P er esplorare la vita, il lungo percorso letterario e filosofico e la vasta influenza del pensiero di Luisa Muraro, si potrebbe partire dal suo ruolo fondativo nel femminismo italiano dagli anni Sessanta, attraverso i gruppi di autocoscienza femminile e ciò che lei definisce il “pensiero della differenza sessuale”.
Si potrebbe ripercorrere la sperimentazione pedagogica di pratiche “antiautoritarie” nella scuola dell’obbligo degli anni settanta (da lei condotta assieme allo psichiatra Elvio Fachinelli), o la comunità filosofica femminile Diotima, da lei co-fondata (assieme a Chiara Zamboni e Adriana Cavarero, fra le altre) all’Università di Verona negli anni ottanta.
Ci si potrebbe immergere nella sua ricerca poliedrica – al contempo storica, filosofica e politica – sulla scrittura mistica femminile, che rende omaggio a figure come Margherita Porete, Hadewijch d’Anversa, Guglielma di Milano e Maifreda da Pirovano, fino ad arrivare a Simone Weil ma anche al “mago e scienziato” tardo-rinascimentale Giambattista Della Porta.
Io, invece, ho scoperto Luisa Muraro quando mi sono imbattuto ne La signora del gioco (uscito per Feltrinelli nel 1976 e ristampato da La Tartaruga nel 2006), uno dei suoi primi libri, dedicato ai processi per stregoneria fra l’Italia settentrionale e la Svizzera. Ho incontrato quel libro mentre, con Carolina Valencia Caicedo, ci stavamo chiedendo come iniziare un documentario radiofonico sulle figure femminili nella storia delle pratiche magiche in Italia.
Qualche giorno dopo, io e Carolina andiamo a cercare Luisa Muraro alla Libreria delle Donne di Milano, un’istituzione cruciale per il femminismo non solo italiano, da lei co-fondata nel 1975 (assieme, fra le altre, a Lia Cigarini, Renata Dionigi e Giordana Masotto). Le parlo subito del mio incontro entusiasta con La signora del gioco, uscito poco dopo l’apertura della Libreria. Mi ferma: ciò che più le interessava della caccia alle streghe, mi dice, non era di certo la magia. Però ci dà un appuntamento a casa sua, per parlarne.
In Europa, tra il XIV e il XVII secolo migliaia di donne furono processate per stregoneria da tribunali ecclesiastici e laici. Nel tuo libro definisci la caccia alle streghe come “una lezione difficile, che domanda di essere ancora ascoltata”. Puoi ricostruire il tuo primo incontro con questo “tema che non si lascia archiviare”?
Quando il libro è uscito, credevi che la stregomania potesse parlare al movimento femminista degli anni Settanta?
Potresti parlare del tuo rapporto con le fonti? Nel libro i verbali dei processi vengono presentati da soli, spesso senza mediazioni da parte tua. Il lettore è chiamato ad avere un ruolo attivo, a prendere posizione nei confronti di questi documenti.
In seguito chiesi alla Biblioteca Ambrosiana di Milano se avevano carte sulla caccia alle streghe. Mi risposero gentilmente: “Sì, ce ne sono, ma non sono ordinate. Però se vuole gliele portiamo”. Dopo un po’ è arrivato un commesso con una carriola piena di carte alla rinfusa. È stata una visione strana in quella sala di studio e inattesa, che, invece di farmi ridere, mi ha dato una spaventosa angoscia. Mi ha ricordato uno degli episodi che avevo studiato: una donna venne portata al rogo in una carriola, perché era stata torturata durante un interrogatorio e le avevano rotto le gambe.
