E ra il 1954 quando Tutte le mamme vinceva il Festival di Sanremo. La canzone, che parla della maternità in termini di “rinunce ed amor”, paragona la figura della madre a quella della Madonna rendendola un’entità quasi astratta, rappresentante dell’amore incondizionato e del sacrificio: “È tanto bello quel volto di donna / Che veglia un bimbo e riposo non ha / Sembra l’immagine d’una Madonna / Sembra l’immagine della bontà”. Il brano, che a distanza di quasi settant’anni risuona ancora nelle orecchie, fa del parto un momento di trasformazione da donna-persona a donna-madre, l’allegoria di una sacralità umana: “Donne! Donne! Donne! / Che l’amore trasformerà / Mamme! Mamme! Mamme! / Questo è il dono che Dio mi fa”.
Solo una canzone, certo, ma sintomatica di un discorso culturale che negli anni Cinquanta investe le donne-madri da un’aura di perfezione e di eccezionalità. Un discorso culturale che nel corso degli anni, in continuità con questa idealizzazione, ha spostato il focus sulla figura dei figli, anche e soprattutto di quelli non ancora nati.
Se per il brano musicale citato sopra “son tutte belle le mamme del mondo”, per Lina Meruane, autrice del pamphlet Contro i figli (La Nuova Frontiera, 2019), è possibile stilare una classificazione delle madri il cui ruolo, seppur non più ristretto tra le mura di casa, permette la reiterazione dei meccanismi della società conservatrice e patriarcale. Accanto alla cosiddetta “madre-abbastanza buona” – colei che non fa della maternità una professione, che cerca un equilibrio tra la cura del figlio, le sue passioni e il suo lavoro, che “offre un’opzione meno opprimente della maternità, piacevole ma non per questo meno dura” –, Meruane cita altri due modelli: la “madre-totale” e la “super-madre-instancabile”, dove la prima fa dell’essere madre la sua vita, mentre la seconda fa della maternità una nuova sfida per incentivare la sua produttività.
La madre-totale, argomenta Meruane, con il suo desiderio di riportare la maternità a un’esperienza naturale, ha deciso di rinunciare ai vantaggi e alle comodità conquistate dalle donne. “Stregate da un angelo della maternità che ai giorni nostri si presenta vestito di verde”, le “madri-di-professione” cercano di rispettare i dettami del naturalismo rischiando di rimanere incastrate nella trappola dell’impeccabilità. I giochi che devono essere di legno, il parto che avviene preferibilmente in casa, il rifiuto del biberon a favore di un allattamento prolungato, l’utilizzo di pannolini lavabili, l’ingestione della placenta, o il consumo di cibo biologico, elevati a status symbol, non solo rischiano di rendere la maternità una questione che ha sempre più a che fare con il reddito e la classe sociale, ma nascondono anche un’essenza totalitaria dietro all’apparenza libertaria di questo naturalismo. Un ulteriore pericolo di tale retorica ambientalista è quello di fare della maternità un’esperienza esclusivamente femminile: secondo Meruane “queste madri apparentemente progressiste hanno fatto il giro completo per tornare alla retrograda equazione donna = natura che esonera completamente gli uomini”.
Dall’altro lato dello spettro non sembra andare meglio: il livello massimo di perfezionismo è raggiunto dalla “super-madre instancabile” che è anche “sposa-amante” e “donna-di-successo”. Per questa “madre-macchina dalla vita cronometrata che esce di casa al mattino presto in auto, preferibilmente un’utilitaria multifunzionale come lei”, l’essere madre non è una condizione che determina svantaggio nel suo lavoro e nel suo tempo libero, quanto piuttosto uno stimolo per mettere alla prova la sua professionalità, il suo rendimento e la sua capacità organizzativa.
L’esaltazione ideologica della maternità ha portato con sé l’aumento dei requisiti della buona madre, e soprattutto la tendenza a considerare il feto una persona.
Se da una parte c’è chi fa dell’impegno di avere figli una fonte di adrenalina che spinge ancora di più a produrre, dall’altra c’è chi ha realizzato l’impossibilità di conciliare professione e figli. Tra queste ultime Meruane ricorda le donne scrittrici che sono riuscite a emergere solo perché hanno rinunciato ai figli, perché hanno abortito o perché, diventate madri, hanno deciso di abbandonare la prole. È questo, per esempio, il caso di Doris Lessing che, quando decide di trasferirsi a Londra per dedicarsi alla scrittura, porta con sé solo l’ultimo dei tre figli. Quello che potrebbe essere visto come uno svincolarsi dalle responsabilità materne non ha impedito Lessing di riflettere sulla questione della maternità portando alla luce uno dei tabù più resistenti sulla famiglia: il rifiuto del figlio da parte dei genitori e l’odio che un figlio può provare nei confronti dei genitori, delle sorelle e dei fratelli.
