l’esempio profondamente prevedibile e quello sommamente inaudito – si articola il rapporto di Marcucci e della rivoluzione curda con la giustizia, e per comprenderlo al meglio può esserci d’aiuto il pensiero di Gilles Deleuze.
Le forze di sinistra con un qualche peso nelle istituzioni sono ormai prive di strumenti concettuali e valoriali che possano comprendere la giustezza di una posizione che si pone apertamente in contrasto con il potere giudiziario.
Esiste senz’altro un esempio della legge, che funge da monito al rispetto di una norma che si vorrebbe ben nota – nell’Anti-Edipo Deleuze e Guattari la chiamano legge-papà, che si rivolge a noi dicendo: “Segui il mio esempio, ti voglio bene, o sarai punito”. In forma appena più complessa, è così che i tribunali hanno inteso la sorveglianza per Eddi: un ammonimento per chi abbia intenzione di impegnarsi in manifestazioni di dissenso, l’avvertimento che il potere giudiziario rivolge a cittadine e cittadini – “Badate di non mettervi nei guai, altrimenti vi puniremo come abbiamo fatto con lei”. Questa logica è intrisa di pedagogia reazionaria: rendere qualcuno un esempio significa anche dargli una lezione, fare in modo che in futuro ci pensi bene prima di andare a sostenere una rivoluzione o soltanto di frequentare un centro sociale.
D’altra parte c’è anche un esempio del diritto, o della singolarità. Per Deleuze, una distanza incolmabile separa il pensiero della legge dalla pratica del diritto (che, sottolinea bene Laurent de Sutter, non è da intendersi come ciò che avviene nei tribunali – pratica sociologica -, ma in senso filosofico, in quanto pratica speculativa). La legge opera tramite la ripetizione: a eguale infrazione, corrisponderà eguale punizione. Si tratta di applicare ripetitivamente, dall’alto in basso, il generale al particolare, seguendo il procedimento del giudizio (procedimento tanto terribile quanto banale, se è vero che Kant chiamava stupidità l’incapacità di giudicare). Al giudizio il diritto oppone l’associazione tra diversi casi, cioè situazioni singolari, concrete – e quindi mai perfettamente equivalenti le une alle altre. Non assistiamo qui a una ripetizione, ma (afferma Deleuze rileggendo Hume) a un’invenzione: ogni nuovo caso, anche il più banale, arricchisce la rete delle associazioni. In questo senso, si potrebbe dire, i casi sono tutti egualmente esemplari, sono cioè tutti indispensabili alla formazione di regole in continua evoluzione. Ecco allora che l’associazione inventiva dei casi – che Deleuze chiamava giurisprudenza – non avviene in modo meramente caotico, ma ribaltando la logica del giudizio: anziché applicare una norma generale e valida una volta per tutte al caso particolare, l’associazione opera nel verso contrario, costruendo dalle singole situazioni principi che vengono continuamente messi alla prova (e se necessario rivisti) man mano che emergono nuovi casi.
Le complesse riflessioni di Deleuze sul diritto non sono altro che l’anticipazione speculativa della prassi giuridica che si svolge realmente in Rojava, dove la presenza di vari livelli di implementazione delle decisioni e di invenzione delle regole, tutti operanti secondo un modello radicalmente democratico, rompe la contraddizione tra la certezza della legge e la creatività del diritto. Certe condotte sono sì sanzionate secondo un codice preciso, ma in un’ottica non retributiva, che commina “riparazioni” caso per caso (il furto del ricco, si ricordi, non viene trattato come quello del povero, per quanto l’appropriazione dei frutti del lavoro altrui sia sanzionata in entrambi i casi). Nel decidere dell’applicazione della legge a situazioni concrete, le comunità di quartiere o di villaggio elaborano via via principi di cui si serviranno in futuro – principi che potranno rimanere al livello di mere consuetudini o sfociare in vere e proprie proposte di nuove leggi. In questa cornice non possono esserci casi esemplari in un’accezione punitiva, perché non ci sono casi uguali.
