U na delle caratteristiche che vengono utilizzate per ascrivere un gruppo politico alla categoria dei “populisti” è quella di essere contro le élite al potere. Tuttavia, opposizione a parte, quando si tratta di accordarsi su specifiche proposte normative o strategie politiche, emerge un’ampia differenza tra gli attori cosiddetti populisti, come confermato dalle arene sovranazionali dove sono costretti a interagire. Anche un rapido sguardo al loro comportamento in seno al Parlamento Europeo rivela dei dati interessanti. Partiti populisti che sembrano proclamare messaggi molti simili in patria si ritrovano invece divisi nell’emiciclo europeo, accettando di perdere influenza, fondi e peso politico, pur di non unirsi tra loro.
Questi raggruppamenti politici, infatti, formano i due gruppi parlamentari più piccoli, ovvero l’Europa delle Nazioni e della Libertà (ENF), dove si trovano la Lega Nord e il Front National, e il Gruppo Europa della Libertà e della Democrazia Diretta (EFD), dove siedono il Movimento 5 Stelle e lo UKIP inglese artefice della Brexit. Questi stessi gruppi hanno il più basso tasso di votazioni in comune del Parlamento Europeo, segno di un’alta conflittualità anche interna alle fragili formazioni parlamentari. Infine, partiti euroscettici di estrema destra, come lo Jobbik ungherese (il nome per esteso significa sia “Partito per un’Ungheria migliore”, sia “Partito per un’Ungheria più a destra”), non aderiscono a nessun gruppo parlamentare e siedono tra i banchi degli indipendenti. Scavando un poco sotto l’etichetta, insomma, i populismi sembrano essere spesso in contraddizione tra loro.
Quando venne coniato il termine “populismo” nella Russia del XIX secolo si indicava un tipo di ideologia molto precisa. Oggi, a fronte della varietà degli attori in campo, è in dubbio l’utilità del concetto per orientarsi nel mare in tempesta della politica europea contemporanea. Sembra molto più proficuo guardare ai programmi elettorali di questi movimenti e, quando eletti, alle loro proposte legislative implementate. Per esempio, si sostiene che il governo di Viktor Orbán, considerato il campione dei populisti al potere in Unione Europea, sia particolarmente elitario in termini di leggi approvate. Il diavolo è nei dettagli.
Quando si tratta di accordarsi su specifiche proposte normative o strategie politiche, emerge un’ampia differenza tra i populisti, come conferma il loro comportamento nel Parlamento Europeo.
Se il programma politico del Partito della Libertà di Geert Wilders spiccava per sinteticità alle scorse elezioni olandesi (dieci punti, tra cui un omaggio al dadaismo come “riduzione dei finanziamenti ad aiuti umanitari, mulini a vento, arte, innovazione, et cetera”), lo stesso non si può dire per Madame Marion Anne Le Pen, chiamata semplicemente “Marine” fin dall’infanzia. Colei che incarna indiscutibilmente l’essenza del populismo (il suo motto è “in nome del popolo”) nella Francia in corsa verso le elezioni presidenziali del 23 aprile, presenta un programma da 144 punti. Già i nomi delle sette sezioni in cui questi punti sono suddivisi (“una Francia libera”, “una Francia sicura”, “una Francia prospera”, “una Francia giusta”, “una Francia fiera”, “una Francia potente” e “una Francia sostenibile”) restituiscono il tono sovranista e sciovinista del documento.
Come prevedibile, dunque, una delle parole chiave è “patriottismo economico” e, nonostante l’espressione “Unione Europea” compaia solo cinque volte, la maggioranza delle proposte sono impegni a smantellare l’apparato giuridico UE in Francia, rimandando a un referendum l’eventuale Frexit. Un’assenza notevole, nei 22 punti sulla sicurezza, è il riferimento alla dimensione transnazionale del terrorismo e del crimine organizzato. Non viene mai menzionato alcun tipo di collaborazione inter-statale o sovranazionale in termini di intelligence e anti-terrorismo, snocciolando una lunga serie di provvedimenti solo di carattere interno (tra gli altri, riarmo delle forze dell’ordine, creazione di 40.000 posti supplementari nelle carceri, soppressione dello ius soli). Allo stesso modo, non viene citato alcun eventuale contraccolpo in termini economici che l’uscita da Schengen e l’ultra-protezionismo potrebbero apportare all’economia francese.
