I
n una recente intervista apparsa su questa testata, Susan Stryker, intellettuale americana da anni impegnata in battaglie intersezionali per i diritti delle soggettività non conformi, ha ripuntualizzato alcuni degli assi portanti del proprio discorso: il complesso rapporto con il femminismo, l’uso a destra delle tematiche antitrans, la connessione di tali battaglie con quelle antisuprematiste, ecc.
Il presupposto epistemologico del lavoro di Stryker è facilmente definibile, ed è identificabile come il perno fondante di ogni tipologia di lotta politica interna alle culture wars. Possiamo sintetizzarlo mediante una cristallina definizione della teorica foucaultiana Rey Chow: “ogni ideologia conservatrice è intimamente legata al fondazionalismo oggettivista”. Si intende che ogni volontà definitoria, ogni universalizzazione, ogni oggettivizzazione è connessa alle categorizzazioni del reale che il potere mette in atto per attivare meccanismi di controllo e pattern di inclusione ed esclusione. Ogni universalizzazione oggettivante (di genere, di razza, di abilismo, ecc.) è cioè connessa alla naturalizzazione di ciò che, nel movimento storico (e nelle nostre percezioni), è invece dinamico e in divenire.
Vista in questo modo, ciò che i teorici alle spalle delle culture wars chiamano, con Nietzsche, “volontà di verità”, diventa assimilabile a ciò che i marxisti definiscono “naturalizzazione della storia”, fondo di ogni ideologia borghese nel suo desiderio di preservare lo status quo. Su questa via, dominio maschile, primato dell’ordine eterosessuale, eurocentrismo, ecc., verranno intesi appunto come manifestazioni di tali propositi naturalizzanti. Bisognerà dunque opporvi, e siamo alle guerre culturali, “un processo educativo di liberazione […] che sfidi [le] loro pretese di oggettività e universalismo”, come sostiene Evelyn Hu-DeHart (“The History, Development, and Future of Ethnic Studies”, in The Phi Delta Kappan, 1993, 75, 1).
Alla fine dell’intervista succede però qualcosa di strano. Nel tentativo di supportare la sua visione di una realtà molteplice, sempre mutevole e in divenire, Stryker naturalizza il suo stesso discorso, connette cioè la capacità dei corpi non conformi di mettere in crisi le oggettivazioni identitarie del potere al modo di funzionare della natura stessa:
[mi] collego al saggio di Barad Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning. Barad è unə fisichə teorichə delle particelle e studiosə di scienze femministe, che ha riunito teorie culturali critiche come quelle di Deleuze e Guattari, Judith Butler e Michel Foucault con la fisica quantistica. Sostiene che la maggior parte di ciò che esiste cosmologicamente è un insieme di fenomeni quantistici di materializzazione e smaterializzazione, come se l’universo giocasse con sé stesso a livello particolare, scoppiando nell’esistenza e poi sparendo nel nulla. Per me c’è qualcosa di trans in questo, cioè nell’idea di entrare e uscire dalla materia in relazione a una serie di potenzialità virtuali.
“Il sintomo è una metafora”, diceva Jacques Lacan, e si manifesta qui un sintomo curioso. Un discorso politico, finalizzato a negare ogni proposito oggettivante, recupera un’immagine della natura a supporto della propria tesi e, involontariamente, re-immobilizza proprio quei presupposti antiessenzialistici che erano la base epistemologica della sua battaglia intellettuale e politica. La natura ovviamente non è qui quella
immobile ed eterna caratteristica del discorso della destra, ma, pur se composta delle caratteristiche del pluralismo, dell’antiuniversalismo, della potenzialità illimitata, sempre
natura è, cioè sempre dato non legato agli sviluppi del divenire storico e dunque alla continua modifica dei nostri assiomi culturali, percezioni, credenze, ecc.
