U
na sedia ribaltata, cinque fori sulla parete e un lenzuolo bianco adagiato sul palco. La fotografia, scattata da Stanley Wolfson, ritrae così la scena dell’assassinio di Malcolm X. A cinquantasette anni di distanza questo delitto è una storia non solo giudiziaria ancora aperta. L’eredità complessa di Malcolm X esplora l’incapacità dell’America di fare luce ed elaborare pienamente un’epoca decisiva della biografia nazionale.
Venti giorni dopo l’agguato, compiuto il 21 febbraio del 1965 nell’Audubon Ballroom di Manhattan, dove Malcolm X avrebbe dovuto tenere un comizio rilevante per la presentazione del programma dell’Organization of Afro-American Unity, le autorità di polizia e giudiziarie statunitensi incriminarono per la sua morte tre membri della Nation of Islam, tra cui Mujahid Abdul Halim, arrestato mentre scappava dalla sala da ballo.
Nell’arco di due settimane vennero coinvolti nell’omicidio Muhammad Abdul Aziz, già noto come Norman 3X Butler, e Khalil Islam (Thomas 15X Johnson), seppure Halim avesse smentito il loro coinvolgimento senza dare i nomi di altri killer. Dalla condanna a venti anni di carcere, emessa nel febbraio del 1966, si sono avvicendati tentativi costanti di revisione del loro caso. Aziz, oggi ottantatreenne, e Islam, ex autista di Malcolm X, deceduto nel 2009, ottennero la libertà vigilata rispettivamente nel 1985 e 1987. Lo scorso 18 novembre Aziz ha potuto ascoltare in tribunale dalla voce della giudice Ellen Biben della New York County Supreme Court la sentenza che li scagiona dalle accuse e le scuse per il fallimento della giustizia.
La decisione deriva dagli esiti dell’indagine, diretta negli ultimi due anni dal procuratore distrettuale di Manhattan Cyrus Vance Jr. con il contributo chiave degli avvocati difensori delle due vittime del sistema giudiziario, che hanno mostrato l’infondatezza del loro collegamento alla stessa scena del crimine, nel quale invece sarebbero stati presenti agenti sotto copertura. Il processo del 1966 fu viziato dal ruolo dell’FBI e del Dipartimento di Polizia di New York che celarono le prove fondamentali che avrebbero consentito già allora l’assoluzione di Aziz e Islam.
L’eredità complessa di Malcolm X riguarda l’incapacità dell’America di elaborare pienamente un’epoca decisiva della biografia nazionale.
“Porgo le scuse in nome delle forze di polizia della nazione per questi decenni di ingiustizia, che ha eroso la fiducia nelle istituzioni chiamate a garantire eguali diritti a ogni cittadino davanti alla legge – ha dichiarato il Procuratore Vance –. Non possiamo restituire ciò che abbiamo sottratto a questi uomini e alle loro famiglie, ma cancellando le condanne forse possiamo cominciare a ricostruire una fede nella giustizia”.
Colpisce che questo passo sia scaturito in buona parte dalla pressione e dal lavoro d’inchiesta culturale. Nel 2011 la biografia (pubblicata in Italia dall’editore Donzelli con la prefazione del professore di letteratura angloamericana Alessandro Portelli) Malcolm X di Manning Marable, che mostra il suo volto politico, radicale e umanamente più complesso di quello dell’autobiografia, sollecitò nuove investigazioni. Nel 2020 la produzione di Netflix Who Killed Malcolm X? ha fatto riaprire il fascicolo e rivedere in modo definitivo le responsabilità di Aziz e Islam.
“Quando uccisero Malcolm X, che era rappresentato male dai media, era considerato un nemico pubblico – dice Portelli al Tascabile –. Gli editoriali del New York Times dopo la morte erano letteralmente indecenti. Nel tempo, appiattendo gli aspetti del suo radicalismo, è stato reso più accettabile. L’icona creata dal film di Spike Lee è divenuta meno minacciosa e ha aperto un filone, che seppure non restituisca completamente giustizia alla figura storica, non fa scivolare nell’oblio l’oscurità della suo assassinio”. Il riconoscimento tardivo dell’innocenza di Aziz e Islam non colma tuttavia le domande irrisolte sull’eliminazione di un leader della lotta per i diritti umani, andato incontro al rischio della morte esponendovisi senza alcuna forma di protezione.
Non sembra sufficiente lo scenario del delitto, che si sofferma solo sugli effetti della rottura e dello scontro di Malcolm X con la leadership della Nation of Islam, l’organizzazione religiosa conosciuta nell’esperienza del carcere, per la costruzione di nuove piattaforme di lotta globale per la liberazione dei neri non solo in America. Uscito di prigione nel 1952, divenne un membro di primo piano della Nation of Islam, scomodo con il suo crescente carisma, fino al progressivo distacco dalle posizioni e la disillusione verso il leader Elijah Muhammad.