Queste omissioni non sono casuali, ma si sposano bene con la penuria di proposte di politica estera. Aldilà di idee non meglio argomentate come “lasciare la NATO”, non viene disegnata alcuna strategia globale che implichi partecipazione in organismi sovranazionali o interazione con altri stati. Per esempio, nonostante l’incontro tra Le Pen e Putin del 24 marzo scorso, la Russia, dalla quale il Front National riceve ampi finanziamenti, non viene mai nominata, come nemmeno l’ONU, del cui Consiglio di sicurezza la Francia fa parte. In breve, ciò che colpisce in questo lungo documento è la totale assenza di riferimenti a stati o istituzioni terzi. La Francia prefigurata dal Front National è uno Stato lanciato verso un futuro di grandeur su un palcoscenico mondiale senza altri attori degni di nota. Una prospettiva eccessivamente riduzionista e naïf per chi punta a governare il secondo Stato più popoloso dell’Unione Europea.
Da quando nel 2011 ha preso il timone del partito fondato dal padre, Marine Le Pen lo ha sdoganato fino a renderlo un attore politico a vocazione maggioritaria.
Eppure, oggi un voto al Front National non è più un voto di protesta. Da quando ne ha preso il timone nel 2011, Marine Le Pen ha condotto una brillante campagna di riposizionamento del partito fondato dal padre Jean-Marie nel 1972, sdoganando il Front National fino a farlo diventare un attore politico a vocazione maggioritaria. Se fino a ora, l’unico risultato degno di nota era stato l’approdo al secondo turno di Le Pen padre nel 2002, poi sonoramente sconfitto da Jacques Chirac, il partito sembra oggi essere dalla parte giusta della storia. L’ampio sostegno elettorale non sembra infatti effimero: il 25% alle elezioni europee del 2014 aveva suonato la carica, un impeto poi ribadito alle regionali l’anno seguente, dove il Front National aveva letteralmente sbancato al primo turno, per poi venire sconfitto dovunque al secondo. L’operazione catartica di pulizia dell’immagine del Front National ha raggiunto il suo apice simbolico nell’agosto del 2015, proprio con l’espulsione di Jean-Marie Le Pen, fino a quel momento suo presidente onorario (poi riammesso obtorto collo). Il casus belli sembrano essere state le continue rivendicazioni anti-semite del padre di Marine (la Shoah sarebbe stata solo “un dettaglio storico”), per le quali, assieme a razzismo e all’aperta xenofobia, non c’è più posto nella retorica ufficiale del partito nel 2017. Quello che negli anni ’80 era soltanto un raduno di nostalgici, xenofobi e neo-nazisti ha oggi il 97% di probabilità di sbarcare al secondo turno.
Focalizzandosi sul personaggio, un quadro di Marine Le Pen non può che essere un’opera espressionista, dove spuntano molti elementi sfumati e senza soluzione di continuità tra loro. Indiscutibilmente, ha ridefinito un modello di leadership dell’estrema destra, incentrandolo sull’essere donna e la sulla proposta di un tipo di femminilità alternativo a quello dell’establishment. Non è un caso, infatti, che di recente la parlamentare europea si sia esplicitamente definita “l’anti-Merkel” e che nel video ufficiale della sua campagna si definisca prima di tutto “donna” (seguita da “madre” e “avvocato”). Inoltre, se una delle caratteristiche più evidenti dei populismi di destra sembra essere la riappropriazione di rivendicazioni tipiche dell’estrema sinistra, ereditando il ruolo (e spesso gli elettori) dei partiti più rivoluzionari, pochi in Unione Europea sono riusciti a fare questo meglio di lei.
Marine Le Pen è perfettamente a suo agio nel post-ideologico, propagandando un messaggio né di destra né di sinistra, o meglio “una destra dei valori, una sinistra del lavoro”. Sotto il continuo riferimento alla “semi-mitologica gente comune” si nasconde un retroterra filosofico e valoriale molto sfaccettato, pieno di elementi sincretici. Innanzitutto, è l’unica candidata a distanziarsi da un’interpretazione tecnica della politica e a sostenere con veemenza una visione globale, una grande narrazione storica, messianica e coinvolgente. Identifica il nemico in due totalitarismi, quello mondialista e quello islamista. Per attaccare il primo utilizza frequentemente autori di sinistra che hanno scritto contro il capitalismo, la globalizzazione, il dominio dei potentati finanziari. Uno dei suoi intellettuali preferiti è Jean-Claude Michéa, filosofo, studioso di George Orwell ed ex-membro del partito comunista censore dell’abbandono della critica globale al capitalismo da parte della sinistra. Per attaccare l’islamismo, invece, si è addirittura spinta a citare la Hannah Arendt (pensatrice ebrea, con buona pace di suo padre) della critica allo sradicamento dell’individuo, reinterpretandone il messaggio di apertura in chiave nativista.
