A bbiamo una parola nuova, o meglio, non ce l’abbiamo ma una parola nuova si sta affacciando con insistenza nelle cronache internazionali. La parola è incel, la contrazione dei termini inglesi involuntarily e celibate, vale a dire: gente che, contro la sua volontà, non ha una vita sessuale. Di per sé non ci sarebbe nulla di strano, se non fosse che dietro questo neologismo si è consolidato un movimento di maschi rancorosi, che citano questa supposta privazione nelle loro vite come motivo per uccidere. C’è da domandarsi: viene prima il maschio rancoroso organizzato, o la parola che lo descrive?
La questione non è futile come si potrebbe pensare. Chiunque abbia qualche nozione di etnolinguistica sa che ogni cultura produce le parole di cui ritiene di avere bisogno: per cui gli hawaiani hanno 65 parole solo per descrivere le reti da pesca, gli scozzesi dispongono di una grande varietà di termini nella categoria “maltempo”, e in Brasile ci sono 29 modi diversi di dire “formica”, a seconda della commestibilità. L’inglese è una lingua duttile, in cui la crasi è all’ordine del giorno e viene rapidamente assimilata: l’assenza di desinenze fisse per le forme verbali fa sì che tutto possa essere un verbo, e se non ci credete: Google it. Incel, come alt-right, è una parola possibile. Ma è una parola auspicabile? È consigliabile, dal punto di vista etico, dare legittimità linguistica al concetto di Incel?
Facciamo un passo indietro e andiamo al 2014, quando Rebecca Solnit pubblica Men Explain Things To Me (Gli uomini mi spiegano le cose, Ponte alle Grazie 2017) e lancia il termine mansplaining. L’etimologia è chiara: men+explaining. All’improvviso, un’esperienza che la maggior parte delle donne ha avuto nella sua vita – ovvero quella di vedersi spiegare con sufficienza da un interlocutore di sesso maschile cose che sa meglio di lui o di cui lui non ha la minima esperienza – ha un nome. Un nome che indica non solo l’azione, ma anche la reazione: essere soggette a mansplaining genera una forma di rabbia e frustrazione che non è presente in un qualsiasi (pacato) scambio di opinioni con un uomo; un nome che esprime un portato culturale antichissimo, fatto di pregiudizi di genere, supremazia maschile percepita, autorevolezza auto-conferita. Gli uomini ti spiegano cose che conosci meglio di loro perché pensano che la loro opinione sia necessaria, anche quando non richiesta. Da quella presa di coscienza – non sei tu l’ignorante, sono loro gli arroganti – nasce una nuova consapevolezza; dalla designazione di un concetto, di un’azione, di una cultura, nasce la possibilità di affrontare un nodo centrale della cultura e della società.
Dietro il neologismo incel, la contrazione dei termini inglesi involuntarily e celibate, si è consolidato un movimento di maschi rancorosi.
Che fare, quindi, con la parola mansplaining? Togliere il corsivo che ne indica l’estraneità, come abbiamo fatto con jihad o con computer, o trovare una parola macedonia che le equivalga? L’italiano non dispone della duttilità dell’inglese, ma in questo caso la crasi è possibile: le due soluzioni proposte in ambienti femministi sono “minchiarimento” e “maschiarimento”, con tutti i limiti del caso: entrambe le soluzioni sono declinabili anche come forme verbali, una è più volgare ed espressiva ma presenta problemi etici legati all’identificazione dei genitali con il genere della persona (e penalizzerebbe quindi le donne trans), la seconda è meno espressiva ma formalmente più corretta. C’è anche chi spinge per la neutralità di “sovraspiegazione”, che però perde un elemento fondante della sua ragione d’essere, e quindi anche tutto il motivo per la creazione di un termine per designare qualcosa che non c’è. I sostenitori del mantenimento della versione originale inglese non tengono conto dell’alterità percepita di un barbarismo assimilato: “jihad” indica un fenomeno che non riconosciamo come autoctono, radicato in una cultura altra da quella italiana. “Computer” ci ricorda la supremazia tecnologica del mondo anglosassone da cui si è generato il termine: il primo calcolatore è stato inventato da Ada Lovelace e Charles Babbage, e anche le successive innovazioni vengono da paesi di lingua inglese. Inoltre, non è da escludere la reazione post-bellica alle forzature linguistiche imposte dal fascismo: dopo vent’anni di repressione e pretesa autarchia etimologica, gli italiani si sono buttati con gioia nell’appropriazione della lingua dei liberatori, anche a sproposito, con una dovizia di footing, dancing e body sparpagliati per il vocabolario.
