I l primo febbraio 2021, l’insegnante di educazione fisica Khing Hnin Wai si reca come ogni mattina sulla Royal Lotus Roundabout. È una grossa rotonda poco distante dai palazzi del potere di Naypyidaw, la capitale del Myanmar. Qui, Khing inizia a svolgere la sua routine di esercizi riprendendosi con lo smartphone. Mentre Khing continua a fare aerobica senza accorgersi di nulla, lo smartphone riprende dietro di lei gli agenti dei servizi di sicurezza che rimuovono barricate, i veicoli dell’esercito che si aprono il passaggio verso gli edifici che ospitano il Parlamento e altro ancora. Mentre Khing balla, sullo sfondo – e poi su Facebook – va insomma in scena il colpo di stato militare che quasi due anni fa ha deposto il legittimo governo del Myanmar. Il video diventa subito virale nel paese e poi in tutto il mondo: “Non ballavo per prendere in giro o mettere in ridicolo alcuna organizzazione né per fare la stupida”, si vede costretta a specificare sui social. “Dato che non è inusuale a Naypyidaw vedere convogli di veicoli ufficiali, ho pensato fosse normale e ho continuato”. E così, “il colpo di stato dietro la ragazza che balla” si trasforma in un meme: l’immagine ginnica di Khing Hnin Wai viene sovrapposta alle foto del crollo del muro di Berlino, a Piazza Tienanmen e in altri luoghi storici, sovrapponendo ulteriori strati di significato – surreali, ironici, inconsapevoli, a volte indesiderati – a un evento originale che ha smontato ancora una volta le speranze democratiche del paese del sudest asiatico.
Non è l’unico caso. Un secondo episodio raccontato da Mattia Salvia nel suo Interregno (Not, Nero Edizioni) risale al settembre 2021, quando “tra proteste di massa e accuse di brogli elettorali, a Conakry, capitale della Guinea, unità ribelli dell’esercito destituiscono il presidente Alpha Condé (al potere da un decennio e rieletto l’anno precedente) dopo che la Costituzione è stata modificata così da consentirgli un terzo mandato”. In particolare, un’immagine diventerà iconica di questo golpe: la foto che mostra l’anziano presidente stravaccato sul divano – camicia sbottonata e posa noncurante – circondato dai militari che l’hanno appena deposto. Un’immagine, anche in questo caso, che presenta al suo interno elementi contrastanti, divergenti, paradossali. Materiale perfetto per lo spirito dei tempi attuale. E infatti nasce immediatamente la #AlphaCondéChallenge: sui social decine di cittadini guineani si sfidano a trasformare in un meme la foto originaria, ricreandola con gli amici, usando scope al posto dei mitra e altro ancora.
Per i giovani guineani, trasformare la deposizione del loro presidente in una challenge sui social diventa un modo per esprimere la propria impotenza di fronte a una cosa più grossa di loro.
Siamo di fronte a del semplice cazzeggio in stile social oppure possiamo ricercare significati più profondi in operazioni virali di questo tipo, che reinterpretano con un certo cinismo e distacco eventi di enorme importanza? Tra le varie letture, ce ne sono alcune che possono risultare più o meno convincenti. Per BBC Africa, per esempio, in questo caso “lo humour è un importante atto politico: ha il significato di una punizione inflitta a chi si è comportato male”. Una sorta di avvertimento della popolazione, a indicare un “sostegno condizionato” ai militari. Altre interpretazioni sembrano invece cogliere un aspetto cruciale del nostro tempo: “L’ironia viene usata per sdrammatizzare una situazione – il cambio violento e repentino di governo – comunque pesante e spaventosa. Per i giovani guineani, trasformare la deposizione del loro presidente in una challenge sui social diventa un modo per esprimere la propria impotenza di fronte a una cosa più grossa di loro, e sulla quale non hanno controllo alcuno”, si legge in Interregno, libro nato dal progetto di Salvia Iconografie del XXI secolo, un profilo Instagram ideato come spazio di ricerca e rivista indipendente su cultura, estetiche ed eccentricità del presente. “Una dimensione di punizione, di derisione, è inevitabilmente presente”, mi spiega Salvia. “Il fatto stesso che la popolazione decida di prendere in giro determinate situazioni e personaggi indica che qualche torto è stato fatto. In ogni caso, è chiaro che se l’ironia è diventata la cifra dei nostri tempi è proprio perché avvertiamo una sempre minore capacità di agire nei confronti delle cose”. L’ironia diventa quindi un modo di distaccarsi, di elaborare e di metabolizzare eventi di fronte ai quali siamo impotenti.