L’esemplarità che muove dal singolare al molteplice, tuttavia, non funziona solo in ambito giuridico, ma anche in quello etico: il ricordo e l’omaggio incessante che viene tributato in Rojava a quante e quanti hanno perso la vita nella difesa della rivoluzione dalle truppe dell’ISIS o da quelle turche fa di quelle figure dei modelli di vita. Hannah Arendt aveva ben intuito la potenza etica di una condotta esemplare: la verità della condotta socratica non stava nelle argomentazioni – notoriamente fallaci – che Socrate offriva in sua difesa, ma nell’esistenza di Socrate stesso: era nella sua decisione di non fuggire dinanzi a una condanna ingiusta che la massima per cui “è meglio subire un’ingiustizia che compierla” dimostrava la sua veridicità.
I tribunali hanno inteso la sorveglianza per Eddi come un ammonimento per chi abbia intenzione di impegnarsi in manifestazioni di dissenso, l’avvertimento che il potere giudiziario rivolge a cittadine e cittadini.
Esemplificare con le scelte di vita i principi che muovono le proprie azioni, diventare un modello, è però una pratica non esente da problemi, a cominciare dal rischio di individualizzare, s-politicizzandole, decisioni che assumono senso solo in un contesto più ampio. Marcucci esprime con forza il rifiuto di un appiattimento della sua militanza a morale umanitaria: “Quando partiva il che-persone-straordinarie-che-siete, nel giro di due secondi ero a disagio. Lo capivo, ma non mi faceva meno male. L’istinto era quello di interrompere la cantilena con qualcosa che avrebbe creato tensione e messo tutti a disagio, credo di averlo fatto qualche volta, così per condividere un po’ la posizione del cazzo in cui mi sentivo io”. Un esempio pienamente politico, in altri termini, non può limitarsi al piano della responsabilità individuale – lo stesso, non a caso, con cui opera il diritto penale nell’attribuzione della colpa.
In Istinti e istituzioni, Deleuze distingueva tra la legge (che è “una limitazione delle azioni”) e l’istituzione come “modello positivo di azione”. Ancora più di Hume prima di lui, Deleuze attribuiva al concetto di istituzione un peso molto maggiore a quello che ha nel linguaggio corrente: istituzione è ciò che dimostra l’irriducibilità degli esseri umani ai loro istinti e bisogni, l’incapacità di questi ultimi di spiegarne la condotta – “il negativo non spiega il positivo, né il generale il particolare”. L’istituzione deleuziana è sempre una faccenda collettiva, che rimanda alla creatività dell’agire di concerto. Quella del confederalismo democratico è, in tal senso, una politica istituzionale (potremmo anche dire: istituente) nella quale il modello esemplare non è tanto un singolo, sia pure ritenuto eroico (Öcalan), ma l’intera società: i martiri della rivoluzione fungono da esempio non in virtù di una qualche individualità eccezionale, ma per ciò che li e le accomuna. Distinguersi, ci ricordano Deleuze e l’insofferenza di Marcucci di fronte agli elogi, è facilissimo; il difficile è rendersi quanto più simili possibile, diventare impersonali – cioè esemplari.
Una delle conseguenze più dirompenti di una visione come quella appena abbozzata è l’indisponibilità al compromesso nei confronti delle istituzioni nell’accezione più prosaica del termine, quelle che incontriamo quotidianamente e che operano in ossequio alla legalità deleuziana, limitando l’agire collettivo. “Meglio essere una spazzino che un giudice”, dichiarava Deleuze a Claire Parnet – o, nella versione (a mio avviso persino migliore) di Eddi: “Mi sono pure dovuta sciroppare un piagnisteo sulle povere guardie ultima ruota del carro, che si portano la carta igienica da casa in commissariato. Ogni volta ti parlano come se li avessi obbligati tu a fare ‘sto mestiere”. Mentre il Rojava si trova nuovamente sotto le bombe turche e rassegnarsi alle vite perse in nome di qualche stato viene scambiata per una professione di realismo, occorre ricordarcelo in continuazione, noi che abbiamo ancora la fortuna di poterlo dire: nessuno ci obbligati a volare così basso.