Il campo metaforico attinente alla smaterializzazione (alla liquidità, alla gassosità, alla fluidificazione, alla proteiformità, ecc.) è diventato, negli ultimi quarant’anni, stilema privilegiato per parlare tanto delle trasformazioni del nostro sistema economico-sociale quanto per raccontare quella rivoluzione epistemologica che, progressivamente, ha rovesciato quel primato dell’immobile, dell’eterno, del fisso che la cultura occidentale (
lato sensu platonico-cristiana) aveva storicamente posto al vertice delle proprie gerarchie valoriali. Tale rivoluzione culturale (oggi sottolineata proprio dal sintagma
fluid turn) ha trovato poi una concrezione metaforica nel concetto di “flusso”, concetto che ha assunto una capacità catalizzatrice nell’andare a esprimere il crollo delle certezze (delle
solidità) di tipo epistemologico, sociale, estetico.
Un discorso politico finalizzato a negare ogni proposito oggettivante che recupera un’immagine della natura a supporto della propria tesi involontariamente re-immobilizza proprio quei presupposti antiessenzialistici che erano la base epistemologica della sua battaglia intellettuale e politica.
La storia della metafora non può essere seguita in questo articolo, ma vale almeno la pena sottolineare che essa conosce, a partire da metà Settecento e dunque in connessione con gli sviluppi del capitalismo nascente, uno straordinario potenziamento. Dall’
Edward Young dei
Nights-Thoughts (“l’uomo, come un torrente, è in un flusso perpetuo”) al
Rousseau delle
Passeggiate (“tutto, quaggiù, è in un flusso continuo che non permette a nulla di assumere una forma costante”), all’
Oxford English Dictionary che segnala, al 1707, l’uso associativo di
cash e
flow, la capacità della metafora di andare a rappresentare la condizione di assenza di fondamenti, cioè il tracollo delle capacità conoscitive di tipo oggettivante, cresce esponenzialmente fino a farsi luogo comune. Se il suo uso nell’Ottocento perderà leggermente di consistenza, la metafora tornerà a invadere la riflessione intellettuale dalla fine del secolo, in sintonia con la seconda rivoluzione industriale, trovando una sistemazione filosofica col lavoro, fra gli altri, di
William James e di
Henri-Louis Bergson: “possiamo trovare una soluzione ai nostri problemi solo se riusciamo a rovesciare le nostre abitudini mentali, vedendo nella mobilità la sola reale realtà”.
Già
Marshall Berman, negli anni Ottanta, in
Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, aveva colto bene come lo spazio concettuale della gassosità e della liquidità caratterizzante il mondo contemporaneo (fondamentale naturalmente in tal senso il lavoro di Zygmunt Bauman) fosse un sintomo di una storia assai più vasta, connettendo il campo metaforico del divenire, del movimento e della fluidità alle operazioni di ristrutturazione sociale operate dal moderno capitalismo per come analizzate da
Marx ed
Engels: “l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, […] e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare” (o ancora Marx: “al di sotto di quella superficie apparentemente solida, si celano oceani di materia liquida”). La marcia trionfante di un campo concettuale, avverso a quello che aveva tradizionalmente caratterizzato l’
episteme occidentale, veniva cioè intesa come indicazione di trasformazioni storiche che stavano avvenendo sul piano della prassi.
Quando esaltiamo il “flusso”, stiamo esaltando il movimento o la sua immagine immortalata?
Ma, scrivendo dal 1982, vale a dire in anni in cui la prospettiva marxista pensa ancora di poter sussumere le opzioni post-nietzschiane, Berman manca completamente di cogliere un fenomeno culturale che solo recentemente è divenuto visibile e che il filosofo Thomas Sutherland chiama proprio “l’ontologizzazione del flusso”. La questione che Berman non ha potuto porsi è quella che compare in controluce nell’intervista a Stryker: è possibile che il campo concettuale della fluidità, sorto a indicare, al contempo, il segno di trasformazioni storiche e la coscienza stessa del movimento storico di contro alla presunta – avvertita – immobilità dell’ordine feudale-aristocratico, si sia progressivamente staccato dall’essere un sintomo della storicità stessa, della progressione continua che questa presuppone, per ri-ontologizzarsi? Per diventare cioè espressione di un orizzonte ideologico nuovamente
naturalizzato? Quando insomma esaltiamo il “flusso”, stiamo esaltando il movimento o la sua immagine immortalata?