Ma le dinamiche che abbiamo visto in atto in situazioni lontane come Myanmar e Guinea sono le stesse che, anche in Occidente, vengono utilizzate per raccontare un mondo che – tra crisi climatiche, pandemie, guerre in Europa, teorie del complotto, minacce nucleari, estrema destra che imperversa ovunque e altro ancora – ci sembra sempre meno comprensibile, sempre meno afferrabile, sempre più folle. È anche così che nasce il concetto della “timeline sbagliata”, la linea temporale errata in cui siamo in qualche modo finiti: la nostra ci appare infatti come un’epoca assurda, incomprensibile, in cui – come scrive Salvia – “in Occidente abbiamo visto saltare tutti i paradigmi politici, tutte le regole della convivenza civile, tutti i valori condivisi fondativi della nostra società”, in cui degli pseudo-guru complottisti con delle corna in testa arrivano a guidare la protesta che ha mandato temporaneamente in tilt la più potente democrazia del mondo. Cos’è andato storto? Com’è possibile che il mondo abbia preso una direzione così insensata? Nel tentativo di dare un significato all’assurdo che ci circonda, si sviluppano teorie bizzarre come quelle secondo cui un incidente verificatosi nell’acceleratore di particelle del CERN ci avrebbe spostato su una linea temporale alternativa. Ma siamo sicuri che sia la nostra epoca a essere una parentesi incomprensibile in un mondo precedentemente più razionale?
Guardando solo al secolo scorso, e limitandoci agli eventi a noi più noti, troviamo due guerre mondiali, Hiroshima, l’Olocausto. Volgendo lo sguardo più indietro incrociamo invece rivoluzioni sanguinarie, guerre civili, conflitti lunghi anche un secolo, lo sterminio di intere popolazioni, conquistatori che hanno avuto così tanti figli da così tante donne che lo 0,5% degli abitanti del pianeta discenderebbe da loro, una peste bubbonica che ha sterminato un terzo della popolazione europea e tantissimo altro ancora. L’assurdità del mondo sembra tutto tranne che una novità. E allora perché – con l’eccezione della crisi climatica di origine antropica, unico vero evento inedito ed esistenziale – facciamo così fatica ad accettarla?
I meme diventano uno degli strumenti per interpretare questo mondo che ci sembra alla rovescia, mentre le ricerche più tradizionali rischiano di farci fraintendere ciò che sta avvenendo.
“La tesi di fondo conclusiva del libro è proprio questa: la timeline sbagliata è rappresentata dai trenta celebri anni socialdemocratici, che sono peraltro esistiti solo in Occidente”, prosegue Mattia Salvia. “Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, Time ha per esempio titolato in copertina ‘Il ritorno della storia’. In realtà, l’unica differenza è che negli anni Novanta e nel seguente periodo d’oro dell’Occidente la guerra era messa sotto il tappeto, tenuta ai margini, perché si trattava fondamentalmente di conflitti coloniali. La mia tesi è proprio che la timeline si è semmai infine corretta”.
Una delle questioni (socialmente) più rilevanti diventa, allora, capire perché concepiamo ciò che oggi ci circonda come se fosse qualcosa di assurdo: “Questa chiave di lettura si presenta ciclicamente”, precisa Salvia. “Cent’anni fa avevamo per esempio già letto la frase di Gramsci proprio sull’interregno (“La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”) che racconta la stessa identica cosa di oggi. Il punto è proprio questo: come mai percepiamo questi momenti storici in questa maniera? Perché la timeline ci sembra sbagliata?”. Ed è a questa domanda che, come vedremo in conclusione, Interregno prova a dare risposta, rivelandosi un saggio in grado di tirare le fila dei cambiamenti radicali che, negli ultimi quindici anni, si sono verificati in maniera talmente repentina da lasciarci smarriti e armati solo di ironia. In un costante cortocircuito, i meme diventano uno degli strumenti più utili per interpretare (o almeno metabolizzare) questo mondo che ci sembra alla rovescia, mentre i dati e le ricerche più istituzionali e tradizionali rischiano di farci fraintendere ciò che sta avvenendo.