Tutto ciò è per dirti che la realtà indagata non mi diventava mai esteriore e distaccata, ma in qualche misura restava nel mio vissuto personale. Per certi aspetti sono come una scrittrice di romanzi, ma per me non ha senso inventare storie: la storia umana è già ricchissima di vicende, di cui la storiografia narra solo una minima parte. Ho sempre cercato di salvare la distanza storica, ma non ho mai voluto fare una ricostruzione oggettiva: voglio che ognuno stabilisca un proprio rapporto con i documenti, senza che io fornisca una posizione che inquadri la faccenda a priori. Mi interessa che il lettore stesso – o, piuttosto, la lettrice, visto che mi sono sempre rivolta alle donne – possa a sua volta partecipare, restituendo vita e senso alle donne che sono state martirizzate.
Prima citavi tua madre: nel libro scrivi che era una “buona cattolica” che coltivava una “più antica religione delle fate”. Come convivono queste due tradizioni nella tua esperienza personale?
La signora del gioco che compare nei verbali mi pare una figura onirica, espressione di una cultura che sapeva dividere il sogno dalla realtà in un modo che non è più il nostro. Il sottrarsi, anche con la fantasia, al controllo del potere è sempre stato sentito come un pericolo per i detentori dell’ordine: i suoi magistrati, i suoi guardiani, i suoi chierici. Con la sconfitta della civiltà contadina, la possibilità di slittare nel sogno, soprattutto tra le donne, diventa una risorsa di indipendenza immaginaria. Qualcuno ha parlato di uso di droghe; io non ne ho trovato traccia, ma non posso escluderlo. Il sogno viene usato per uscire dai limiti della realtà data, quando essa non può modificarsi attraverso la politica o la lotta (detto con un linguaggio moderno). Ma non è una forma di disperazione estrema che spinge a perdersi nell’irrealtà. C’era lì, mi pare d’intuire, una capacità di alternare notte e giorno, sogno e realtà, che considero una possibilità pratica di sottrarsi a una realtà insopportabile senza ammalarsi. Certamente nella cultura diffusa dell’età premoderna, il senso della realtà era molto differente dal nostro… (Dico “il nostro” che però a sua volta è entrato in una fase di cambiamento.)Ecco: cos’è il “gioco”, e chi è la “signora del gioco”?
La psicoanalisi comincia quando Freud e Breuer prestano ascolto ad alcune “malate di nervi” ed entrano nel loro mondo. Alcune di esse raccontano di essere state molestate dal padre. Freud alla fine non si domanderà più se ciò sia vero o no: capisce che si tratta di una dimensione in cui la distinzione fra vero e falso resta sullo sfondo, perché c’è da ascoltare quello che la donna vuole dire del suo mondo interiore, che non ha corso nella vita ordinaria. Questa modalità discorsiva tra il sogno e la realtà, tra il vero e il non vero, fa parte dalla materia prima della storia umana. L’arte è oggi l’unico campo del sapere autorizzato ad entrare in questo mondo, ma in tempi passati ciò era possibile anche in altri modi, come la ricerca mistica, in cui non a caso si riscontra un’eccellenza femminile. Era una produzione fantastica libera dagli strumenti di osservazione della psicologia, della sociologia o della stessa storiografia, che, per acquisire una certa scientificità deve per forza verificare i fatti, perdendo però di vista questa inafferrabile materia prima.A proposito di quelli che definisci “documenti della teologia favolosa”, affermi che alla poesia e alle fiabe può essere riconosciuta una verità alternativa, che “scioglie le parole dai riferimenti fissi”, liberandosi dei confini fra sogno e realtà, fra “dentro” e “fuori”. Come definisci questa forma di verità?
Che ruolo ha questa “verità soggettiva” nel femminismo?
Quindi la caccia delle streghe può essere vista come un conflitto fra un potere che mira a produrre una verità giudiziaria e alcune pratiche antichissime che, invece, sfuggivano alla logica di questo “regime di verità”.
