L ’estate scorsa, nella piazza del nostro paese che conta due soli bar piuttosto brutti, di quelli con i tavoli in fòrmica e i gratta e vinci, parlavo con due amici del concetto di provincia, da una parte, ma anche in particolare della nostra (“La provincia è sempre provincia, ma da noi tutto è provincia”) e del movimento centripeto verso contesti più urbani, spesso extra-regionali, che a un certo punto coinvolge molti e molte di noi. Parlavamo – ma lo facciamo spesso – della forma che la provincia dà al proprio sentire, e il terreno che ti manca sotto i piedi se nasci in un posto in qualche misura isolato e tutte le mancanze che ne derivano.
Qualche settimana fa, invece, stavo avendo una conversazione con una donna di circa cinquant’anni, amica di un’amica, che mi chiedeva conto della mia volontà di trasferirmi a Bologna: “Mi piace qui”, le ho risposto con semplicità disarmata, “che devo farci?”. “Non dovreste venire qua”, mi ha risposto lei; “la città è peggiorata, è molto meglio la provincia” – me lo ha detto sorridendo dal centro esatto del suo soggiorno in Via Santo Stefano. È così meglio la provincia che lei non abita nemmeno in città – lei abita al centro che più centro non si può.
Ma forse, mi dico, come io sono stanca del voyeurismo esoticheggiante che si riserva ai nostri loci amoeni, lei è stanca di queste persone – tipo me – che arrivano in città in cerca di forme di vita alternative: “Sembrava che tutti fossero lì solo per provare a immaginare altre versioni di sé, e la città faceva di tutto per aiutarti”, scrive Bertram Niessen a proposito di Berlino in Abitare il vortice, ma credo che valga per tutte le città di x, y, z dimensioni. Forse entrambe, confrontandoci, facciamo l’errore di semplificare spazi vitali complessi e ridurli a quello che ci serve, a quello che da un posto si può estrarre.
Per anni ho invidiato persone così, nate e cresciute in città: le maggiori possibilità di reti sociali, la vita culturale e associativa più vivida, la dimestichezza con i mezzi di trasporto, più possibilità, più incontri, più persone – più vita, in fin dei conti, nella mia ottica. Per anni ho avuto il timore che si capisse troppo in fretta da dove venissi – troppo in fretta rispetto al poter fare una buona impressione. Dovevo sputare il rospo e allontanare velocemente l’idea che io c’entrassi qualcosa con la mia provincia profonda la quale, in alcuni protocolli relativi ai processi di deindustrializzazione, viene definita “area depressa interna degradata”. Praticamente come mi sono sentita spesso io a viverci.
La provincia è sempre provincia, ma da noi tutto è provincia.
Alle persone di città che mi dicono “Ma che bella la natura dalle tue parti! C’è la montagna, etc.”, vorrei sempre rispondere con una citazione da Le otto montagne di Paolo Cognetti: “Siete voi di città che la chiamate ‘natura’. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome”. Come scrive Filippo Barbera, parlando della ‘Bruttitalia’:
Le aree interne non sono solo borghi e il loro rilancio non passa solo dal turismo lento: sono luoghi da riabitare fin dalla vita quotidiana delle persone. Occorre, per questo, pensare al policentrismo territoriale fuori dall’estetismo che caratterizza lo sguardo del turista e abita le copertine patinate delle riviste specializzate. […] l’Italia è un paese “rugoso”, dove le aree lontane dai servizi di cittadinanza – scuole, ospedali, trasporti – sono pari al 22,5% della popolazione, al 51,7% dei comuni e al 59,8% della superficie. Diversità territoriale e policentrismo, però, che sono inghiottiti dalla semplicistica narrazione sui “borghi”. Narrazione a cui corrispondono misure come il Piano Nazionale Borghi, da cui scompaiono le reti fra comuni e gli abitanti a favore di interventi su comuni singoli (uno per regione!) con scopi di potenziamento del turismo, ovviamente lento e sostenibile.
L’Italia non è fatta né di metropoli né di borghi – nonostante ogni anno tantissime testate digitali e cartacee urlino le loro liste dei 100 borghi più belli d’Italia: no, la nostra Penisola è una ragnatela di posti brutti, desolanti e desolati. Posti intrisi di mediocritas ma non oraziana, spazi di grandezze variabili che li fanno essere a metà strada tra i borghi dalle mille-e-una Instagram opportunity e la patinata frenesia metropolitana. La Strategia nazionale per le aree interne, un’iniziativa lanciata nel 2012 dall’allora ministro alla Coesione territoriale, Fabrizio Barca, è stato un progetto politico che ha coinvolto 72 aree interne tra Nord, Sud e Isole. Quel pezzo di paese lontano dai servizi essenziali come scuola, sanità, reti di trasporto pubblico, che rimane distaccato, che della distanza si nutre ma non si alimenta. Non è un’area marginale – include oltre la metà dei comuni italiani e circa il 23% della popolazione nazionale, ovvero ben 13,5 milioni di persone – ma è marginalizzata.
