I n Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Mario Tronti scrive: “Che cos’è l’Antico del Moderno? È la prima modernità, non ancora invasa e occupata dagli spiriti animali borghesi”.
Il mutamento delle sottoculture di Francesco Caroli per Meltemi è un breve ma intenso viaggio, di appena 144 pagine, che parte dai teddy boy fino ad arrivare alla trap. Perché quella dei teddy boy fu solo la prima di una serie di subculture che dagli anni Cinquanta in poi comparvero nelle vie ed all’interno dei locali frequentati dalla gioventù postbellica. Un insieme di segni e tratti distintivi tenuti insieme da un unico comune denominatore: la musica.
I teenager, socialmente non considerati prima di quel momento, divengono all’improvviso protagonisti della società di massa. Questo evento determina “la nascita della pop music, intesa come la musica da consumare più feticisticamente da parte dei giovani ed ormai sempre più difficile da collegare ad un solo gruppo sociale”. Le sottoculture, quasi paradossalmente, nascono sotto il segno del dollaro: i primi ragazzi che non si riconoscevano più nella “personalità ibrida tra il gentleman inglese ed il daydreamer americano”, e che iniziavano a preferire situazioni, abbigliamento e ovviamente musica che inneggiassero alla libertà sessuale e parlassero ai giovani, avevano appena assistito all’ingresso nelle loro case degli elettrodomestici e della televisione.
Questo legame ne determina il destino: gli anni trascorrono veloci e nel frattempo si assiste al mutamento delle sottoculture. Molte di queste sono nate sull’onda di una critica al consumo e allo showbiz, ma la fine è la stessa per ognuna di esse: il mercato se ne appropria fino a snaturarne completamente il senso originario. Spiega Caroli, le post-sottoculture di oggi non sono più, infatti, un aggregatore sociale giovanile di marcata influenza e base proletaria, idealmente contrapposta e fieramente resistente all’espressione della società borghese e consumistica tradizionale, come venivano disegnate fino agli anni Novanta.
Certo, probabilmente questa è l’evoluzione naturale di qualsiasi prodotto commerciale di successo, eppure la musica, come qualsiasi altra forma d’arte, risente ancora di più di questa dinamica. I primi vagiti sono per ogni sottocultura quelli più puri e genuini. È ormai diventata una battuta tra gli appassionati di musica alternativa: di qualunque band si preferiscono le demo o il periodo pre-major. Perché? Non si tratta di snobismo, il motivo è semplicemente che spesso con il procedere della carriera la libertà viene meno, in cambio di rigide regole di marketing da rispettare.
Spesso con il procedere della carriera la libertà viene meno, in cambio di rigide regole di marketing da rispettare.
Il tempo trascorre e intanto non mutano soltanto le sottoculture, ma anche la classe operaia. Le considerazioni di Mario Tronti su ciò che è diventato l’operaio contemporaneo sembrano seguire infatti un percorso quasi parallelo, anche se l’accostamento può sembrare stravagante. Ma prima di addentrarci nel confronto, è forse meglio ricordare chi era Mario Tronti, scomparso lo scorso 7 agosto. Tronti è stato l’iniziatore, assieme a Raniero Panzieri dell’operaismo, nonché l’autore del testo chiave del movimento stesso, Operai e capitale. Un libro che lo rese noto e che in seguito considererà quasi ingombrante: “Raccomando sempre: non scrivere un libro di successo da giovani, perché si rimane per sempre imprigionati in una sola casella.”
Lui stesso non si adagiò mai sugli allori dell’entusiasmo di quella breve stagione operaia, anzi, già dal Sessantotto inizia il suo rigoroso ragionare attorno a quell’anno così controverso per tanti motivi. Si rende conto che la capacità che avevano avuto i governi borghesi (specie italiani) di mediare tra capitale e istituzioni, permettendo di far sviluppare la società civile, era svanita. Il sistema resta solido, ma “il socialismo è caduto come forma di società alternativa al capitalismo”. Già dalla fine degli anni Sessanta abbandona infatti l’operaismo e i vari altri gruppi sorti in seguito per elaborare il concetto di autonomia del politico. Un concetto fortemente frainteso, spesso addirittura stravolto (vedi Toni Negri), ma che fondamentalmente era piuttosto chiaro: la classe operaia da sola non può arrivare a sovvertire il capitale. Un concetto, preciserà, più radicale dell’operaismo stesso e che non a caso scatenò un fortissimo dibattito guidato dai duri e puri del movimento operaio, che però non si erano ancora resi conto che “il proletariato non sta più in fabbrica ma nel ‘sociale’, cioè nei quartieri, nelle università, negli ospedali, nelle cabine telefoniche, nei collettivi di quelli che ti vengono a leggere la luce a casa”.