Nel suo romanzo Il quinto figlio, infatti, Lessing mette in scena la crisi di una madre e di un padre dopo la nascita di Ben, ultimogenito che, con il suo essere imperfetto dal punto di vista fisico e caratteriale, rompe l’equilibrio familiare costringendo la madre a riflettere sull’incondizionalità dell’amore genitoriale. Lessing gioca con l’iperbole per palesare come la famiglia sia un sistema che viene messo in crisi dall’avvento di un elemento capace di interrompere lo status quo. Ben è brutto, malvagio, violento, impossibile da amare: Ben è colui che disgrega il nucleo, che smaschera l’ideale della famiglia perfetta, che evidenzia come il ruolo di madre sia strettamente legato al sacrificio. Nel suo romanzo Lessing racconta le responsabilità e le scelte che Harriet, la madre, decide di assumersi nel tentativo di proteggere la sua famiglia e sé stessa dalla violenza di Ben e dai sensi di colpa, una storia questa che vede la questione personale consumarsi esclusivamente all’interno dell’ambito domestico. Le rinunce che Harriet decide di compiere per tutelare Ben sono sempre riconducibili al lavoro di cura, all’altruismo materno, alla disponibilità femminile e non mettono mai in dubbio la sacralità della famiglia tradizionale anche quando quest’ultima mostra tutte le sue debolezze.
Il sacrificio materno non è però solo una questione privata dal sapore conservatore, talvolta diventa un atto politico: tale passaggio di piano dal domestico al politico scardina la rappresentazione della fatale dolcezza materna e fa la donna promotrice di gesti radicali e violenti rivendicati come azioni di resistenza. Come opposizione attiva alle forme più brutali di deumanizzazione implicite nella loro condizione, le afroamericane ridotte in schiavitù sono ricorse anche all’infanticidio – oltre che all’astensione dai rapporti sessuali e all’aborto. Spiega Angela Davis in Donne, razza e classe che “Queste donne […] erano indotte a difendere i loro figli da un ardente odio verso la schiavitù. L’origine della loro forza non risiedeva in qualche potere mistico collegato alla maternità, ma piuttosto nella loro concreta esperienza di schiave. Alcune, come Margaret Garner, arrivarono al punto di uccidere i propri figli piuttosto che vederli diventare adulti nella brutalità della schiavitù”. L’episodio citato da Davis si svolge nel 1856 quando Margaret Garner, nata schiava in Kentucky e fuggita con marito e figli verso nord, viene catturata a Cincinnati. Una volta realizzato il destino che tale cattura avrebbe riservato a sé e ai suoi figli, Garner taglia la gola alla figlia minore che muore e prova a uccidere gli altri bambini e sé stessa prima di essere raggiunta dagli agenti. Questa vicenda che è diventata uno degli episodi più noti di opposizione femminile violenta alla schiavitù – la stessa Toni Morrison si ispira alla storia di Garner per scrivere Beloved – mostra in modo chiaro come il corpo sia un campo politico: per le schiave afroamericane la scelta di togliere la vita altrui e propria fa del corpo spersonalizzato uno strumento di resistenza in quanto proprietà da distruggere.
Ma è sempre più difficile parlare di autodeterminazione e di corpo in relazione alla maternità: mentre nel mondo occidentale le condizioni delle donne e delle madri hanno mostrato un graduale miglioramento, si è assistito a un’esaltazione ideologica della maternità che ha portato con sé l’aumento dei requisiti della buona madre, e soprattutto la tendenza a considerare il feto una persona. Alessandra Piontelli in Il culto del feto (Raffaello Cortina Editore, 2020) spiega come se fino a non molti anni fa le donne venivano incoraggiate a bere birra sia prima sia dopo la nascita per favorire l’allattamento e spinte a bere alcol e a fumare per rilassarsi, oggi vengono messe in guardia anche dai presunti pericoli delle tinte per i capelli. Piccole quantità di vino e di birra non sono risultate essere dannose, eppure se una donna incinta viene vista bere o fumare una sigaretta la tendenza generale è quella di percepirla come una “cattiva madre”. La facilità con cui ci si permette di giudicare e condannare le donne incinte è determinata da una serie innumerevole di restrizioni che non toccano mai gli uomini, sebbene alcol, fumo e agenti inquinanti possano influire sulla qualità del loro sperma e di conseguenza sulla salute del feto. Questi come molti altri comportamenti o situazioni possono essere pericolosi per i bambini già nati e per gli adulti, ma attualmente solo i feti sembrano godere della protezione della comunità. Come Piontelli osserva, “ai feti sono stati concessi dei super diritti di molto superiori a quelli di chiunque altro”.
Il feto diventato parte integrante della società e come tale considerato potenziale consumatore.