Passare l’infanzia, l’adolescenza in provincia, in un’area interna, significa spesso vivere in uno stato di “nonostante”: riuscire ad appassionarsi ai libri nonostante non ci sia, in modo temporaneo o definitivo, una libreria e nonostante la biblioteca comunale non aggiorni da anni il catalogo e gli scaffali dei libri disponibili. Non ho trovato il mio paese dentro la mappa della ricerca “Book desert” (maggio 2019) di Filippo Celata dell’Università La Sapienza di Roma ma il dato empirico è questo. Oppure appassionarsi al cinema nonostante l’unica sala venga gestita da un ente religioso che pratica una censura tutto sommato light. Oppure essere minorenne e senza patente e aver voglia di muoversi verso i centri maggiormente urbanizzati nonostante ci sia una rete di trasporto pubblico tarata su un’utenza che al 90% deve usare la macchina per spostarsi. Mi rendo conto che non è in alcun modo una storia singolare, e proprio per questo direi che l’atmosfera arriva anche con poche pennellate. E sì, parlo di anni in cui le piattaforme digitali di e-commerce e produzione culturale non avevano ancora iniziato a forgiare la nostra fruizione.
L’Italia non è fatta né di metropoli né di borghi, è una ragnatela di posti brutti, desolanti e desolati
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E tutto sommato, chi in in questi posti si è a lungo scornato con diversi tipi di mancanze e chi poi ha deciso di migrare verso le città ha un vantaggio strategico non solo in termini cognitivi: conosciamo entrambe le forme di vita, perché è nel transito dall’uno all’altro posto che si può soddisfare la pretesa di verità sui luoghi. Al plurale, sì. Se si assume che la verità possa avere un andamento dialettico – nel senso adorniano e dunque negativo del termine – ma mai un punto di arrivo, allora si potrà concedere pacificamente che ci sono “cose” della città e “cose” del contesto provinciale che si afferrano facendo esperienza di entrambe (interessante che in tedesco ‘concetto’ si dica ‘Begriff’ che viene proprio da ‘afferrare’).
E se finora questo è stato solo appannaggio dei provinciali con la voglia di città, le traiettorie del post-pandemia (ma non solo) hanno ingrossato le fila di un movimento complementare e opposto: chi dalla città, per amore o per forza, se ne scappa. Questi due movimenti – noi provinciali in cerca di “città” e i cittadini in cerca di “natura” e “vita lenta” – permettono di capire profondamente le forme di vita “disponibili” nei luoghi senza cadere preda di immaginari fasulli, riuscendo a schivare un paradigma di retoricizzazione funzionalistica dei luoghi che si attraversano e quelli in cui si decide di stare. Sono anche movimenti complementari che permettono, in un’ottica di public policy, di gettare le basi per discorsi che mirino alle logiche di integrazione fra zone piuttosto che alla loro opposizione.
Forme di vita
I luoghi, dunque, non sono contenitori vuoti ma produttori, condizioni possibilitanti delle ‘forme di vita’. Prendo in prestito questo concetto dalla filosofa politica Rahel Jaeggi che nel suo Critica delle forme di vita ne dà una descrizione analitica: Il discorso sulle forme di vita, per come lo intendo io, si riferisce a forme umane di convivenza modellate dalla cultura, ‘ordini della coesistenza umana’, che comprendono un ‘insieme di pratiche e orientamenti’, ma anche le loro materializzazioni e manifestazioni istituzionali. Le differenze tra le forme di vita non si esprimono quindi solo in diverse convinzioni, atteggiamenti e orientamenti di valore, ma si manifestano e si materializzano nella moda, nell’architettura, nei sistemi giuridici e nei modi dell’organizzazione familiare.
Ma anche una sintetico-intuitiva: Ci entusiasmiamo per il ritmo frenetico della vita urbana oppure per la comodità di quella di provincia. Sosteniamo il “diritto all’ozio” oppure vediamo nel lavoro lo scopo principale della vita. E dove il capitalismo si fa troppo invadente, ad esempio quando i “valori culturali” sono subordinati al commercio, temiamo che le nostre esistenze si appiattiscano, si impoveriscano o addirittura perdano di realtà.
Le traiettorie private e singolari – chiamiamole pure ‘forme di vita’, a questo punto –, prese nel loro valore intersoggettivo dicono qualcosa sui luoghi in cui si sceglie di abitare e come si sceglie di abitarli. Sottraggo il concetto al testo originario per porre una questione sull’agibilità esistenziale: se i luoghi sono condizioni di esperienza, cosa ogni luogo permette di conoscere e di fare? Quale, quali forme di vita ogni luogo permette di avere? E, soprattutto, per conoscerle è forse necessario viverle senza poterle commentare dall’esterno?