Il processo di eliminazione delle possibilità, per le donne, di sottrarsi al controllo dell’uomo culmina con la borghesia del diciannovesimo secolo. La donna sposata di classe borghese viene isolata nella casa maritale, come in Casa di bambola di Ibsen, in cui la protagonista è trasformata in una bambola all’oscuro di tutto, sposata a un uomo che invece frequenta il mondo, fa i soldi, mantiene lei e i figli, etc. Infatti tu parli della “esclusione, dal campo del sapere, di soggetti non autorizzati, che di preferenza risultano essere donne”. Un esempio sono le medichesse, che intendevano la medicina come un’attività prettamente femminile, un campo del sapere in cui le donne potevano eccellere.
Montaigne è il filosofo che più capisce la follia della caccia alle streghe allora in corso, a cui dedica uno dei suoi ultimi saggi, intitolato “Degli zoppi”. Racconta di aver avuto uno scontro verbale durissimo con qualcuno che poteva essere lo stesso Jean Bodin, filosofo e giurista francese alle origini della modernità, il quale scrisse un manuale sulla caccia alle streghe e fece lui stesso il magistrato in diversi processi di stregoneria. Montaigne era furioso con la società del suo tempo, convinta che alcune donne facessero morire i bambini, andassero in volo di notte e facessero sesso col diavolo. Tutta la mitologia creata con la persecuzione delle streghe si mescola con le antiche mitologie in un garbuglio indecifrabile e quasi illeggibile. Montaigne attribuisce la stregomania, questa sorta di follia collettiva di magistrati, intellettuali, preti e popolo, alla ricerca delle cause a tutti i costi, senza restare in contatto con le cose, vicini all’esperienza vissuta. Va notato che, in pieno Medioevo, la diffusa credenza nelle streghe non ha portato alla loro persecuzione organizzata, come invece accade nel Cinque-Seicento. Come mai? Un elemento di risposta viene dalla visione religiosa del mondo, considerato come opera fondamentalmente buona di Dio, il quale non consentiva che fosse manomessa dalle potenze del male. I molti mali che colpivano l’umanità avevano la loro causa prima nei peccati dell’uomo. Sulle soglie della modernità c’è un cambiamento profondo, assecondato e perfino promosso dall’autorità religiosa. Al posto di questa visione rassegnata ma ottimistica – in cui siamo nelle mani di Dio e accettiamo il buono e il cattivo – emerge una soggettività umana che vuole controllare la realtà cercandone le cause, per poterla poi prevedere e riprodurre. Pensiamo ad esempio a Cartesio, un grande pensatore della modernità, che promuove la scienza matematica del mondo reale. Dal Cinquecento, che ancora coltivava le arti magiche, si passa alla fisica matematica. Il passaggio avviene nel Seicento, il secolo culmine della caccia alle streghe, che arriva come un contraccolpo a quella ricerca di sapere. Il Seicento è anche un secolo percorso da malattie e guerre; è il crogiolo dell’Europa moderna, in cui convivono tutti questi elementi.Hai definito la caccia alle streghe come il congedo da un tipo di conoscenza premoderna, un “cedimento dell’antico confine fra fantasia e realtà”. Qual è il rapporto fra caccia alle streghe e modernità?
Nel tuo libro Le amiche di Dio (Orthotes, 2014), affermi che le scrittrici mistiche hanno prodotto opere importanti ma che i loro scritti non sono entrati nella tradizione, e quindi non sono stati trasmessi. Mi chiedo se le testimonianze raccolte ne La signora del gioco si possono vedere come una forma estrema di scrittura, di resistenza femminile contro i divieti e le convenzioni della società.
“…due parti: un corpo da fecondare, ed un resto sterile e maligno, da distruggere. (La donna, e la strega).” “E fu, per i corpi, in conseguenza di quel collasso, un trovarsi esposti ad uno sguardo (e a una violenza) di nuovo tipo, come natura che non è più segno di altro e ombra di una luce invisibile, ma materia separata, strumento e mezzo per i nostri scopi, buoni e cattivi che siano.”Per concludere, vorrei chiederti di leggere tre frammenti da La signora del gioco.