Mansplaining viene dal femminismo americano, ma non descrive un fenomeno americano. Se c’è una cultura patriarcale che ha bisogno di dare un nome ai suoi vizi, quella è la nostra.
Torniamo a incel, e applichiamo al termine la stessa logica che abbiamo applicato a mansplaining. A differenza di mansplaining, il termine in sé descrive qualcosa di relativamente nuovo: gli uomini hanno sempre spiegato alle donne la vita, l’universo e tutto quanto, ma è solo negli ultimi decenni della storia del mondo che le donne hanno cominciato a esercitare una forma di controllo sulla propria sessualità, mettendo in crisi l’idea radicata che il corpo di una donna sia demanio pubblico a disposizione del desiderio maschile. Un’idea non del tutto debellata, come si può vedere dai ripetuti tentativi di rendere impossibile l’aborto o dal modo vergognoso in cui sono condotti i processi per stupro, ma che va comunque indebolendosi anche in proporzione all’ingresso sempre più massiccio delle donne nel mondo del lavoro. Una donna economicamente indipendente è una donna che può scegliere; una donna che può scegliere può permettersi di dire no a qualsiasi pretendente indesiderato. I tempi delle zitelle che si dovevano sistemare per non morire di fame sono finiti da un pezzo; quello che non è finito né accenna a finire è la percezione della donna come un bene di consumo, un accessorio, una preda, un essere il cui desiderio sessuale è al meglio reattivo, al peggio guidato da motivazioni utilitaristiche. La donna, si dice, desidera l’uomo potente e penalizza l’uomo normale.
È davvero opportuno legittimare questo fenomeno e questi gruppi incorporando nel nostro discorso un termine non derogatorio che li individua?
È su questa percezione che si fonda la Weltanschauung dei cosiddetti incel: sull’idea che l’esercizio della sessualità sia un diritto sindacale di base di tutti gli uomini, e come tale deve vedere garantita l’erogazione del materiale di base con cui esercitarla. Gli incel odiano le donne perché ritengono di essere da loro ingiustamente penalizzati, invertendo il rapporto di causa-effetto fra la loro indesiderabilità e la loro rabbia. Gli uomini di questo tipo sono talmente pieni di risentimento e incapaci di relazionarsi da risultare respingenti: la misoginia è la causa del loro male, non l’effetto.
Sarebbe facile patologizzare questi comportamenti, dire che questi uomini sono sociopatici o affetti da qualche altro deficit dello sviluppo emotivo, ma questo non solo sarebbe ingiusto nei confronti delle persone affette da disturbi mentali, che molto di rado sono violente, ma sarebbe anche un modo per prenderne le distanze: quello è matto, che ci vuoi fare, va curato. Qualche “matto” sicuramente ci sarà, ma gli uomini che aderiscono a questo genere di gruppi di opinione non sono necessariamente malati. Spesso, troppo spesso, sono solamente esseri umani che raccolgono in sé il peggio di una cultura che non fa nulla per educarli a rapportarsi con le donne in maniera paritaria e distesa, ma fomenta in loro la percezione della donna come qualcosa da conquistare e gettare via, da usare e disprezzare. Figli sani del patriarcato, insomma, per quanto involuti.
Dato quanto sopra, è davvero opportuno legittimare questo fenomeno e questi gruppi incorporando nel nostro discorso un termine non derogatorio che li individua? Se da un lato è vero che quello che non viene descritto non esiste (vale per la mafia, il patriarcato, il mansplaining, tutto) è anche vero che a queste manifestazioni misogine manca giusto il riconoscimento come movimento d’opinione per sentirsi giustificate e forti di un’appartenenza. Si finisce come con l’alt-right, appunto: che dietro la sigla scattante e giovanile cela sempre lo stesso vecchio fascismo, ma più aggressivo e vivace sui social media. Oppure con i Men’s Rights Activists, che negli anni ‘70 avremmo chiamato semplicemente sciovinisti, e che adesso si danno arie da combattenti per i diritti dei poveri maschi oppressi dalle donne cattive e meschine. Dare al termine incel dignità di assimilazione, o peggio, cercarne una (necessariamente cacofonica) traduzione italiana non aiuta a segnalare un problema che una volta identificato può essere risolto: si limita a creare una sigla per descrivere un malessere che viene aumentato, non alleviato, dal confronto con i propri simili, una cultura velenosa che sfocia facilmente nel bullismo, in azioni coordinate di violenza verbale e, nei casi più gravi – come quello di Elliot Rodger, l’assassino di Isla Vista; o di Alek Minassian, il suo emulo che a Toronto ha falciato ventisei persone con un camion – nell’omicidio.