È il caso, per esempio, della ricerca condotta nel 2017 dal Center for Systemic Peace, che mostrava come i colpi di stato fossero ovunque in costante calo, raccontando quindi di una maggiore stabilità e pace del mondo intero. Una lettura più attenta mostra, però, come, dopo il calo sempre degli anni Novanta e primi Duemila, la situazione si stia rapidamente invertendo. Paradossalmente, questo schema non racconta la costante riduzione dei golpe nel mondo, ma soltanto la “felice parentesi” di cui abbiamo già parlato: “Nel decennio 2010-2019 si registrano in totale sette colpi di Stato; nei soli primi due anni del successivo decennio se ne contano già altrettanti. Cinque di questi si concentrano nel 2021, un anno che da solo ne vede più dei cinque anni precedenti messi insieme”, nota infatti Salvia. Altro che fine dei colpi di stato, nell’ottobre 2021 il segretario generale dell’ONU António Guterres parlava di “epidemia di colpi di Stato”. Allo stesso tempo, nel mondo si moltiplicano le proteste: Occupy Wall Street e e Primavere Arabe risalgono ormai a un decennio fa, ma nel solo 2019 si registrano rivolte in 114 Paesi (tra cui Sudan, Bolivia, Libano, Cile, Iran, Hong Kong). Un report del Center for Strategic and International Studies definisce il XXI secolo come “l’epoca delle proteste”, mostrando come “il numero di manifestazioni di massa era aumentato dell’11,5% ogni anno tra il 2009 e il 2019”.
È come se queste proteste non fossero tanto interessate ai risultati che possono ottenere, quanto alla loro stessa rappresentazione.
Eppure, anche questa dinamica – che apparentemente mostra una volontà di agire che va oltre l’ironia e il distacco, allo scopo invece di riprendere in mano la situazione – viene interpretata in Interregno in maniera molto particolare: “Le proteste a cui assistiamo non sono veramente attive, i numeri sono altissimi ma a livello qualitativo nessuno di questi movimenti di protesta è mai riuscito a ottenere una briciola di ciò che chiedeva: fondamentalmente è come se queste proteste non fossero tanto interessate ai risultati che possono ottenere, quanto alla loro stessa rappresentazione”, prosegue Salvia. “Mi sembra che ci sia un aspetto un po’ narcisista. Nel 2019 sono stato a Hong Kong e ho parlato con dei ragazzi che facevano parte delle manifestazioni, uno di loro mi ha spiegato come le ‘Cinque richieste’ del movimento fossero formulate apposta per non essere accolte dal governo cinese. Non venendo accolte potevano infatti servire come strumento per continuare a portare la gente in piazza. È quasi un volersi porre come martiri. Anche la conclusione della rivolta di Hong Kong, con i manifestanti che si asserragliano nell’università, sembrava avere proprio lo scopo di dare vita a uno scenario epico: avendo perso sul terreno politico – e dopo aver colpito l’immaginario anche occidentale recuperando esplicitamente tutta una serie di estetiche cyberpunk – si è cercato di entrare nel terreno della mitologia”.
