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ualcuno forse ricorderà Atule’er, il villaggio sperduto tra i monti della Cina meridionale. Nel 2016 ottenne fama internazionale quando in rete circolarono le immagini della scaletta pericolante che gli studenti del villaggio erano costretti a risalire, zaino in spalla, per raggiungere l’unica scuola a oltre due ore di cammino. Appesi a una parete rocciosa come lucertole, sotto di loro il vuoto. La storia commovente di Atule’er fece velocemente il giro del mondo. Quel villaggio con le case di paglia e fango era il ritratto di una Cina remota e arcaica, lontana dagli skyline sfavillanti di Pechino e Shanghai. Era il ritratto della povertà.
Ma oggi ad Atule’er non ci sono più scalette impervie da salire, estenuanti camminate da fare. Il villaggio è diventato un’attrazione per turisti, con hotel, acqua calda e wifi. I residenti sono stati trasferiti 70 chilometri più in là in un centro nuovo con appartamenti nuovi sussidiati dallo Stato. Pronti per cominciare una nuova vita. “La vittoria contro la povertà di un villaggio di montagna dà speranza agli altri luoghi impoveriti”, titolava a maggio il Beijing Review. Da allora sono successe diverse cose.
La sconfitta della povertà e la “società moderatamente prospera”
Lo scorso novembre, il Guizhou è diventato l’ultima provincia cinese ad aver formalmente sconfitto la povertà assoluta. Il reddito pro capite dei residenti ha raggiunto gli 11.487 yuan annui, quasi il triplo rispetto alla soglia di povertà stabilita dalle autorità: 4.000 yuan, 2,20 dollari al giorno. Il presidente Xi Jinping l’ha definita una “vittoria rimarchevole”: “l’obiettivo della riduzione della povertà nella Nuova Era è stato raggiunto come da programma”. Sì perché in Cina, dove i retaggi dello statalismo maoista sopravvivono tutt’oggi, piani quinquennali, scadenze, date e ricorrenze hanno la loro importanza. Per capirci qualcosa dobbiamo riavvolgere il nastro a otto anni fa, quando appena assunta la leadership, Xi si impegnò a liberare il paese dalla povertà entro il centenario del Partito comunista cinese (23 luglio 2021) e a renderlo una potenza socialista moderna entro il centenario della Repubblica popolare (1 ottobre 2049).
In numeri, voleva dire emancipare dallo stato di indigenza circa 13 milioni di persone l’anno. In politichese, voleva dire realizzare la cosiddetta “società moderatamente prospera” (xiaokang shehui), concetto mutuato dai testi classici confuciani e rilanciato dall’ex presidente Hu Jintao per indicare uno stato di diffuso benessere. Uno slogan evocativo carico di simbolismi, ma supportato da parametri aritmetici ben precisi. Con l’obiettivo della xiaokang shehui il governo cinese si è impegnato a raddoppiare il Pil nazionale e il reddito pro capite rispetto ai valori del 2010. Una missione incoraggiata inizialmente dai tassi di crescita a due cifre, e divenuta via via più sfuggente, quasi irraggiungibile, in un contesto globale di generale rallentamento economico. Ma non per Xi.
Il significato politico della lotta alla povertà
Figlio di un eroe della rivoluzione comunista, il lider maximo cinese ha presto accantonato i panni del “principino rosso” per indossare le vesti di “uomo dell’uomo”. Forse anche per questo la lotta alla povertà è diventata fin da subito una priorità nell’agenda politica nazionale. Durante il primo mandato quinquennale, Xi ha visitato personalmente 180 regioni impoverite in 20 province differenti, inclusa la prefettura di Atule’er. Circa 775.000 funzionari sono stati spediti in perlustrazione nei villaggi più disagiati. Nel 2019 il Consiglio Stato ha istituito un team ad hoc per la “riduzione della povertà e lo sviluppo” con 22 uffici locali dislocati nelle regioni centrali e occidentali, quelle più povere e arretrate. Solo nel triennio 2016-2019 la guerra contro la povertà è costata al Partito/Stato 384,4 miliardi di yuan, quasi 59 miliardi di dollari.
Otto anni fa Xi Jinping si è impegnato a liberare il paese dalla povertà entro il centenario del Partito comunista cinese, nel 2021.
Come per la crisi epidemica, il clamoroso successo va attribuito a un mix di fattori. Il tabloid nazionalista Global Times ne elenca alcuni a partire dalla “rigorosa esecuzione degli ordini e dei divieti”; la “mobilitazione di tutti i settori della società cinese”; l’ingente “quantità di capitale e manodopera”; l’offerta di soluzioni di lungo periodo attraverso lo “sviluppo industriale”. Ultima ma non meno importante: l’esperienza accumulata in quarant’anni di riforme, perché se la vittoria contro la povertà risale alla cronaca recente, la battaglia in realtà è cominciata con le prime aperture denghiane. Da allora, secondo stime della Banca Mondiale, oltre la Grande Muraglia sono state emancipate ben 850 milioni di persone, di cui “solo” 100 milioni negli ultimi otto anni.