Da questo momento in poi le riflessioni di Tronti diverranno sempre più riluttanti nei confronti del nuovo che avanza. Il Novecento è un bagliore fortissimo che illumina tutto il suo pensiero e che ha come centro solare la grande rivoluzione russa. Nel Novecento, e solo all’interno dell’ampia prospettiva che offrono le sue dinamiche politiche e sociali, si può individuare l’opportunità di sovvertire il moloch del capitale. Questo perché il comunismo – e nessun altro nucleo dichiaratamente anticapitalista – è stata l’unica cosa capace di intimorire il capitale. L’esperienza sovietica, ma soprattutto la sua disfatta, ancora così poco capita e analizzata, tinge di un grigiore quasi rassegnato la scoperta del mutamento subito dall’operaio massa. Questi era stato uno dei protagonisti del Novecento, capace di mettere in seria difficoltà il capitalista; era stato “l’unica figura escatologica in grado di realizzare un moderno principio-speranza”. Ma l’operaio non ha più consapevolezza di ciò che è e della portata del suo potenziale. Il livellamento alla media borghesia ha fatto in modo che questi perdesse la propria capacità rivoluzionaria, e ha introdotto un suo nuovo peculiare modo di pensare, prono alla classe e al pensiero dominante: l’accettazione pacifica di qualsivoglia contenuto imposto e la conseguente e automatica caccia alle streghe di chi invece non accetta, tipico del bigottismo.
Anche la politica si insinua all’interno di questo solco. Nel 2015 le riflessioni trontiane culminano nel libro citato in esergo, Dello spirito libero. Un testo particolare, che alterna momenti di acuta teoresi hegeliana a sprazzi di intimismo, in una forma liberissima, talvolta frammentaria, in cui abbondano le citazioni e gli omaggi ai maestri che lo hanno illuminato. Un particolare riguardo è riservato a quegli autori che hanno si sono messi di traverso al pensiero dominante: non è questa per eccellenza una forma di controcultura? Non era questo il senso originario, o almeno il tentativo, delle sottoculture stesse?
Il livellamento alla media borghesia ha fatto in modo che l’operaio perdesse la propria capacità rivoluzionaria, e ha introdotto un suo nuovo peculiare modo di pensare, prono alla classe e al pensiero dominante.
Secondo Tronti, la conquista di quella democrazia e libertà caratteristici della Fine della storia, privano il soggetto della propria libertà: Non si è mai compiutamente liberi, da soli. Paradossalmente si è più liberi nel pensiero in una dittatura, perché lì ci sono alcuni, che possono diventare molti, in lotta per la libertà. Si è meno liberi in una democrazia, perché qui tutti credono di già possedere le libertà e quindi non sentono nemmeno il bisogno di volerla. È più facile sentirsi singolarmente liberi in uno stato di schiavitù imposta che in un regime di servitù voluta.
In questa frase risiede parte di ciò che Tronti intende con l’espressione Antico del Moderno. Il Moderno di Tronti è un concetto apparentemente vago, ma non troppo:Va messa in campo la decisione di scegliere, volta a volta, il proprio presente rispetto al passato. Se è vero che ognuno ha l’antichità che si merita, allora ognuno ha anche la modernità che si merita. Il proprio Moderno è il proprio presente. Il nostro presente non è quello in cui viviamo. Questo è il presente degli altri, e anche loro se lo meritano. Il nostro presente è quello in cui avremmo voluto vivere: lì si srotola quotidianamente, e si riarrotola come il serpente, la nostra esistenza di pensiero. Il genuino, autentico esistere. Per Warburg era il primo Rinascimento, che vedeva la rinascita del paganesimo antico. Per noi è il primo Novecento, che ha visto la rinascita dell’umanesimo moderno.
Il problema centrale, dal punto di vista collettivo, dal quale è derivato anche un certo decadimento sociale e culturale, è subentrato “da quando la modernità ha cominciato a essere occupata dal capitalismo e si è espressa attraverso una concezione borghese della vita. Da un certo momento in poi, essere moderni ha coinciso con l’essere per lo sviluppo della società capitalistica.”
Non è accaduto forse questo con le sottoculture? Traslando il pensiero di Tronti sul discorso delle sottoculture, ci accorgiamo subito che queste oggi non versano più nello splendore di cui godevano decenni fa, e allo stesso tempo che quella loro prima fase ha realmente rappresentato movimenti che si mettevano di traverso rispetto agli atteggiamenti e i suoni della cultura dominante. Probabilmente si potrebbe dire che il Moderno sottoculturale fu quel periodo arcadico che va dai teddy boy alla nascita dell’hip hop, per concludersi definitivamente con il movimento rave. Dal momento in cui il capitalismo ha iniziato ad infiltrarsi in esse, le sottoculture hanno perso la loro carica eversiva, fino a diventare qualcosa di completamente altro, non più sottoculture.
