A lla fine del nono episodio della terza stagione di Silicon Valley, la serie comica HBO che racconta i meccanismi dell’industria tecnologica, la telecamera si sposta dai luminosi open space californiani a un angusto e affollato ufficio in Bangladesh. Pied Piper, la start up protagonista della serie, ha deciso di aumentare segretamente il numero di utenti attivi giornalieri pagando una click farm: una “fattoria di click” in cui centinaia di persone sottopagate ripetono un’azione semplicissima. Click, click, click.
Utilizzare mezzi del genere per gonfiare i dati della propria app o dei click ai banner all’interno di un sito è illegale – un reato chiamato click fraud, piuttosto giovane e ancora in una zona grigia legale. Concentriamoci però su un altro aspetto: non è strano che un compito così semplice e monotono – come visitare un sito per simulare l’attività di un utente – sia affidato ancora oggi a degli esseri umani? Le macchine e i software non dovevano rubarci il lavoro, cominciando da quelli più semplici? Sì, stando ai dati e alle previsioni degli economisti. Non esattamente, se si osservano fenomeni come il meatware.
“Meatware” è un neologismo forzato, una parola che associa la carne (meat) al suffisso -ware, diventato sinonimo di “informatica” dopo la diffusione di hardware e software in campo tecnologico. Indica un rapporto tra uomo e macchina che trova nella “carne” una connotazione bassa, volgare: il meatware è una forma di lavoro in cui l’uomo esiste solo in quanto massa, numero.
Se nel 2017 resistono aree professionali informatiche in cui gli umani vincono la concorrenza di robot e macchine, è interessante scoprirne il motivo. Le ragioni sono puramente economiche, come ha spiegato a Backchannel Lukas Biewald, fondatore del sito CrowdFlower: “Se hai un compito che quasi chiunque al mondo può fare, allora c’è un numero illimitato di persone disposte a farlo”. Abbassando il livello della competenza richiesta, l’offerta si alza vertiginosamente.
‘Meatware’ è un neologismo forzato che associa la carne (meat) al suffisso -ware, diventato sinonimo di informatica: una forma di lavoro in cui l’uomo esiste solo in quanto massa.
A collassare è invece il costo, sbriciolato dalla trasfigurazione del concetto stesso di “lavoro”: cliccare un bottone un tot di volte al giorno, infatti, è davvero un lavoro? Sì, nel momento in cui crea un valore percepito per un cliente in questa zona grigia professionale in cui una singola azione quotidiana, se ripetuta molte volte, diventa altro, rendendo la fatica di migliaia di persone più conveniente di un software. Nel 2013 un migliaio di like su Facebook costava un dollaro grazie a click farm specializzate. Da allora le cose non sono cambiate molto: i social network sono molto più sensibili e attenti al fenomeno ma i brand continuano a denunciare una compravendita che rischia di confondere le acque, rendendo più difficile distinguere un prodotto di successo da uno che ha acquistato like. Lo stesso avviene su Twitter – dove acquistare follower è semplicissimo – e su altre piattaforme.
Nel 2016 solo il 48,2% del traffico web è stato creato da esseri umani: tutto il resto, la maggioranza (seppure in diminuzione rispetto gli anni precedenti), è stato generato da robot. In uno scenario come questo è lecito aspettarsi che i bot abbiano risucchiato anche compiti così ripetitivi e semplici da sembrare cuciti addosso alla nostra idea di macchina.
Tutt’altro. Come ha raccontato Adrian Chen in un articolo del 2014 per Wired (e in un recente breve documentario) agli umani spettano ancora alcuni dei compiti più ingrati del web. Chen si è recato a Manila, capitale delle Filippine, dove ha visitato alcuni centri meatware in cui esseri umani monitorano e “puliscono” internet. Pensate a Google Images, Twitter, Pinterest, Facebook e tutti questi infiniti archivi fotografici, gratuiti e accessibili a tutti; pensate a quanto puliti sono, dopotutto, specie se si considera la libertà di cui godono i loro utenti. Non è strano? Le immagini cruente o pedopornografiche, però, non vengono rimosse automaticamente da algoritmi complicatissimi, in grado di identificarle, cancellarle e punire l’utente colpevole: esistono invece tanti piccoli eserciti di sottopagati che per lavoro osservano migliaia di foto orribili e traumatiche su base quotidiana.
