N ella primavera del 2016 lo scrittore Ta-Nehisi Coates viene invitato alla Casa Bianca per pranzare con Barack Obama. Durante il pasto, racconta Coates nel suo Otto anni al potere (Giunti), si parla anche delle elezioni imminenti. Coates fa presente che secondo lui la candidatura di Trump è una reazione esplicita al fatto di avere un presidente nero, Obama è solo parzialmente d’accordo. Parlando delle sue possibilità di vittoria, però, è lapidario: “Non può vincere”.
Non era il solo a pensarlo. Lo shock per la vittoria di Trump è stato tale da creare praticamente dal nulla una intera fetta di mercato dell’industria culturale, che ha provato a rispondere a una nuova esigenza: cercare di capire come un personaggio come Trump sia riuscito a diventare il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America.
La parabola di Trump fa venire in mente i grandi incidenti in autostrada: drammatici, ma, per alcuni, irresistibili. La sua storia, e la storia della sua amministrazione in questi due anni, è talmente incredibile che Robin Wright, la Claire Underwood di House of Cards, ha ammesso che in fase di scrittura gli sceneggiatori della serie dovevano “seguire anche quello che succedeva a Washington, ma con il presidente che abbiamo anche le cose più assurde che pensavamo lui le faceva, come se ci copiasse”.
Come ha spiegato Daniele Raineri sul Foglio quelli degli ultimi due anni “sono i frutti della polarizzazione estrema della politica americana negli ultimi tempi: se sei per Trump sei un tifoso sfegatato, se sei contro Trump sei ugualmente un tifoso sfegatato, in entrambi i casi le notizie e la copertura dei media non ti bastano, ne vuoi sempre di più. C’è il senso di una battaglia esistenziale: se vincono gli altri allora cesseremo di esistere noi – e questo aiuta molto il marketing”.
L’analisi di Raineri continua mostrando l’esistenza di due categorie di media: “da una parte c’è chi sfrutta la situazione perché il commento politico non costa quasi nulla, basta invitare gli ospiti in studio a dibattere e si fanno grandi ascolti, è tutto profitto. Dall’altra c’è chi come il New York Times ha fatto investimenti enormi per fare inchieste che possono durare anni – anche se a volte sono deludenti come ritorno di pubblico, per esempio l’ultima sulle tasse di Trump contiene informazioni esplosive ma non è stata digerita dal grande pubblico, se ne sono occupati soltanto gli addetti ai lavori”. Il Washington Post sta assumendo sette giornalisti per preparare la squadra che seguirà le presidenziali 2020 e sarà la più grande di sempre. La rivista Atlantic, il Los Angeles Times e altri stanno assumendo. Il sito Politico ha già sei corrispondenti dalla Casa Bianca e vuole cercarne altri. “Entrambe le categorie dei media – conclude Raineri – sia chi sfrutta la situazione al risparmio sia chi fa giganteschi investimenti strutturali sono intenzionate a portare questo interesse molto oltre l’era di Trump. La loro scommessa è che la febbre della politica sia slegata dall’attuale presidente e non scemerà con la sua uscita di scena”.
Questo hype nei confronti della politica da quando Trump è diventato presidente lo si percepisce soprattutto entrando in libreria: da due anni a questa parte, i libri politici sono diventati di moda. La catena di librerie americane Barnes & Noble ha verificato che le vendite complessive di libri sulla politica sono aumentate del 57% quest’anno rispetto all’anno scorso. B&N ha anche pubblicato una mappa che mostra dove le persone tendono ad acquistare libri pro o contro Donald Trump: secondo le rilevazioni, gli stati più propensi ad acquistare libri a sostegno del presidente sono il Texas, la Florida e la Carolina del Nord, mentre quelli più inclini all’acquisto di libri critici verso Trump sono New York, California e Massachusetts. Curiosamente, invece, cinque stati hanno mostrato preferenze d’acquisto opposte alle loro preferenze nel voto delle presidenziali 2016: Nevada, Colorado, Wisconsin, Pennsylvania, New Hampshire. Sono swing state, oppure i lettori che ci abitano non vanno a votare?
Forse lo scopriremo presto. Nelle ore in cui esce questo articolo, milioni di americani si stanno recando alle urne per le elezioni di midterm, che si tengono a metà del mandato presidenziale. Servono a rinnovare il Congresso degli Stati Uniti, alcune assemblee elettive e i governatori di singoli stati. Si tratterà di fatto anche del primo referendum sulla presidenza di Donald Trump.