Nell’ultimo trentennio la nozione di fluidità ha avuto una storia duplice. Da un lato è diventata luogo comune per parlare del nostro mondo fattosi rapido, globalizzato, deterritorializzato: “un modo di pensare che fa più affidamento su immagini di fluidità e incertezza che non sulle vecchie immagini di ordine, stabilità e sistematicità”, scrive John Tomlison in
The Culture of Speed (2007). Il concetto è poi servito a visualizzare (si pensi a
The Informational City, 1989, di
Manuel Castells Oliván) una realtà interconnessa da “spazi di flusso” in cui la stessa esperienza umana e la stessa struttura sociale, sono parole proprie di Castells, si trasferiscono in una “nuova logica spaziale” e concettuale, come spiega ancora Tomlison: “la natura permeabile e proteiforme dello spazio sociale; l’intrinseca mobilità degli agenti e dei processi sociali e relazionali […] e la fenomenologia dell’esistenza sociale moderna vanno compresi non solo nei termini comuni dell’esperienze di mobilità e deterritorializzazione, ma anche nei termini della dissoluzione costante delle fissità valoriali”.
Dall’altro lato infatti, seguendo in particolare le riflessioni dei filosofi post-strutturalisti rimodulate negli Stati Uniti sotto il sintagma
French Theory, fluidità, liquidità, ibridazione, ecc., sono andati a indicare un piano esperienziale caratterizzato tanto da un decadimento delle barriere di separazione fra Io e realtà, quanto da un campo di tensione fra essere e divenire che ha evidenziato non solo la natura illusoria delle qualità statiche (come in Bergson), ma – progressivamente – anche il loro carattere reazionario (si veda in particolare la riflessione di
Graham Harman in Tool-Being: Heidegger and the Metaphisics of Objects, 2002). Dall’etica-nomade di Rosi Braidotti all’ibridismo uomo-natura di molta eco-critica, dall’
idrofemminismo a certa
new age risorgente nei discorsi di sinistra, instabilità e contingenza sono state non solo rivalutate contro gli intenti sclerotizzanti e tassonomizzanti di un
potere di tipo foucaultiano, ma talvolta anche prese a immagini di un modo di funzionamento della natura stessa.
Dall’idrofemminismo a certa new age risorgente nei discorsi di sinistra, instabilità e contingenza sono state non solo rivalutate contro gli intenti tassonomizzanti del potere, ma anche prese a immagini di un funzionamento della natura stessa.
Dalla “nuova talassologia” alle
Blue humanities, la fluidità è passata sempre più a caratterizzarsi (si pensi anche alla “meccanica dei fluidi” di
Luce Irigaray) come resistenza a un ordine simbolico dominato da strutture oggettivanti (patriarcali,
bianche, eteronormate, ecc.) viste come corrispettivo degli spazi tradizionali del privilegio sociale, e contro i quali la liquidità (oppure la “viscosa porosità»” chiamata in causa da Nancy Tuana, o ancora l’“ideologia della disincarnazione” di Stacy Alaimo) fungerebbe da spazio di opposizione e di critica, da
standpoint, come si dice, decostruttivo.
Solo in anni assai recenti, soprattutto in ambito sociologico e sulla scorta delle precedenti riflessioni di autori come
Richard Sennett (in
L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, 1998) e
Marc Augé (
Nonluoghi, 1992), si è cominciato a questionare tanto la natura ontologizzante del “fluid turn” (Blackmore & Gomez; Astrida Neimanis) quanto, più in particolare, il modo in cui tale metaforizzazione tenderebbe a occultare la persistente
solidità delle catene di produzione e distribuzione, così implicitamente criticando l’idea stessa di una struttura fluidificata dell’organizzazione economico-sociale contemporanea.
