O ltre un decennio fa scrissi un libro che venne tradotto in italiano con il titolo I padroni del cibo. Il titolo inglese era Stuffed and Starved (2007). Il libro cominciava con la constatazione contraddittoria del fatto che, nel 2007, il numero di persone denutrite fosse pari a circa 800 milioni, cifra purtroppo superata dal miliardo di persone considerate sovrappeso.
Stando al rapporto Fao (Food and Agricolture Organization) del 2018, dal titolo State of Food Security and Nutrition in the World, il numero di persone sovrappeso era aumentato raggiungendo i 2,2 miliardi nel 2015, con 872 milioni di adulti non solo sovrappeso, ma affetti da obesità. È ancora più preoccupante riscontrare che, nel corso degli ultimi due anni, i dati relativi alla diminuzione del numero di persone denutrite si siano capovolti. Non solo stanno crescendo i numeri in termini assoluti (820,8 milioni nel 2017), ma anche la percentuale in proporzione alla popolazione mondiale (10,9%). Allo stesso tempo più di 2 miliardi di esseri umani sono sovrappeso e si individuano casi in cui le famiglie possono sperimentare simultaneamente sia la carestia che il sovrappeso. Il mondo è più “pasciuto e affamato” rispetto a un decennio fa.
Oggi, sulla base dell’indicatore FAO di restrizione calorica, volutamente ridimensionato in maniera molto più circoscritta, le cose stanno peggiorando. Nonostante attualmente i dati FAO non prendano più in considerazione le crisi più acute relative alle carestie – quelle derivate semplicemente da un raccolto fallimentare o da una recessione eventualmente trattata con qualche sorta di forma assistenziale – quel che resta è una fame persistente e sempre più difficile da gestire. Senza ombra di dubbio, ci sono conflitti che si protraggono per oltre un anno: le guerre in corso in Afghanistan, Siria e Yemen sono tutte causa di morte e fame. Tuttavia, la maggior parte dei casi di indigenza alimentare non è direttamente associata a queste guerre, quanto piuttosto a qualcosa di ben più diffuso. La FAO ritiene infatti che il problema scatenante sia il cambiamento climatico. È piuttosto evidente che l’innalzamento delle temperature e l’estremizzazione delle condizioni meteorologiche stiano trasformando l’agricoltura. Ma il cambiamento climatico non riguarda solamente le condizioni meteo.
In che modo fame e cambiamento climatico si intersecano
Nel 2010 la Russia, il terzo maggior esportatore di grano al mondo, soffrì la peggiore ondata di caldo che si fosse mai verificata nell’ultimo secolo. Le carenti forze antincendio furono incapaci di contenere gli incendi divampati nelle strisce di terra coltivate a grano. Comprendendo le conseguenze di cui avrebbe risentito il mercato, la società di intermediazione commerciale Glencore, la cui sede principale si trova in Svizzera ed è quotata 70 miliardi di dollari US, puntò sul fatto che il prezzo del grano sarebbe cresciuto. I suoi operatori commerciali più esperti fecero pubblicamente pressione sul governo russo al fine di imporre un divieto di esportazione. Nel giro di pochi giorni il governo russo si attivò esattamente in questo senso. Ma un tale shock alle forniture globali sfociò in una piccola frenesia speculativa, e il prezzo del grano, diffuso tramite il sistema di commercio multilaterale, aumentò in tutto il mondo del 15% in due giorni.
L’impennata dei costi venne percepita a livello globale, ma in maniera particolarmente acuta a Maputo. Il grano non è una coltura originaria dell’Africa meridionale, ma attraverso la conquista coloniale portoghese una certa preferenza locale per il frumento soppiantò le tradizioni locali. Durante il periodo di austerità, il governo del Mozambico seguì le indicazioni dello schema di sviluppo internazionale e tagliò i fondi per i servizi pubblici. Tra i vari tagli fu attuata una riduzione delle scorte dei proiettili in gomma. Ma quando la polizia rimase a corto di questi ultimi, utilizzò munizioni reali. Morirono almeno dieci persone. È questa una storia che riguarda condizioni climatiche estreme, mercato internazionale, geopolitica, colonialismo, gastronomia, austerità, fame, proprietà privata e malvagità. Il cambiamento climatico non bussa mai alla porta annunciandosi come tale. Gli esseri umani sperimentano il tempo meteorologico sulla propria pelle, attraverso i sistemi sociali.
L’ autoregolamentazione nel settore privato
Ci sono molteplici ragioni per le quali intervenire diventa necessario, nonostante gli attori sociali coinvolti si presentino come estremamente riluttanti a determinati tipi di ingerenze, poiché esse avrebbero un’incidenza più diretta principalmente sui loro profitti. Si consideri come alcuni potrebbero voler normare il consumo delle cosiddette “calorie vuote” [nella nutrizione umana, il termine calorie vuote si applica a cibi e bevande composti principalmente o unicamente da zuccheri, grassi o oli e a bevande contenenti alcol. Un classico esempio in questo senso sono le bibite gassate. Gli alimenti cui ci si riferisce con questo termine forniscono energia alimentare – misurata in calorie, appunto – ma poco o null’altro in termini di vitamine, minerali, proteine, fibre o acidi grassi essenziali.]. L’industria alimentare, prevedibilmente, resisterebbe alla regolamentazione governativa. Negli Usa, l’industria aveva garantito nel 2007 la riduzione del consumo calorico entro il trilione di calorie e non oltre il 2012.