La lotta non aveva come orizzonte la sola conquista dei diritti, ma presupponeva un cambiamento della percezione intima delle radici e della propria essenza.
Nel 1961 quest’ultimo spinse Malcolm a incontrare la leadership del Ku Klux Klan ad Atlanta. Il vertice della Nation of Islam, nella prospettiva separazionista, mirava a convergenze improponibili per il giovane attivista. Il cambiamento della relazione con il capo discusso dell’organizzazione mostra la libertà di pensiero e l’indipendenza che lo caratterizzarono. Dai viaggi alla Mecca, dove raccontò di aver incontrato una religione ben diversa da quella propagandata dalla Nation of Islam, alla capacità di articolare nel tempo la dimensione politica e quella religiosa. Dal distacco con Muhammad creò la Muslim Mosque a Harlem e l’Organisation of Afro-American Unity per il riconoscimento e rispetto dei diritti umani degli afroamericani.
Anche dopo la morte, Malcolm X, che nel 1965 aveva appena 39 anni, non sembra davvero essersene andato. Le persone continuano ad ascoltare i suoi discorsi. Ritroviamo le sue parole nei testi musicali. La sua autobiografia resta un testo capace di attraversare le generazioni ed è tuttora molto letta. Nella storia della sua caduta, conversione, resurrezione religiosa e politica, il messaggio di Malcolm X ha decostruito l’idea d’inferiorità dei neri rispetto ai bianchi negli Stati Uniti, un pensiero radicatosi nelle stesse comunità afroamericane. Ha affrontato a viso aperto l’oppressione del suprematismo bianco che aveva instillato questo falso senso di subalternità. La sua lotta insomma non aveva come orizzonte la sola conquista dei diritti civili, presupponeva un cambiamento profondo della percezione intima delle radici e della propria essenza.
Nell’Autobiografia di Malcolm X (traduzione di Roberto Giammanco, Rizzoli), portata a compimento da Alex Haley, già il rapporto con la propria immagine descrive questa lacerazione e lo spazio di consapevolezza da conquistare:Com’ero ridicolo! Ero abbastanza stupido da star lì ritto, perduto nell’ammirazione dei miei capelli che avevano l’aspetto di quelli dei bianchi, lì riflesso nello specchio della stanza di Shorty. Promisi a me stesso che non sarei mai rimasto senza la stiratura e infatti, per molti anni, mantenni quella promessa. Quello fu davvero il primo grande passo che feci verso l’autodegradazione: sopportai tutto quel dolore, bruciandomi letteralmente la carne con la lisciva, per poter far diventare lisci i miei capelli in modo che sembrassero come quelli dei bianchi. Ero entrato anch’io a far parte di quella moltitudine di uomini e donne che, in America, sono spinti con ogni mezzo a credere che i negri sono inferiori e i bianchi superiori, fino al punto di mutilare e distorcere i loro corpi nel tentativo di sembrare “graziosi” secondo i criteri di giudizio dei bianchi.
Malcolm X trasmise l’orgoglio e rispetto di sé stessi degli afroamericani indipendente dallo sguardo degli altri. “Questo è l’aspetto più importante della sua eredità – sottolinea Portelli –. L’idea di separazione dall’America dei bianchi riguardava semplicemente la volontà di autodeterminazione e autonomia economica, politica degli afroamericani nel gestire la propria vita”. La vita, e i quartieri, come Harlem. Nel discorso che lanciava l’incontro del 21 febbraio Malcolm X scrisse: “Nessuno sistemerà e raddrizzerà Harlem se non lo facciamo noi. Nessuno pulirà per noi le nostre case e le strade. Harlem è la nostra casa e la puliremo. Pulirla significa controllarla e determineremo la politica. Gestiremo l’economia come il sistema scolastico e sarà una svolta”. Che cosa ha rappresentato quel quartiere? Sottraendosi all’ombra della Manhattan bianca, è stato il sogno di un luogo vitale in cui i neri potessero esprimere e realizzare pienamente sé stessi. La capitale dell’America nera, come fin dall’inizio del ventesimo secolo è stata identificata Harlem, è il simbolo della fine dell’acquiescenza degli afroamericani verso l’ingiustizia, la povertà e la marginalità. Nell’area geografica di Harlem troviamo una profondissima stratificazione culturale e una storia in costante movimento. L’orgoglio nero significava creare forme di autorganizzazione, essere indipendenti, sfidando il terrorismo di matrice suprematista che si imponeva mediante la paura.
Harlem è il simbolo della fine dell’acquiescenza degli afroamericani verso l’ingiustizia, la povertà e la marginalità.
Malcolm X trasformò la lingua e inventò un vocabolario che, pur con dei massimalismi (alle volte trasformatisi in limiti nella visione e nell’azione), provocò una rottura a fronte di un’oppressione plurisecolare. La conquista essenziale, la posta in gioco, era non essere espulsi dalla storia, anzi credere di riuscire a determinarla con la propria dignità, sentendo intimamente qual è il prezzo che si è disposti a pagare per questa felicità. La felicità nello scoprire la libertà, nel partecipare alla creazione di una comunità, nel costruire la propria casa. La felicità di essere vivi nonostante tutto.