L’estensione delle attenzioni e dei diritti dalla madre al feto fa sì che i feti siano diventati parte integrante della società e come tali considerati potenziali consumatori e potenti attrattori di consumo. A partire dagli anni Novanta, le immagini fetali iniziano a essere sfruttate nelle pubblicità dove i feti sono rappresentati come ricostruzioni di adulti in miniatura e cominciano a essere in vendita anche gadget fetali come le T-shirt con un feto stampato sul davanti. Come spesso accade, le campagne pubblicitarie cambiano nel tempo e oggigiorno i feti “di consumo” non sono più di moda, ma ai genitori e in particolare alle madri sono stati offerti altri modi per mostrare il loro status prenatale. Nel 2012 il “A’ Design Award and Competition” – uno dei più importanti premi internazionali di design – è stato vinto da Melody Yi-Yun Shiue che ha progettato la cintura portatile “PreVue” che, se mai sarà prodotta, darà la possibilità di guardare e monitorare il feto con ultrasuoni 4D in qualsiasi momento. Laddove alcuni dispositivi sono ancora in forma di progetto, altri sono già disponibili: la startup israeliana Nuvo Group ha sviluppato un dispositivo PregSense, cioè una tecnologia di monitoraggio che la donna può indossare così da ricevere tutti i parametri vitali del feto senza dover rivolgersi a una professionista, mentre il monitor doppler fetale AngelSounds, che registra il battito del feto si trova a prezzo contenuto anche su Amazon. I principali obiettivi dichiarati di questi dispositivi sono la facilitazione della connessione tra le madri e i “bambini” e la conoscenza del feto dai primi stadi del suo sviluppo. Tuttavia, spiega Piontelli, questo tipo di device non solo creano un bisogno consumistico che prima non esisteva, ma possono generare ansia a causa del flusso costante di informazioni non sempre di facile interpretazione e creare nei genitori un senso illusorio di controllo sullo sviluppo fetale.
Quello che a tutti gli effetti è un business sulla maternità ha un altro effetto curioso: la nascita di un “feticcio del pancione”, osserva Piontelli mentre riferisce di una tendenza che si è fatta strada a Hollywood: per timore di essere penalizzate sul lavoro, attrici, modelle e donne importanti ricorrono alla maternità surrogata ma si mostrano comunque in pubblico esibendo una pancia ben modellata e seni più formosi. Varie aziende hanno dunque cominciato a produrre finte pance e seni estremamente realistici e costosi rivolti a coloro che non vogliono rendere pubblica la decisione della cosiddetta “surrogata sociale”. Oggi queste nuove protesi sembrano vere anche al tatto e cambiano dimensione a seconda del mese di gravidanza, ma in passato versioni meno perfette erano utilizzate da transgender o da donne che avevano subito la mastectomia. L’uso delle finte pance per simulare la gravidanza riporta alla memoria le riflessioni di Audre Lorde contenute in I diari del cancro sulla scelta di non utilizzare le protesi mammarie post mastectomia. Pur non essendoci nulla di male in sé nell’uso delle protesi, è necessario notare l’assenza di una funzione reale delle pance finte, dato che non sostituiscono la performance di una parte fisica mancante. Esattamente come riferiva Lorde “i seni [e le pance] falsi servono unicamente all’apparenza, come se l’unica vera funzione dei seni [e delle pance] fosse quella di mostrarsi in una forma e dimensione e simmetria a chi li guarda, o di essere cedevoli rispetto a una pressione esterna”. Sempre Lorde sostiene che “noi donne siamo state programmate a vedere il nostro corpo solo in relazione a come appare e viene percepito dagli altri, non a come lo percepiamo noi, e a come desideriamo usarlo. Siamo circondate da immagini mediatiche di donne come macchine essenzialmente decorative per uso consumistico, perennemente in guerra contro il decadimento fisico incalzante”.
Sebbene le pance finte siano il caso più estremo di spersonalizzazione intesa come cancellazione del sé al fine di soddisfare l’immaginario della donna che sta per diventare madre, la pressione a convertire la propria immagine – intesa dal punto di vista estetico ma anche di stile di vita – in quello che i media si aspettano e che può soddisfare le richieste maschili sembra coinvolgere la questione maternità tout court. Senza soffermarsi sulle implicazioni etiche e morali di tale scelta che sono oggetto di dibattito, è un fatto che sia oggi possibile pagare un’altra donna per portare avanti la gravidanza e partorire al nostro posto, eppure l’aspetto “giusto” o “normale” della “donna quasi madre” vuole una determinata forma e taglia. Il modello della mamma-madonna pare essere superato, ma, al contempo, per la donna – che decida di essere una “super-madre instancabile”, una “madre-totale”, una “madre-abbastanza buona” – è conveniente rispettare regole che si estendono dalle scelte alimentari, alla figura fisica, al tipo di vincolo che la lega alla prole che ci si aspetta essere sempre l’amore incondizionato. Audre Lorde dice che “la finzione non ha mai generato né cambiamenti durevoli né progresso”. Lorde si riferisce alla finzione delle protesi mammarie, ma si può ampliare il pensiero al tema maternità se, come minimo comune denominatore, si pensa al corpo come campo politico dove un sistema di norme e convenzioni continua ad agire.