Una bibliografia completa dei libri su Donald Trump è difficile da realizzare, anche concentrandosi solamente su quelli usciti in questi ultimi due anni. Non solo perché ormai si è raggiunto il ritmo di un’uscita a settimana, ma anche perché sono moltissimi i libri che parlano di Trump in maniera laterale – o magari non lo nominano affatto, trattando di tutt’altro – ma che sono tuttavia utili per inquadrarne il fenomeno.
Ho già accennato a Otto anni al potere di Ta-Nehisi Coates. Si tratta di una raccolta di otto saggi comparsi sull’Atlantic, uno per ogni anno della presidenza Obama, ognuno preceduto da un’introduzione dello stesso Coates. Ci sono pezzi su Michelle Obama e sulle carceri statunitensi, e l’ultimo, intitolato Il mio era un presidente nero, dove viene citata la conversazione con Obama. Il punto di vista di Coates è originale e interessante: mette al centro di tutto la questione razziale. Coates definisce Trump “il primo presidente bianco”, indicando in lui una risposta agli otto anni di Obama e denunciando così una presidenza che per la prima volta nella storia cavalca consapevolmente il razzismo.
Su questo argomento un altro bel libro è Negroland di Margo Jefferson (66th and 2nd). Negroland è il nome che l’autrice ha “assegnato a una piccola regione dell’America Negra i cui abitanti erano protetti da un certo grado di benessere e privilegi”. Da bambina, a una sua esplicita domanda, la madre le rispose: “Ci consideriamo Negri della classe elevata e al contempo americani dell’alta borghesia. Ma per la gran parte della gente noi siamo negri come tutti gli altri”. Erano la “terza razza”. A un certo punto del memoir Jefferson si chiede “perché mai i neri, per godere dei loro diritti, dovrebbero comportarsi bene? I bianchi non si comportano bene e hanno tutti i diritti che vogliono. L’errore di noi Negri privilegiati è stato questo. Credere in massa che per essere considerati bravi è meglio essere doppiamente bravi. Perché ogni cosa che facciamo deve influire positivamente su tutta la razza”.
Può essere collegato ai temi di scontro sociale dell’America di Trump anche il lavoro di Matthew Desmond, Sfrattati (La nave di Teseo), che gli è valso il premio Pulitzer 2017. Si tratta, secondo la New York Times Book Review, di “un libro che ha ridefinito le regole del reportage”. Desmond, che è professore di Sociologia all’Università di Princeton, ha raccontato il fenomeno degli sfratti, fino a poco tempo fa molto raro anche in contesti estremamente poveri, e che oggi è invece all’ordine del giorno: la maggior parte delle famiglie spende più della metà del proprio reddito in affitti, così che la casa – bene indispensabile per la realizzazione e la prosperità di una comunità solida e serena – è passata a essere un privilegio esclusivo delle classi più ricche e fonte di conflitto sociale, psicologico, economico. Per scrivere il reportage, Desmond ha condotto delle ricerche approfondite, lavorando sul campo a tempo pieno. Il libro è ambientato a Milwaukee, dove Desmond si è trasferito per più di un anno, in uno dei quartieri più poveri. La città più grande del Wisconsin non è stata scelta a caso: è un’area metropolitana di medie dimensioni abbastanza tipica, con un profilo sociologico e un mercato immobiliare abbastanza tipici e garanzie per gli affittuari abbastanza tipiche. Una situazione simile a quella di chi vive a Indianapolis, Minneapolis, Baltimora, St. Louis, Cincinnati, Gary, Raleigh, Utica e altre città escluse dal dibattito americano, che non costituiscono né i maggiori successi dell’America (San Francisco, New York) né i suoi peggiori fallimenti (come Detroit o Newark). È un’ottima lettura per approcciarsi alla cosiddetta “pancia” dell’America, il lato meno noto del paese, ben diverso dal mondo delle due coste, e che bisogna conoscere per provare a capire il fenomeno Trump.
Segue la stessa falsariga di Sfrattati anche Elegia americana di J.D. Vance (Garzanti), il cui titolo originale è Hillbilly Elegy: la parola “hillbilly” è un’espressione tipicamente americana che viene usata per indicare le persone che abitano le zone rurali e di montagna – in particolare Kentucky, i monti Appalachi, la West Virginia e l’Ohio. Interessante per spiegare il “contesto” è anche Un altro giorno di morte in America (ADD editore) di Gary Younge, dove l’autore sceglie letteralmente un giorno a caso dal calendario e racconta le vite delle persone uccise da un’arma da fuoco nel corso di quelle 24 ore.