In tal senso la “metafisica del flusso” andrebbe a reificare, appunto in termini naturalizzanti, determinate trasformazioni di carattere socioeconomico, connettendo la nostra logica epistemologica (e la nostra etica) al loro funzionamento, e presentandoci addirittura come
soluzione quello che è il funzionamento socio-economico corrente. Come scrive Allan Sekula in
Fish Story (1995): “Chiunque crede che il mondo prospererebbe senza intoppi se solo ogni cosa fluisse (capitale, informazioni, persone, merci, ecc.) sta semplicemente contribuendo a occultare il sogno implicito della borghesia transnazionale: un mondo di ricchezze senza lavoratori, un mondo di flussi disabitati”.
Studiosi come Sutherland e Stuart Alexander Rockefeller (vedasi “
Flow”, in
Current Anthropology, 2011, 52, 4) hanno infatti sottolineato non solo gli intenti naturalizzanti dei concetti legati alla fluidificazione, ma anche il suo farsi base ideologica del capitalismo al tempo della sua globalizzazione. Come ha scritto Ned Rossiter in
Organized Networks: Media Theory, Creative Labour, New Institutions (2006), apertura, fluidità e contingenza sarebbero ora presentati in termini essenzialistici, come parte integrante di un modo di operare della natura stessa (della vita stessa) contro le sclerotizzazioni di impianti ideologici di matrice conservatrice che mirano invece a ossificarla.
Solo in anni assai recenti si è cominciato a questionare il modo in cui tale metaforizzazione tenderebbe a occultare la persistente solidità delle catene di produzione e distribuzione.
Su tale linea la fluidificazione rivelerebbe la sua natura postmodernista (il suo essere, come hanno scritto Tomasz Kaliściak e Tomasz Sikora, uno “slogan postmodernista”) e quindi il suo irretimento nelle prospettive del “realismo capitalista”, al punto che, nel 2014, Elizabeth Stephens, in “
Feminism and New Materialism: The Matter of Fluidity” (in
InterAlia: A Journal of Queer Studies, 2014, 9), ha potuto fare riferimento al rischio di una “feticizzazione del flusso”, vale a dire a un suo passaggio nelle dinamiche della mercificazione e, dunque – questo il punto – a un suo uso proditorio nei termini di un’immobilizzazione ideologica del processo storico o, detto più marxianamente, a una naturalizzazione della storia (tratto del resto tipico del postmodernismo per come lo hanno inteso
Fredric Jameson e Terry Eagleton).
La novità decisiva è che tale naturalizzazione della storia non verrebbe più attivata da dinamiche ideologiche collegate a immagini di immobilità, ma – anche in questo caso in linea col pensiero postmodernista – a immagini di movimento. Queste mirerebbero a fare del capitalismo corrente il vettore stesso di quel principio del divenire, del cambiamento continuo, caratterizzante l’esistenza: “Se tutto è in flusso […] allora c’è il rischio che la specificità storica scompaia a favore di una naturalizzante idea di cambiamento senza fine. Un’evanescenza che pertiene anche al reame eterno della natura?”, domanda Esther Leslie in “Liquid Metal, Liquid Crystal Meet Swimming Nanorobots: on the Political Aesthetics of Self-Organism Behaviours in Life System” (in
Fluidity, 2022).