Per quanto il caso delle proteste in Iran di queste settimane sia almeno in parte diverso, ciò che l’autore di Interregno vede nelle manifestazioni contemporanee è più una rappresentazione delle stesse che delle vere e proprie rivolte con l’obiettivo di ottenere risultati. Ed è un fenomeno che si ritrova in altri campi affini, tra cui per esempio quello della guerra, che non ha più lo scopo di espandere i propri territori o fortificarli, ma – nella lettura, ripresa in Interregno, della docente di Global Governance Mary Kaldor – viene ormai fatta al principale scopo di definire i confini della propria comunità. Ed è un fenomeno che, incredibilmente, pervade anche il mondo che più avremmo pensato impermeabile a certe dinamiche: la diplomazia, che oggi si trasforma sempre più spesso nella shitpost diplomacy attraverso la quale i Paesi si confrontano, minacciano, ridicolizzano usando meme ironici pubblicati sugli account social ufficiali delle più alte diplomazie. È un altro esempio di come internet si sia fusa nel mondo reale, ma anche di come la diplomazia – che ha lo scopo di portare avanti la discussione tra avversari al riparo da sguardi indiscreti – sia invece sempre più vittima di meccanismi che la portano a comunicare non più con gli avversari, ma con i propri sostenitori, con il rischio però di deteriorare proprio quei rapporti che avrebbe tutte le ragioni di mantenere. Anche la diplomazia, come la guerra e le manifestazioni, è diventata la rappresentazione di se stessa? “Tra tutte le tematiche del libro, è la cosa più indicativa del periodo di caos che stiamo vivendo”, conferma Salvia. “È un periodo in cui sono saltate tutte le norme di comportamento e di civiltà: la diplomazia è una norma che anche nei momenti di maggiore caos è rimasta, perché serve a far funzionare il sistema, a comprendersi reciprocamente tra gli attori del sistema. Invece sta saltando anch’essa: è davvero la testimonianza che il nostro è un periodo che sta andando notevolmente verso il caos. Non c’è più distinzione tra diplomazia e propaganda, si stanno fondendo: dal punto di vista della stabilità del sistema è la cosa che mi spaventa di più”.
La diplomazia si trasforma sempre più spesso nella ‘shitpost diplomacy’ attraverso la quale i Paesi si confrontano, minacciano, ridicolizzano usando meme ironici.
Se la guerra diventa (in parte) la rappresentazione di se stessa, le manifestazioni diventano (in parte) la rappresentazione di se stesse e lo stesso vale anche per la diplomazia, a questo punto è inevitabile scomodare l’iperrealtà di Baudrillard, in cui le simulazioni o le imitazioni della realtà diventano più reali della realtà stessa, erodendola al punto da far implodere la dualità platonica tra realtà e rappresentazione. “È la spettacolarizzazione totale”, conferma Salvia. “Io ho seguito tantissimo, da un punto di vista militare, la guerra in Siria e adesso quella in Ucraina e in pochi anni ho visto un enorme salto di qualità nelle dinamiche di spettacolarizzazione. Per fare solo un esempio, le pagine Reddit dove vengono seguite le guerre – analizzando le strategie, gli attori in campo, gli armamenti, i progressi sul terreno eccetera – sono identiche a quelle dedicate per esempio a Game of Thrones, con tanto di recap degli episodi precedenti”.
Quand’è che abbiamo iniziato a vivere in questa timeline sbagliata (che adesso sappiamo essere più che altro la conclusione di una breve parentesi tutta occidentale), dove le diplomazie si trollano l’un l’altra, le più grandi rivolte mondiali diventano uno spettacolo cyberpunk e le guerre si trasformano in materiale per nerd che stanno troppo su Reddit? In Interregno, Salvia individua nella crisi economica del 2008 il momento in cui iniziano a saltare gli equilibri. Il 2016, con l’elezione di Donald Trump, rappresenta invece la conseguenza politica e il momento in cui ci rendiamo conto di non star attraversando una fase passeggera ma di aver intrapreso un inquietante e pericoloso nuovo percorso.
In questa ricostruzione manca però il 2001 del movimento No Global e delle proteste del G8, in Italia per sempre impresse con il ricordo di Genova. Eppure, molti degli scenari peggiori che si sono poi verificati – a partire dalle diseguaglianze crescenti, dai rovesci della finanza e altro ancora – sembrano essere stati effettivamente preconizzati in quel periodo. “Secondo me quella è un’altra cosa”, replica Salvia. “Nel 2001 il movimento No Global era in piazza per ragioni diverse da oggi. La mia teoria fondamentale è che il periodo della ‘fine della storia’ si sia infranto nel 2008 con la Crisi, di cui poi abbiamo vissuto i contraccolpi politici nel 2016. La differenza è che nel 2001 la globalizzazione non si era ancora invertita di segno: chi manifestava contro la globalizzazione andava in piazza contro un processo che veniva percepito come una cosa dalla quale guadagnava l’Occidente e perdeva il resto del mondo. Invece le dinamiche caotiche che noi vediamo adesso sono frutto dell’inversione di segno della globalizzazione, che è diventato un processo da cui guadagna il resto del mondo e perde l’Occidente. E infatti la rivolta populista, che è causata dal contraccolpo politico seguito alla Crisi del 2008, si è verificata soltanto in Occidente e nei Paesi che ne sono di fatto colonie”.