Racconta invece il passato del presidente Donald Trump di David Cay Johnston (Einaudi), dove si possono leggere (il libro è uscito quasi due anni fa) le carte che confermerebbero le frodi fiscali della Trump Organization, recentemente oggetto di un’inchiesta del Times. I libri che invece si concentrano esclusivamente sulla Casa Bianca di Trump sono ormai un genere editoriale a sé, un genere che tende a invecchiare molto velocemente vista la velocità con cui polemiche che caratterizzerebbero da soli un’intera presidenza passano velocemente in secondo piano, superati dalle news del giorno dopo.
Fire and Fury di Michael Wolff, uscito all’inizio di quest’anno, è stato un caso editoriale in tutto il mondo (in Italia è Fuoco e furia, per i tipi di Garzanti). Il libro, non esente da alcuni errori successivamente evidenziati, è incentrato sul ruolo giocato da Steve Bannon nell’elezione di Trump (“in the end Bannon and Breitbart elected him”). Come noto, Steve Bannon è stato, nell’ordine: direttore esecutivo di Breitbart News, un sito di opinioni, commenti e notizie di estrema destra, che lo stesso Bannon definì la piattaforma internet del movimento alt-right (gruppo estremista che promuove ideologie alternative al conservatorismo tradizionale); vicepresidente del consiglio di amministrazione della società di analisi di dati Cambridge Analytica, la stessa società che ha lavorato alla campagna elettorale di Donald Trump utilizzando dati di utenti Facebook ottenuti illegalmente, finanziata principalmente dalla Mercer Family Foundation, comproprietaria di Breitbart; coordinatore della campagna elettorale di Trump, per poi essere nominato, dopo l’insediamento della nuova amministrazione alla Casa Bianca, capo stratega e consigliere anziano del presidente, oltre a diventare membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Tra aprile e agosto 2017 Bannon viene rimosso da tutti i suoi incarichi alla Casa Bianca, e alcuni osservatori identificano il mandante in Ivanka Trump, figlia del presidente e capofila col marito Jared Kushner di una corrente più moderata. Dopo essere tornato alla guida di Breitbart, Bannon è stato costretto a dimettersi anche da lì, in seguito alle rivelazioni contenute proprio in Fire and Fury, scaricato dalla ex-socia miliardaria Rebekah Mercer, che non approvava le opinioni di Bannon sulla famiglia Trump e sul Russiagate emerse nel libro. Ora Bannon gira il mondo e in particolare l’Europa per sostenere e fomentare vari movimenti di destra (tra cui la Lega di Salvini).
Il 2 ottobre, a quasi un mese esatto dalle elezioni di midterm, è uscito Full Disclosure di Stormy Daniels, la pornostar in questi mesi impegnata in due cause contro il presidente. Gran parte dell’hype pre-pubblicazione si è concentrato sulla descrizione provocatoria dei genitali di Trump da parte della Daniels, ma Jill Filipovic sul Washington Post scrive che il libro di memorie di Daniels “obbliga tutti noi a dare un’occhiata ai giudizi che diamo a certi tipi di donna, siano esse Stormy Daniels o Hillary Clinton, siano troppo sexy o troppo competitive o troppo ambiziose”.
The Apprentice (sottotitolo: “Trump, Russia and the subversion of american democracy”), del due volte premio Pulitzer Greg Miller, è il resoconto dell’hacking russo a danno dei Democratici durante le elezioni. Secondo Kai Bird del Washington Post “questa è l’unica cosa che Trump non potrà mai ammettere: che la sua vittoria non avrebbe mai potuto verificarsi in maniera limpida e chiara”.
Sono passati 675 giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca: non tantissimi, ma sufficienti a produrre una vasta letteratura.
Di The Fifth Risk di Michael Lewis, invece, il Guardian ha pubblicato un estratto in cui viene sottolineata l’impreparazione di Trump e colleghi a guidare la nazione. Lewis ci porta nelle sale macchine di un governo sotto attacco da parte dei suoi stessi leader. In agricoltura viene ridotto il finanziamento di programmi vitali (come buoni pasto e pranzi scolastici). Il dipartimento del commercio potrebbe non disporre di personale sufficiente per condurre correttamente il censimento del 2020. All’energia, dove viene gestito il rischio nucleare internazionale, non è chiaro se ci saranno abbastanza ispettori per rintracciare e localizzare l’uranio del mercato nero prima che lo facciano i terroristi.
Testimonianza simile, ma proveniente dall’interno, è quella di Omarosa Manigault Newman, ex assistente del presidente e direttrice delle comunicazioni per l’ufficio di collegamento pubblico nella Casa Bianca di Trump, che ha da poco pubblicato il suo Unhinged. Poche persone hanno fatto parte della cerchia più ristretta di Trump più a lungo di Omarosa. La loro relazione è durata quindici anni, a cominciare dalla prima stagione del programma televisivo The Apprentice, durante la quale Omarosa venne definita dalla rivista Jet “la donna che l’America ama odiare”, ed è continuata durante la campagna presidenziale e un anno alla Casa Bianca.