La lingua inglese offre un verbo particolare, unknown, che potremmo tradurre – letteralmente – come de-sapere. Indica la possibilità di eliminare un ricordo, leggere o sentire qualcosa e poi cancellarne tutte le tracce dalla nostra memoria: come un ctrl+Z gnoseologico. Tra i lavoratori di Manila, in molti vorrebbero poter cancellare il ricordo di quel che hanno visto. Ma non è solo l’orrore di quelle immagini quanto la normalità che si vuole dare a un lavoro assurdo, estremo: “Come vi sentireste a guardare porno per otto ore al giorno, ogni giorno? Quanto riuscireste a resistere?”, chiede uno dei lavoratori meatware intervistati da Wired.
A rendere gli umani preferibili ai bot è spesso l’imperfezione intrinseca delle azioni umane: anche dei click. Un’armata di bot può essere facilmente scoperta mentre un pezzo di meatware – sgangherato e massiccio come una fanteria – ha più possibilità di resistere. Pensiamo ai CAPTCHA, quelle strane sequenze di simboli e lettere che gli utenti devono ricopiare per dimostrare a un sito di essere umani. Nel corso degli ultimi anni Google ha cambiato le regole del gioco pescando le sequenze direttamente dagli archivi di Google Books, il servizio che scannerizza e archivia online libri di tutti i tipi. Il piano consisteva nel selezionare estratti da libri antichi che fossero illeggibili all’algoritmo della società, proponendoli invece agli utenti. Se avete compilato un CAPTCHA negli ultimi anni, li avete visti e – magari inconsapevolmente – avete aiutato Google Books a digitalizzare un’opera.
Potremmo definirlo una forma di meatware “buono”: tutto sommato innocuo e con un obiettivo “culturale”, una grande azione collettiva nel nome della cultura (e di una corporation). Sempre a proposito di CAPTCHA e bot, è interessante però ricordare l’ultima evoluzione della tecnologia di Google, che nel futuro non avrà più bisogno di chiedere agli utenti di “dimostrare” la propria umanità. Già con i reCAPTCHA erano stati fatti passi avanti, sostituendo simboli e lettere a un semplice click sulla casella “Non sono un robot”. Ad ogni click, il sito analizza i movimenti del puntatore nello schermo giudicandone la sua “umanità”.
Cliccare un bottone un tot di volte al giorno è davvero un lavoro? Sì, nel momento in cui crea un valore per un cliente in questa zona grigia professionale in cui una singola azione, se ripetuta molte volte, diventa altro.
Rimanendo nell’universo Google, Mountain View ha recentemente annunciato di aver trovato una possibile soluzione a un problema che riguardava YouTube, sito di loro proprietà. Molti inserzionisti si erano lamentati perché la loro immagine appariva nel mezzo di video considerati offensivi – misogini, razzisti e volgari. Una notizia uscita poche settimane dopo il caso di Pewdiepie, lo youtuber con più iscritti al mondo, da tempo alle prese con gag sull’Olocausto e il nazismo, che gli sono costate il rapporto commerciale che intratteneva con YouTube stessa e un’azienda controllata da Disney. La soluzione di Google? “Assumere un numero sostanzioso di persone” per monitorare i video caricati.
Per una inquietante coincidenza, lo scandalo Pewdiepie è esploso per un video in cui lo Youtuber svedese prendeva in giro alcuni utenti di Fiverr, uno dei siti che ha portato all’estremo la logica del meatware, cercando di declinarlo in una cornice “cool”. Fiverr è cugino del meatware ma è anche la sua negazione: il sito promette di reinventare il concetto di freelancing, celebrando l’individualità del professionista, qui ridotto a disegnare loghi per 5 dollari. Tra gli account presi in giro da Pewdiepie, quello di due ragazzi indiani disposti a ballare mostrando un cartello sul quale il cliente poteva scrivere quello che volevano: nel video di Pewdiepie il messaggio diceva “Morte a tutti gli ebrei”. Allo svedese non sembrava possibile: “Lo hanno fatto sul serio! Incredibile!” è il sottotesto del video. Sì, e costa solo cinque dollari.