Va riconosciuto che gli esiti sarebbero stati probabilmente meno brillanti se la lotta contro la povertà non avesse intersecato alcune politiche rilanciate personalmente da Xi: in primis un’agguerrita campagna anticorruzione, il piano per un’urbanizzazione sostenibile e la riforma del sistema sanitario nazionale. Questa triangolazione ha permesso di curare concause come l’inaccessibilità delle cure nelle campagne e l’appropriazione indebita di fondi pubblici destinati a progetti di sviluppo.
Pechino ha ragione di festeggiare. Il tempismo non poteva essere migliore. La missione, infatti, è stata conclusa con successo in piena pandemia e con ben dieci anni di anticipo rispetto all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Sul fronte interno, la vittoria servirà a cementare la legittimità della leadership e del suo “Timoniere” agli occhi dei cittadini, annebbiando i ricordi del dramma epidemico vissuto un anno fa a Wuhan. Come sentenziato recentemente da Xi, raggiunta la “società moderatamente prospera”, la Cina entra in una “nuova fase di sviluppo” (xin fazhan jieduan) che la porterà a diventare una vera potenza. Tracciando una linea di continuità con il passato, il presidente spiega senza giri di parole come “il popolo cinese si è alzato in piedi” sotto la guida di Mao , “si è arricchito” con Deng Xiaoping ma solo grazie a lui “diventerà forte”. Un leitmotiv che risuona perentorio nelle regioni autonome del Tibet e dello Xinjiang, dove la “rivitalizzazione rurale” e la promessa di standard di vita migliori si inseriscono nel processo di sinizzazione forzata delle minoranze etniche locali.
Il messaggio per le comunità internazionale è ugualmente altisonante. La sconfitta della povertà attesta l’efficacia e la superiorità del modello cinese, anche grazie alla crisi che avviluppa contestualmente le democrazie occidentali. Pechino ha già incassato i complimenti della Banca Mondiale, dell’ex CEO di Starbucks, Howard Schultz, e persino del premier australiano Scott Morrison, nonostante le pessime relazioni con Canberra. Il prossimo passo è esportare il modello cinese nei paesi amici. Non è detto funzioni ovunque, ma c’è chi è già pronto a tentare. Lo scorso autunno l’Uzbekistan è diventato il primo paese ad avviare un progetto di riduzione della povertà finanziato dalla Cina. Immaginiamo se l’esperimento venisse replicato lungo tutta la cosiddetta nuova via della seta, dall’Africa all’Oceania…
Il rischio di un “grande balzo indietro”
Grattando la superficie, tuttavia, escono allo scoperto non poche criticità. A cominciare dal concetto stesso di povertà. Come calcolarla? Secondo i detrattori, Pechino avrebbe “barato” avvalendosi di parametri che non solo variano da regione in regione, ma sono anche più accessibili rispetto ai criteri adottati dalla Banca Mondiale per i paesi a reddito medio-basso e medio-alto. Obiezione alla quale la stampa statale cinese risponde sottolineando come le entrate famigliari non siano l’unico elemento da tenere in considerazione: la campagna anti-povertà assicura alla popolazione disagiata cibo e vestiti a sufficienza, un’istruzione obbligatoria, servizi medici di base e un tetto sotto cui vivere. Intendiamoci, nessuno contesta un generale miglioramento delle condizioni di vita. Ma come confermare i risultati in un sistema che non ammette deviazioni dalla linea ufficiale?
Se nessuno contesta un generale miglioramento delle condizioni di vita, come confermare i risultati in un sistema che non ammette deviazioni dalla linea ufficiale?
Mentre non sembrano esserci le premesse per un nuovo “grande balzo in avanti”, secondo chi ha visitato i “villaggi del miracolo”, i criteri utilizzati per valutare il livello di emancipazione dei residenti sono alquanto discutibili e variano a seconda del personale tornaconto dei funzionari locali. Se c’è chi ha tutto l’interesse a ritoccare le stime nell’ottica di una promozione, è vero anche il contrario. Come racconta il giornalista Gabriele Battaglia dalla contea di Xing, una delle dieci più povere dell’intero paese, tra la gente del posto “si è diffusa una cultura assistenzialista”: i poveri non voglio cedere il loro status per non perdere gli aiuti statali. Buona parte del successo, la campagna di Xi lo deve proprio all’erogazione di sussidi. I villaggi più arretrati hanno beneficiato di prestiti, donazioni, bestiame e attrezzature agricole. Senza contare il contributo dei colossi di Stato invitati a creare posti di lavoro, migliorare le infrastrutture locali e la fornitura di energia elettrica.