Capace di aggregare sensibilità differenti, quest’ambiguità ideologica potrebbe essere la chiave del successo finale. Secondo i sondaggi più recenti, il candidato centrista Emmanuel Macron e Le Pen sono testa a testa al 25% e 24%, seguiti da Fillon al 19%, con Mélenchon che la sta spuntando nella lotta fratricida della sinistra (15%), relegando i socialisti di Hamon a un sempre più concreto quinto posto. Tuttavia, considerando la maggior compattezza dell’elettorato di Le Pen (l’80% dei francesi che hanno dichiarato di votare per il Front National si è detto certo di non cambiare idea, a fronte del 42% nel caso di Macron), una certezza sembra già esserci: Marine Le Pen, al secondo turno, ci arriva. È allora utile ipotizzare fin da ora lo scenario che potrebbe crearsi nelle due settimane tra il primo turno e il ballottaggio decisivo.
Se una delle caratteristiche più evidenti dei populismi di destra è la riappropriazione di rivendicazioni tipiche dell’estrema sinistra, pochi in Unione Europea sono riusciti a farlo meglio di Le Pen.
Al secondo turno, la carica anti-sistemica del messaggio di Marine Le Pen potrebbe attrarre su di lei, e non su Macron, gli elettori di Mélenchon e in parte di Hamon. Il suo obiettivo è rompere la compattezza di quel cordon sanitaire che ha impedito finora al Front National di dilagare al secondo turno, nonostante frequenti risultati elettorali imponenti al primo. Infatti, in uno scenario simile all’Olanda con il Partito della Libertà o alla Germania con PEGIDA, gli altri partiti hanno perennemente escluso la possibilità di alleanza o convergenza con lo schieramento populista. Come ha brillantemente riassunto il professor Robert Tombs, nel sistema francese “al primo turno voti chi vuoi, al secondo voti contro chi temi”:si mettono da parte le differenze tra i partiti e i loro elettorati e al secondo turno ci si compatta tutti in un front républicain.
In Italia questa dinamica è stata pressoché assente nella Seconda Repubblica, ma era invece uno dei leitmotif della Prima Repubblica: quando nel 1960 il governo Tambroni ottenne la fiducia anche grazie ai voti del MSI, si scatenarono proteste di piazza che portarono alla caduta pressoché immediata dell’esecutivo. In Francia, la tattica del front républicain è sempre risultata efficace in termini elettorali, ma in questo frangente politico può fare il gioco di Marine Le Pen, contribuendo a rafforzare la sua l’immagine di unica legittima rappresentante dei francesi rispetto a una classe politica completamente asservita a influenze esterne, senza rilevanti differenze interne. Anche il fatto che Macron sia stato fino allo scorso agosto Ministro dell’Economia sotto l’impopolare presidente François Hollande porta acqua a questa narrazione. France 24 ha sottolineato la possibilità di un remake del film già visto con Hillary Clinton, dove candidati progressisti percepiti come troppo vicini all’establishment (Macron, oltretutto, è un ex-banchiere) hanno alienato il favore di quelle fasce di tradizione progressiste colpite dalla crisi. Se questi segmenti elettorali scegliessero di restare a casa, le quotazioni di Macron rischierebbero di subire un brusco tracollo.
Politico spiega che, come nel caso di Donald Trump, l’astensione incoronerebbe Marine Le Pen. Le scarse possibilità del Front National di uscire vincente al ballottaggio dipendono dalla capacità di Macron di mobilitare gli elettori indecisi, ponendosi come argine alla deriva ultra-nazionalista ed euro-scettica rappresentata dal Front National. Le incognite principali sono due. La prima è rappresentata dalla novità che, per la prima volta, i socialisti tout court sono completamente fuori dai giochi. Considerato il profilo marcatamente gauchista di Benoît Hamon, non è detto che i socialisti si spendano in un’appassionata campagna per il loro ex-affiliato Macron. La seconda è che Macron non ha alle spalle una macchina partitica, ma soltanto il suo giovane movimento (“En Marche”, EM come le sue iniziali), costituitosi appositamente per queste presidenziali. Il potenziale di mobilitazione di questo movimento suscita forti dubbi, considerato lo scarso radicamento sul territorio. Infine, il fatto che il giorno dopo le votazioni, l’8 maggio, sia un giorno festivo in Francia, potrebbe spingere un numero consistente di elettori a trascorrere il ponte fuori casa, non presentandosi alle urne. Benché sia un’eventualità improbabile al momento, se questa volta il cordon sanitaire attorno al Front National non dovesse riuscire a stringersi, significherebbe la fine dell’Unione Europea per come è stata concepita e plasmata. È una delle promesse che la stessa Marine Le Pen ha fatto ai propri elettori.