L’industria alimentare è diversa da qualsiasi altro settore: l’impatto ambientale che genera è stato quantificato al 224% dei suoi introiti.
Sotto l’egida di un gruppo non-profit sponsorizzato dal settore, la Healthy Weight Commitment Foundation, si rivendicò un grande successo quando nel 2012 il consumo del venduto risultò pari a 6,4 trilioni di calorie in meno. Un successo, dunque, per la regolamentazione volontaria? Non del tutto. I bilanci del marketing alimentare superano enormemente i bilanci pubblici relativi ai consumi consigliati. L’industria alimentare continua a commercializzare se stessa e i suoi prodotti. La Coca-Cola, per esempio, ha aumentato la sua spesa pubblicitaria da circa 2 miliardi di dollari nel 2000 a 4 miliardi di dollari nel 2017.
L’industria alimentare è diversa da qualsiasi altro settore: l’impatto ambientale che genera è stato quantificato essere pari al 224% dei suoi introiti. Se questo è vero, ciò sicuramente rappresenta una vera e propria occasione per regolare ed esigere che l’imprenditoria connessa alla produzione di beni commestibili si comporti con cognizione di causa, correttamente.
Ci sono già delle norme in vigore, ma all’interno del settore è stato fatto un lavoro dovizioso al fine di aggirare o evitare azioni penali previste ai sensi di tali regolamenti, sia assassinando le popolazioni indigene per far posto alle coltivazioni di soia e alle piantagioni di olio di palma – 40 difensori della terra sono stati uccisi solo nel 2017 dall’ agribusiness – sia trovando escamotage atti a evitare l’ingiunzione di procedimenti penali previsti dal regime di monopolio. Le società connesse al sistema alimentare si sono dimostrate abili nel gestire la propria regolamentazione. E ciò è perfettamente in linea con l’idea che l’ascesa delle multinazionali e dello Stato moderno vadano di pari passo.
Il potere dell’agribusiness si estende attraverso e in tutta la sfera politica: da JBS, il più grande produttore mondiale di carne multato 3,2 miliardi di dollari per il suo ruolo negli affari brasiliani, ai tentativi di lobbismo che le organizzazioni industriali intraprendono quotidianamente nei corridoi di potere regionale, nazionale ed internazionale. La scala di trasformazione necessaria per produrre un sistema alimentare consono sia a una popolazione sana, sia a un pianeta salutare in grado di nutrirla, è ampia. Oltre ai cambiamenti nelle scelte alimentari, propendendo per una dieta mediterranea come in Grecia, in Italia meridionale e in Spagna, ricca di verdure e cereali integrali, a basso consumo di carne, vi è l’impellente necessità di enormi trasformazioni, anche in altri settori. Le strategie cardine di tale trasformazione sono:
- Stimolare l’impegno internazionale e nazionale atto a un riordinamento verso regimi alimentari più sani.
- Ri-orientare le priorità agricole dalla produzione di grandi quantità di alimenti alla produzione di alimenti più salutari.
- Intensificare, in forma sostenibile, la produzione alimentare, generando un risultato effettivo di alta qualità.
- Amministrare terre e mari con una governance forte e al tempo stesso coordinata.
- Dimezzare quantomeno la perdita e lo spreco di cibo, in linea con gli Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile promossi dalle Nazioni Unite.
Un sentore per la politica
Credo che, come prassi, ci voglia un motivo di speranza. Il sistema alimentare si è sempre e solo trasformato perché “le esternalità hanno reagito”. Quando gli ecosistemi o i lavoratori sfruttati non hanno più accettato di stare al gioco del loro stesso sfruttamento, il capitalismo si è dovuto adattare. A ben vedere, il capitalismo è emerso dalle ceneri di un precedente sistema – il feudalesimo – che è collassato a causa della ribellione contadina e dei cambiamenti climatici. Non serve altro che una portata analoga di possibilità quando si affronta il capitalocene. Questa visione comporta non solo una richiesta di regolamentazione come obiettivo primario, ma chiama in causa l’ambizione di democratizzare il potere, con delle modalità che il moderno sistema alimentare non ha mai visto prima. Questa è la teoria del cambiamento – e un ordine del giorno per esso – che non vedo l’ora di portare avanti e mettere in pratica.
Estratto dal discorso che Raj Patel terrà domani, martedì 7 maggio, alle 18.30, alla Fondazione Giacomo Feltrinelli, a Milano, nell’incontro dal titolo Cibo. La giusta risorsa, parte del ciclo di appuntamenti Le conseguenze del futuro.