T utti cantano Sanremo” recitava lo spot che per settimane ha punteggiato il palinsesto di Rai 1, in cui feti, alieni e animali si cimentavano nella riproposizione dei brani della tradizione italiana nati al festival dei fiori. È improbabile che una campagna analoga ma realizzata fra vent’anni riproponga le canzoni dell’edizione 2017. Nato come palcoscenico di prestigio per il meglio del pop nazionale, Sanremo ha abbandonato da tempo ogni pretesa di influenzare il mercato discografico e si concentra sulla sua vera missione: raccontare l’Italia. Le canzoni ci sono, e c’è anche il rito della selezione protratta per mesi, ma quello di cui si parla davvero è tutto il resto: i conduttori, lo show, il contorno, gli ospiti.
La narrazione del paese fatta da Sanremo è una tensione continua fra quello che siamo e quello che vogliamo essere, come ci vediamo e come vorremmo essere visti. Lo share è del 50%. Sanremo s’impone: anche chi non lo guarda sente di dover prendere pubblicamente le distanze dalla visione. Non guardare Sanremo può essere addirittura interpretato come un gesto politico, una presa di posizione netta contro la cultura nazionalpopolare, prima ancora che la musica commerciale.
Sanremo piace. Il segreto del suo successo è la semplicità del linguaggio, la distanza da qualsiasi polemica di natura politica, l’alternanza fra intrattenimento e impegno. Tutto in Sanremo deve risultare comprensibile anche agli spettatori più anziani, zoccolo duro dell’audience: vietati i riferimenti alle culture giovanili, ai fenomeni presenti in rete, persino alla stessa esistenza dei social media se non come veicolo di problemi da risolvere: come nel caso del bullismo denunciato dall’organizzazione Ma Basta! e dalla giornalista di Sky Diletta Leotta, presente sul palco per parlare del furto delle sue immagini private. L’Italia che racconta se stessa sul palco di Sanremo è aspirazionale ma non troppo: celebra i soccorritori dell’hotel Rigopiano (che si presentano con il cane Corto), l’impiegato comunale siciliano che non ha mai fatto un giorno di ferie in quarant’anni, l’ostetrica ultranovantenne che ha fatto nascere il suo primo bambino nel 1945.
Gli ospiti stranieri sono altrettanto rassicuranti: dall’orchestra dei bambini paraguayani che suona con strumenti costruiti utilizzando materiali di recupero; a Mika, popstar e intrattenitore che anche grazie al suo straordinario talento per le lingue ha trovato in Italia una seconda casa; passando per il gioviale Keanu Reeves e le graziose discendenti di Belmondo e Delon usate per occupare tempo fra un cambio palco e l’altro; nessuna delle personalità che hanno interagito con Conti e De Filippi richiedeva presentazioni complesse. Niente premi Nobel, astronauti, scienziati o rappresentanti di organizzazioni internazionali: l’intellettualismo è messo al bando in favore di buoni sentimenti, glamour avvicinabile e orgoglio nazionale. Solo in finale di serata, quando ci si avvicina allo spazio più informale del Dopofestival, c’è spazio per l’umorismo irriverente e venato di riferimenti pecorecci di Rocco Tanica.
La costruzione dell’immaginario nazionale operata da Sanremo risulta allo stesso tempo straniante e commovente, interessata a riportare alla ribalta l’etica e il “messaggio”.
Il taglio narrativo sanremese, che tende all’edificazione, fa perdere mordente anche ai comici più solidi. Quasi ogni monologo comico di questa edizione conteneva un elemento di osservazione sociale impostato sui toni della ricerca del consenso: i giovani disoccupati, i bulli, i politici che non fanno il loro dovere. Del resto, chi prova a mordere viene immediatamente preso di mira per un motivo o per l’altro: l’imitazione lisergica e sboccata di Sandra Milo fatta da Virginia Raffaele (e approvata dalla stessa Milo, che ha detto di preferirla di gran lunga a una commemorazione post-mortem) è stata giudicata “sessista” da Beatrice Dondi su Huffington Post. La parola d’ordine, insomma, è “inoffensività”: l’intrattenimento di Sanremo, come tutto Sanremo, deve unire e non dividere.
I contenuti politico-sociali del festival sono un elemento che varia di anno in anno a seconda del conduttore e del periodo storico, e pur nella loro pacatezza rappresentano un elemento distintivo del festival in mondovisione. Da due anni a questa parte, il Festival viene seguito in diretta da un paio di profili Twitter canadesi gestiti da appassionati dello Eurovision Song Contest. Agli occhi dei commentatori stranieri – che non parlano l’italiano e che vengono guidati nella visione dagli spettatori italiani – la costruzione dell’immaginario nazionale operata da Sanremo risulta allo stesso tempo straniante e commovente, qualcosa che in apparenza si allontana dalle logiche commerciali per riportare alla ribalta l’etica e il “messaggio”. Poco importa che un passaggio pubblicitario durante Sanremo possa arrivare a costare più di 200.000 euro, perché l’etica di Sanremo fa audience.
Sanremo è un evento conservatore, che non aspira al progresso sociale ma si limita a riproporre quanto è già stato accettato dagli italiani. Sul palco si avvicendano Tiziano Ferro, Mika, LP: solo Mika approfitta del suo spazio per pronunciare qualche frase sui diritti civili e sull’amore che è uguale per tutti. Gli italiani, mediamente, applaudono. L’entrata in vigore della legge Cirinnà è considerata da molti come un grande traguardo per le coppie omosessuali; l’unione fra persone dello stesso sesso non solo non fa più scalpore, ma è passata (con il programma Stato Civile – L’amore è uguale per tutti di Rai 3) dalla seconda serata alla fascia dell’accesso, quella dedicata alle famiglie, e le repliche proseguono.
Omosessuali quindi sì, donne un po’ meno: se da un lato la presenza di Maria De Filippi è a suo modo rivoluzionaria rispetto al ruolo tradizionale della donna a Sanremo (quasi sempre “valletta”, quasi mai conduttrice, con pochissime eccezioni), la liturgia del festival conserva l’abituale dose di sessismo benevolo, dal dono del mazzo di fiori solo alle donne, alle carrellate strette dai piedi alla testa dedicate alle ospiti più avvenenti, fino alla tradizionale discesa della scala, che nemmeno le modelle di lungo corso si sentono di affrontare senza l’aiuto del conduttore di sesso maschile. Tutto ciò racconta l’Ariston agli italiani, che a qualsiasi latitudine si stringono intorno alla Mondovisione sanremese per sentirsi un po’ a casa e – ed è l’unica vera contestazione consentita – indugiare nel nostro passatempo nazionale: parlare male di noi stessi amandoci moltissimo.