Non più il sintomo di una transizione (materiale e culturale) di carattere storico, ma anzi un’equiparazione fra il funzionamento dell’esistenza (fluida e in perpetuo divenire) e il capitalismo stesso: “l’obiettivo è imparare a concepire il mondo attraverso un’ontologia del divenire e del potenziale, attraverso il diventare fluidi” (Kirsten Simonsen, “
Networks, Flows, and Fluid”, in
Environment and Planning, 2004, 36, 8). In tale linea di ragionamento, Alberto Toscano (“
The Culture of Abstraction”, in
Theory, Culture & Society, 2008, 25, 4) ha parlato di una tendenza astraente progressivamente impostasi come l’“ontologia sociale della modernità recente”, finalizzata, sostiene Mark Simpson, a oscurare la brutale solidità dei processi di sfruttamento, dell’estrazione di risorse, della logistica, ecc., a occultare cioè l’oggettività storica di aspetti del reale pur dialetticamente transitori.
Se del resto allarghiamo il quadro alla trasformazione delle dinamiche produttive e lavorative del post-fordismo, vediamo proprio un allargarsi e potenziarsi dei campi semantico-concettuali connessi a
movimento e trasformazione. Già nel 1989
David Harvey aveva posto le basi per la comprensione del nuovo sistema di produzione e consumo. Il nuovo modello sarebbe dominato da forme di accumulazione flessibili e strumentali, capaci di basarsi su modi e tempi sempre diversi della produzione al fine di ridurre tanto il costo del lavoro quanto i tempi che intercorrono fra investimento e realizzazione del profitto. Nel corso degli anni Novanta Sennett delinea come il nuovo capitalismo richieda movimento e flessibilità: elasticità ed efficienza diventano i nuovi imperativi di sistemi aziendali i cui obiettivi economici sono sempre più caratterizzati dal breve termine. Un mercato sempre più dinamico rifiuta, vale a dire, la pedissequa ripetizione, anno dopo anno, delle medesime strategie aziendali.
Bisogna osservare e criticare non solo gli intenti naturalizzanti dei concetti legati alla fluidificazione, ma anche il suo farsi base ideologica del capitalismo al tempo della sua globalizzazione.
Lo stesso principio, nota Ronald Burt, si estende anche al piano del lavoro: si moltiplicano cioè le mansioni (e le competenze) richieste al lavoratore, sempre più costretto a essere “aperto al cambiamento” e a
performance differenti. Così come la produzione, anche la forza lavoro deve cioè diventare “contingente”; le vecchie organizzazioni piramidali (questo è Walter Powell), vengono sostituite da reti in grado di riformulare continuamente gerarchie e mansioni lavorative che non sono più
fondate, ma possono essere continuamente ridefinite. Le aziende si liberano poi dalla determinazione localistica deprivando di un
centro anche le “comunità del lavoro”: si fanno
nomadi valicando i confini nazionali (globalizzazione, transnazionalità, ecc.), si fanno
mobili mediante l’esternalizzazione (lavoro interinale,
outsourcing, ecc.), si
decentrano nella loro capacità di trarre vantaggio da conoscenze diversificate e si
disseminano adattandosi alla vita breve dei desideri di consumo (“specializzazione flessibile”).
All’evoluzione della domanda non si adatta poi solo la strategia produttiva, ma lo stesso livello occupazionale, secondo il consueto imperativo della flessibilità. Ai lavoratori, nota la sociologa Laure Graham, si richiede ora
performativity: una sorta di recitazione identitaria che si incentra sulla capacità di diversificare il piano dell’offerta della propria forza lavoro. Ma se la svolta epistemologica legata al “fluid turn” non è in grado di concepirsi in relazione sintomatica con tali trasformazioni, è poi inevitabile che il sintomo possa essere scambiato per soluzione. E la sua ri-naturalizzazione è il frutto della perdita della coscienza del nesso esistente fra cultura e piano materiale.
Insomma, come tanti anni fa scrisse proprio Jameson, il fatto che l’antifondazionalismo conviva con un senso della Natura (la lettera maiuscola è sua) è il mistero essenziale al cuore di quello che è il postmoderno. Oppure, detto in altro modo, la fluidità del mare è piena di container e di
solidissime conoscenze logistiche.