Un caso esemplare è quello della trap, da molti considerata come l’ultima delle sottoculture. Eppure, secondo Caroli la trap si alimenta di una narrazione platealmente “controculturale” nei suoi temi ridondanti e provocatori rispetto ai valori imposti dalla società tradizionale, che finiscono comunque per essere svuotati della loro carica ribelle davanti alla mercificazione programmata.
Equivale un po’ al già menzionato adagio trontiano: con la totale libertà dei giorni nostri si ottiene, paradossalmente, l’assenza della libertà stessa.
Dal momento in cui il capitalismo ha iniziato ad infiltrarvisi, le sottoculture hanno perso la loro carica eversiva, fino a diventare qualcosa di completamente altro.
La dimensione temporale è fondamentale. Scrive Tronti: “Il Moderno occupato dal capitalismo ha semplificato e complessificato questo problema: ha inventato la fase, il ciclo, ha separato il breve, il medio, il lungo periodo. E su ogni piccola svolta costruisce l’immagine del nuovo inizio di un’altra epoca.” Basta fare un giro su internet per capire come al giorno d’oggi ogni sottocultura è schedata, monitorata e storicizzata in maniera quasi scientifica, consentendo, di conseguenza, la sua obsolescenza programmata e la nascita di altre mode sottoculturali. Caroli fa notare giustamente chequello che succede è che le mode cambiano continuamente gli stili; simboli e geroglifici sociali mutano costantemente e non durano più di sei mesi, un anno: il palcoscenico è per definizione un enorme produttore di significato ma anche un luogo intrinsecamente deviato e piegato alle logiche temporali dell’innovazione, del cambiamento. Su di un palco non c’è spazio e percezione per la memoria: tutto ciò che è nuovo è ritenuto importante, tutto quel che è passato perde qualsiasi rilevanza e significato.
Secondo Tronti,il pericolo, benjaminiamente, è uno solo: prestarsi a essere strumento, a volte anche inconsapevole, della classe dominante. E siccome, secondo quanto ci ha insegnato Hölderlin, là dove c’è il massimo del pericolo, lì c’è ciò che salva, allora «in ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarlo». Il passato è un campo di conflitto tra le forze che si contendono il possesso del presente.
Nella visione comunista trontiana “il nostro Antico del Moderno sta qui: in questo spazio-tempo di Novecento. Il nostro paganesimo antico è il comunismo moderno.” Quello delle sottoculture fu probabilmente, come già detto, il periodo che va dai teddy boy alla nascita dell’hip hop, per concludersi definitivamente con il movimento rave. In quell’epoca i grandi movimenti sottoculturali furono davvero di rottura con l’industria capitalistica. Dopo di queste anche altre, certamente. Come non considerare il noise americano dei Duemila una sottocultura? E la vaporwave? È certamente una sottocultura. Il noise non ha avuto, per ovvi motivi, la portata universale di movimenti come il punk. È rimasta davvero sottocultura, esaurendosi in maniera autonoma forse per via della sua limitata potenzialità compositiva. Ciononostante il capitale ha fatto comunque in modo che i suoi esponenti finissero in festival importanti e che Pitchfork iniziasse a dare voti alti ad alcuni dischi di quel genere, mentre gruppi come i Wolf Eyes hanno finito per pubblicare i propri album per etichette non proprio indipendenti, come ad esempio la Sub Pop. La vaporwave invece, almeno dal punto di vista estetico, si è imposta a livello globale e i suoi codici espressivi sono divenuti ormai di dominio pubblico. Un genere che è conosciuto più che altro per questo, anziché per la musica in quanto tale.
E per quanto riguarda la trap? Il discorso di Caroli è giusto, ma la prima trap era ben altro. Com’è noto, questa nacque dal movimento chopped and screwed, sorto a Houston, in Texas, dalla leggenda DJ Screw, che era solito rallentare i brani fino a renderli qualcosa di altro e di fortemente narcotico, per via delle droghe che giravano in quella scena. Si trattava di demo tape che giravano tra amici, già dai primi anni Novanta, e l’immaginario era piuttosto brutale e vicino al gangsta rap. Brani anarchici che arrivano a sfiorare i quindici minuti. Questa era davvero una sottocultura. Poi ci sono state tante evoluzioni ed è diventata altro, ma forse anche la trap ha avuto il suo Antico del Moderno.