“Malcolm X è un’espressione molto avanzata e consapevole del linguaggio popolare degli afroamericani nei ghetti – osserva Portelli –. Utilizzava l’eloquenza del linguaggio aggressivo di strada, anche sarcastico. Sapeva lavorare sul suono e sul ritmo, forme confluite nel rap”. Il linguaggio, che divenne costruzione di senso e conoscenza, è stato la spina dorsale dell’impatto politico di Malcolm X, capace di portare sul podio più alto e alla massima espressività la retorica della strada. Del periodo di reclusione in carcere, riconobbe l’attrazione fondamentale verso l’idea che anche nel luogo remoto di una cella tra i detenuti più riluttanti una persona potesse ottenere il rispetto e lottare insieme e grazie alle proprie parole: lo sviluppo del linguaggio equivaleva alla possibilità di confrontarsi e contrastare i propri demoni.
Imparare a lottare con le parole è non a caso il titolo di uno dei capitoli più interessanti dell’ultima biografia, non ancora tradotta in italiano, The Dead are Arising, pubblicata nel 2020 e vincitrice del National Book Award per la non fiction. La nuova biografia nasce da una ricerca trentennale cominciata dal giornalista investigativo Les Payne, vincitore del Premio Pulitzer, e portata a termine dalla figlia, Tamara Payne. Padre e figlia hanno raccolto centinaia di interviste, analizzato documenti inediti per disegnare un ritratto davvero approfondito di Malcolm X. Una parte preponderante del testo illumina le origini e il contesto famigliare che lui ha spesso sottolineato come fonte d’ispirazione, soprattutto nella figura materna.
I Payne hanno ripercorso le convinzioni e l’impegno dei genitori: il padre Earl Little, morto quando il figlio aveva sei anni, e Louise, che tenne insieme la famiglia nelle ristrettezze. Erano seguaci di Marcus Garvey e attivisti. Non avevano alcuna deferenza indotta da osservare verso i bianchi. Tra gli insegnamenti lasciati dalla madre al figlio spiccava quello di non farsi ferire dal razzismo, dagli attacchi verbali e fisici violenti negli anni dei linciaggi del Ku Klux Klan. Questo lascito sviluppò l’attitudine mentale di Malcolm X nel resistere alla provocazione razzista e forgiò il suo carattere.
Il linguaggio è stato la spina dorsale dell’impatto politico di Malcolm X.
Anche Martin Luther King Jr aveva maturato in tenerissima età consapevolezze politiche e sociali sull’esempio dei genitori, che aborivvano la segregazione nel solco di una resistenza radicata già nel contrasto al razzismo delle leggi Jim Crow. Il padre, Martin Luther King Sr, anch’egli pastore battista, di cui il figlio ammirava l’autentico spirito cristiano, fu presidente della National Association for the Advancement of Colored People di Atlanta. The Dead are Arising esplora le convergenze linguistiche, politiche, religiose che segnarono i percorsi dei due attivisti, avvicinando King Jr a Malcolm X, piuttosto che il contrario: un percorso insolito che restituisce la radicalità del primo molto spesso negata o edulcorata. “Sappiamo per dolorosa esperienza che la libertà non viene mai accordata spontaneamente dagli oppressori, ma che deve essere reclamata dagli oppressi”, scrisse King Jr nel documento fondamentale che è la Lettera dal carcere di Birmingham. Nell’aprile del 1963 King Jr, incarcerato per aver violato l’ordinanza che vietava manifestazioni di protesta a Birmingham, la più grande città industriale del Sud e simbolo di lotte durissime, disse al proprio Paese che il tempo dell’attesa era finito. Come accaduto a Birmingham, il primo febbraio 1965 King Jr, appena insignito del Nobel e dopo l’approvazione nel 1964 della legge sui diritti civili, finì in carcere insieme ad altre duecento persone a Selma, nell’Alabama, dove la protesta verteva sul diritto di voto sostanzialmente negato.
In un altro passaggio della Lettera dal carcere di Birmingham si leggono parole che non sfigurerebbero nell’autobiografia di Malcolm X e che sono valide ancora oggi, in un tempo in cui restano vive tutte le istanze e lotte a cui dedicò l’esistenza, da quella contro la diseguaglianza economica a quella per i diritti degli afroamericani: Devo confessare che in questi ultimi anni sono stato gravemente deluso dai bianchi moderati. Ho quasi raggiunto l’amara conclusione che il principale ostacolo per il nero, nella sua marcia verso la libertà, non è l’uomo del Consiglio dei Cittadini Bianchi, né quello del Ku-Klux-Klan, ma il bianco moderato, che è più devoto all’ordine che alla giustizia; che preferisce una pace negativa a quella positiva, che è la presenza di giustizia.