I ‘meme talebani’ sono veri e propri meme creati spesso proprio in Afghanistan da supporter dei talebani che avvicinano il cosiddetto Islamogram al mondo della alt-right statunitense.
C’è però un’altra data cruciale in questo percorso: il 30 agosto 2021. 19 anni e 327 giorni dopo il loro ingresso, gli Stati Uniti abbandonano l’Afghanistan. Più che un abbandono, è una vera e propria fuga dopo che i Talebani si sono fatti strada fino a Kabul molto più rapidamente del previsto, a causa della resistenza minima opposta dall’esercito regolare afghano. È un’ulteriore prova della “fine della fine della storia”, che rappresenta nella maniera più evidente possibile la conclusione di una fase storica che oltre un decennio prima aveva mostrato i primi scricchiolii. Il ritorno dei talebani è uno dei momenti clou, che dimostra una volta di più il declino della potenza materiale occidentale, ma che finisce anche per mostrare la perdita della sua egemonia culturale. Tra i vari elementi che si possono individuare, l’immaginario occidentale viene in particolar modo colpito dai “meme talebani”: veri e propri meme creati spesso proprio in Afghanistan da supporter dei talebani, avvicinando tra l’altro il cosiddetto Islamogram e il mondo della alt-right statunitense, due universi sempre più vicini e accomunati dall’interpretazione del declino dell’Occidente, dal “pericolo” legato ai diritti LGBT, all’emancipazione femminile e non solo.
Non è però contraddittorio che, a segnalare il declino anche simbolico dell’Occidente, siano strumenti di comunicazione di origine occidentale come i meme, ripresi e riadattati al contesto locale di altre culture? In Interregno questa dinamica viene infatti accomunata al pidgin, alle lingue creole che però di solito nascono dove c’è un potere coloniale in atto: “La potenza colonizzatrice infatti ce l’abbiamo ancora: per quanto in declino, abbiamo un momentum unipolare occidentale che dura da cinquecento anni. Chiaramente l’adattamento al contesto locale è figlio di quello. A segnalare davvero il nostro declino è però il fatto che queste produzioni arrivino fino a noi. Quando il controllo dell’Occidente sui mezzi di produzione culturale era saldo non ci arrivavano le cose prodotte in altri centri, adesso invece sì. Negli anni Duemila, interagivamo con il mondo non occidentale tramite la rappresentazione che ne facevano i nostri intermediari. Erano i nostri telegiornali a farci vedere Osama Bin Laden, rappresentandolo come volevano loro. Oggi invece vediamo il meme fatto direttamente dal talebano: questo è un indebolimento del potere di monopolio della produzione culturale”.
Dalla crisi finanziaria al ritorno dei talebani con tanto di meme autoctoni; dalla crisi climatica alle teorie del complotto in grado di mettere alla prova la tenuta democratica degli Stati Uniti d’America; dalla pandemia ai colpi di stato virali. Se è vero, come scriveva Marx ne Il Capitale (citato in Interregno) che “mutamenti puramenti quantitativi si risolvono a un certo punto in distinzioni qualitative” allora – conclude Mattia Salvia – “questo è esattamente ciò che è avvenuto dagli anni Dieci del XXI secolo in poi. La lenta accumulazione di contraddizioni a ogni livello – economico e politico, ecologico e sociale, tecnologico e culturale – ha finito per produrre un mutamento di qualità che ci rende incomprensibile lo stesso mondo in cui viviamo”. Al punto da non essere nemmeno in grado di accorgerci subito che la “timeline sbagliata” non è quella in cui viviamo adesso, ma era quella brevissima parentesi di serenità occidentale che ha presto iniziato a richiudersi. Facendoci ripiombare in questa spaventosa, inquietante e inafferrabile normalità.