Secondo gli esperti, la forte dipendenza dagli aiuti del governo espone le aree emancipate al rischio di un “grande balzo indietro” non appena verranno sospesi gli incentivi. Esemplare è il caso delle fabbriche comunitarie (shequ gongchang), impianti di piccole dimensioni utilizzati per dare impiego alle famiglie bisognose. Il circolo virtuoso prevede lo spostamento delle comunità impoverite dalle regioni ritenute inadatte allo sviluppo verso le cittadine di nuova costruzione, dove si concentrano le shequ gongchang. Ce ne sono ormai circa 30.000 per un totale di ben 700.000 operai provenienti da famiglie in situazione disagiate. Questi stabilimenti, per lo più gestiti dal governo o da uomini d’affari in ricerca di manodopera a basso costo, si stanno rivelando una soluzione solo temporanea alla povertà: le scarse abilità tecniche della forza lavoro impiegata spesso impediscono il mantenimento di una produzione costante compromettendo la redditività delle fabbriche e la loro stessa sopravvivenza. Senza contare le difficoltà di adattamento incontrate da alcune categorie sociali. Secondo la Shaanxi Research Association for Women and Family, il sistema finisce per penalizzare le donne, ora costrette ad alternare il lavoro in fabbrica alla cura della casa.
Con la riduzione dei sussidi a partire da quest’anno anno, le amministrazioni locali sono alla ricerca di motori di sviluppo più sostenibili per evitare che le famiglie ricadano nella povertà. Molte province hanno riposto le proprie speranze nel turismo e nella vendita di prodotti di fascia alta grazie all’esplosione del social commerce a portata di smartphone. Ma anche questo potrebbe non bastare. La bassa scolarizzazione nelle campagne, per quanto in aumento, rappresenta ancora uno dei principali ostacoli alla mobilità sociale. Stando a un sondaggio dell’Università di Cambridge, nelle zone rurali il 63% degli studenti cinesi iscritti alla scuola secondaria lascia lo studio a causa dei costi troppo elevati.
Dalla “società moderatamente prospera” alla “prosperità comune”
“Contrastare la povertà è un compito di lungo termine”, ammette l’agenzia di stampa statale Xinhua, aggiungendo che nel futuro prossimo gli sforzi saranno destinati a ottimizzare “i meccanismi di monitoraggio e assistenza per impedire alle persone di ricadere nella povertà.” Tang Chengpei, viceministro per gli Affari civili, ha riferito che più di 20 milioni di cittadini hanno le qualifiche per accedere ai dibao, pagamenti assistenziali progettati per garantire standard di vita minimi; due terzi dei destinatari sono bambini, persone di mezza età o anziani, disabili o malati gravi. Secondo gli esperti, superata la soglia critica, in futuro la campagna diventerà una “guerra di lunga durata” contro la povertà relativa. A quel punto il campo di battaglia si sposterà progressivamente dalle campagne alle città, dove vivono circa 280 milioni di lavoratori migranti, veri e propri cittadini di serie B senza accesso ai servizi di base.
La fine della campagna contro la povertà ha coinciso con un nuovo incremento delle disparità sociali, perché il sistema di distribuzione privilegia le casse dello stato anziché le tasche dei cittadini.
Dati prudenti del governo dimostrano che dall’inizio della pandemia la popolazione mobile impoverita è lievitata da 27 a 29 milioni di unità. Nonostante l’invidiabile performance dell’economia cinese, secondo l’Economist, quest’anno la forbice tra crescita nazionale e incremento salariale tra i migranti ha quasi raggiunto livelli record: è il grande paradosso dietro ai numeri cangianti del Pil cinese. Come rivela il coefficiente di Gini (termometro delle diseguaglianze), la fine della campagna contro la povertà ha coinciso con un nuovo incremento delle disparità sociali dopo otto anni consecutivi di declino. Colpa di un sistema di distribuzione delle ricchezze che privilegia le casse dello stato anziché le tasche dei cittadini.
La brutale realtà è che – per stessa ammissione del premier Li Keqiang – oggi due quinti della popolazione cinese vive ancora con meno di 1000 yuan al mese. Una realtà invisibile che, secondo una ricerca della Beijing Normal University, si concentra nelle aree rurali (75,6%), nelle province centrali (36,2%) e nell’estremo occidente (34,8%). Appianare le divergenze sociali e geografiche rappresenta la vera sfida dei prossimi trent’anni.
Nella Cina di Xi Jinping – lo abbiamo detto – scadenze, date e ricorrenze hanno la loro importanza. Passare dalla “società moderatamente prospera” alla “prosperità comune” (gongtong fanrong) è un processo imprescindibile per centrare il secondo e ultimo traguardo: trasformare la seconda economia mondiale in “un paese socialista moderno che sia prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso” entro il centesimo compleanno della Repubblica popolare cinese.
Malgrado le apparenze, non si tratta di mera propaganda. Come la “società moderatamente prospera”, anche “la prosperità comune” presuppone il rispetto di criteri numerici precisi. Per ripartire più equamente le risorse nazionali occorre coltivare la nascente classe media, quel segmento sociale con un reddito pro capite mensile superiore ai 2000 yuan (310 dollari) che oggi in Cina conta circa 400 milioni di persone, ma che nei prossimi cinque anni dovrà raggiungere il 60% della popolazione complessiva. “L’espansione del ceto medio ha un ruolo fondamentale nella formazione di un mercato domestico forte”, spiegava recentemente il quotidiano ufficiale People’s Daily alludendo alla necessità di difendere l’economia cinese dalle incertezze del contesto internazionale. Il messaggio è chiaro: la sconfitta della povertà non è che il primo passo di una nuova lunga marcia.