Nella sezione “nostalgia” potrebbe essere riposto invece Grazie, Obama di David Litt (HarperCollins Italia), che a ventiquattro anni scriveva i discorsi per Obama e che oggi racconta in maniera divertita gli anni passati alla Casa Bianca, lasciando uno spazio alla fine del libro per una riflessione sull’eredità e il futuro del movimento di Obama nell’epoca di Donald Trump. Nella stessa sezione si potrebbero inserire What Happened di Hillary Clinton, un’analisi su come sia stato possibile “non vincere” contro Trump, ma anche Becoming di Michelle Obama, l’attesissima autobiografia della ex first lady che sarà in vendita in tutto il mondo dal 13 novembre. Aggiungerei a questa categoria anche Papà, fammi una promessa di Joe Biden (NR edizioni). Come spiega Francesco Costa, che l’ha tradotto in italiano: “Biden racconta dell’anno in cui ha organizzato e poi smantellato la sua candidatura alle primarie del Partito Democratico, occupandosi nel frattempo – in qualità di vicepresidente – di quello che succedeva in posti come l’Ucraina, l’Iraq e l’America Centrale. Si parla del suo rapporto con Barack Obama, con Hillary Clinton e anche con Vladimir Putin. Ci sono molte storie di colloqui riservati e di dietro-le-quinte. Ma c’è una vicenda personale che si intreccia alle vicende politiche: la malattia e poi la morte del suo figlio maggiore, Beau”.
Alla pila dei libri che raccontano il dietro le quinte della Casa Bianca di Trump, si è da poco aggiunto quello di Bob Woodward, mostro sacro del giornalismo americano. Il suo Fear: Trump in the White House sta andando a ruba: nella seconda settimana in cui era disponibile ha superato le vendite della prima, un notevole exploit visto che i dati della settimana di apertura includevano i pre-ordini, accumulati durante la massiccia copertura mediatica nel periodo di lancio. Nelle prime due settimane sono state vendute settecentomila copie “fisiche”, ebook esclusi. Nelle librerie Barnes & Noble il giorno della sua uscita Fear ha venduto più di una copia al secondo. In Fear non c’è nessuna nuova rivelazione clamorosa: nel prologo viene raccontata la scena dei top advisor che distraggono il presidente per sottrargli dalla scrivania i decreti più catastrofici che Trump si appresta a firmare. Woodward ha utilizzato il metodo per cui è diventato famoso: ha registrato ore e ore di colloqui con gli uomini di Trump, e nel libro si può permettere di virgolettare colloqui riservati (anche i più surreali: “That’s what I am – Trump said – a popularist”. “No, no – Bannon said – it’s populist”) attribuendo le soffiate a una fonte spesso anonima.
Forse non è il metodo giornalisticamente più limpido, ma come dice Christian Rocca sull’ultimo numero di Studio, “Woodward è Woodward: il suo metodo investigativo è sopravvissuto a Nixon, a Ford, a Carter, a Bush senior, a Clinton, al secondo Bush, a Obama, e si basa su un controllo maniacale dell’accuratezza delle notizie fino a farle piangere di noia”. Il New York Times definisce lo stile di Fear legnoso, ma il succo è talmente aderente alla realtà raccontata quotidianamente che la Casa Bianca si è guardata bene dallo smentire i singoli fatti descritti nel libro. Quasi in contemporanea alll’uscita di Fear un editoriale anonimo scritto sul New York Times da un senior official della Casa Bianca, subito etichettato come alto tradimento da Trump, ha svelato l’esistenza di un “fronte di resistenza patriottica” interno all’Amministrazione, composto da alcuni alti dirigenti politici impegnati a evitare che l’instabilità del presidente provochi danni irreparabili agli Stati Uniti e al mondo libero.
Non è facile capire come andrà a finire. Nel momento in cui gli americani vengono chiamati ad esprimere le loro preferenze sono passati 675 giorni dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca. Non tantissimi, ma già sufficienti a produrre una vasta letteratura che può essere utile per arrivare preparati alla prossima puntata di questa presidenza. L’esito di queste elezioni di midterm potrebbe essere l’ennesimo “plot twist” di questa saga. Mentre aspettiamo il nuovo episodio, possiamo essere certi almeno di una cosa: riusciremo a leggere la storia del prossimo colpo di scena in un libro dedicato.