Tanto tra studiosi quanto in seno alla società civile, da dopo la pandemia da covid-19, si parla di una nuova concezione dell’offerta esistenziale della città, si è allargato a macchia d’olio il discorso sui ritmi di vita, c’è stata una maggiore richiesta di implementazione dello strumento dello smart-working, si è assistito al fenomeno del south-working, si è intensificata l’estetica cottagecore. In parte, i significati attribuiti alla diade città/provincia sono già mutati con l’incedere della pandemia: le migrazioni lontano dalle città – Milano in primis – hanno mostrato come le priorità possano mutare anche piuttosto rapidamente.
Come gettare le basi per discorsi che mirino alle logiche di integrazione fra zone piuttosto che alla loro opposizione?
Il ricercatore e attivista Filippo Tantillo si chiede nel suo blog: “Ci sono luoghi dove l’emergenza coronavirus costituisce un bivio. Quando si sarà placata, le aree interne si imporranno come laboratorio per il futuro del Paese?”. Le zone interne degradate possono diventarlo, questo laboratorio per il futuro del Paese, grazie a un pensiero progettuale a lungo termine mirato all’acquisizione di capitale umano, simbolico, economico, in netto contrasto con la corsa ad accaparrarsi flussi turistici proponendo wine tour o folklore experience. Dall’altra parte, le città perdono mordente e vanno sotto il segno dell’indesiderabilità: i centri urbani, le megalopoli, i luoghi ad alto inurbamento sono in parte diventati invivibili, come sostiene Lucia Tozzi in un’intervista, perché mirano a diventare attrattive di e per i capitali e non accoglienti per i cittadini, non fucine di forme di vita.
In Abitare il vortice, Bertram Niessen similmente afferma che già anni fale città imprenditrici non stavano puntando a noi che giocavamo al toto Città. Nel migliore dei casi, eravamo manodopera altamente specializzata nel mercato del lavoro dell’economia della conoscenza. Una risorsa facilmente sostituibile, e che lo sarebbe divenuta sempre di più: ovunque, infatti, era pieno di nostri omologhi che sgomitavano per gli stessi posti ed erano disposti a lavorare per stipendi più bassi perché potevano permettersi di fare leva sulle rendite ereditate nei luoghi d’origine.
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L’Italia vuota/piena
L’Italia vuota. Viaggio nelle aree interne (un richiamo a La Spagna vuota di Sergio del Molino) di Filippo Tantillo è il distillato di sette viaggi che raccontano la geografia di quell’Italia che si va svuotando. Connettendo i puntini dalle valli piemontesi al cuore della Sardegna, passando per l’Appennino centrale fino a paesi sabbiosi delle coste ioniche, sotto il vulcano più grande del continente, tra i migranti del Friuli, Tantillo racconta di terre alle prese con le trasformazioni climatiche, i mutamenti dell’economia mondiale, l’impatto antropico di chi fugge, chi resta e chi torna.
Perché, sì, c’è anche chi resta, persone per le quali è stato coniato il termine ‘restanza’. C’è (anche da prima del covid-19) una nuova generazione impegnata in un’irriducibile ricerca della felicità nello stare insieme agli altri, nell’indipendenza quasi autarchica di contro a città sempre più erose dall’inflazione e dalle bolle immobiliari in cui l’unica cosa a non salire mai sono i salari – una generazione che rintraccia uno spazio di agibilità esistenziale proprio nell’Italia vuota. Posti vuoti ma non svuotati che permettono di risemantizzare delle forme di vita, posti che hanno tutta l’aria di poter innescare esperienze di comunità e prossimità.
Solo essendo “contro i borghi” e la loro romanticizzazione ci si può chiedere come ripartire per un’azione pubblica di coesione territoriale.
Come scrive Sarah Gainsforth in un articolo per Lucy che parla di Appennino tosco-emiliano:Gli spazi di socialità e cultura fuori mercato sono stati cancellati per far posto a una nuova idea di città scintillante, più costosa, e decisamente più noiosa. […] Secondo il ricercatore Andrea Chiloro, molti attivisti degli spazi sgomberati a Bologna hanno lasciato la città. ‘Alcuni si sono spostati nell’Appennino per ritrovare uno spazio di azione sociale, perché appena ti sposti fuori dalla città si respira un’aria diversa, ci sono nuove possibilità’.
Eppure la domanda (retorica) che si fa Filippo Barbera: “Ma davvero c’è qualcuno che vuole restare nelle aree interne del Paese, tanto in quelle “belle” che in quelle “brutte”? Il potere attrattivo delle città non ha – sempre e comunque – la meglio?” io me la pongo seriamente, con frequenza settimanale. È solo essendo “contro i borghi” e contro la loro romanticizzazione che ci si può chiedere francamente come ripartire per un’azione pubblica di coesione territoriale basata su un’economia per le persone-nei-luoghi. Non a caso “Contro i borghi” è il quinto titolo del percorso editoriale di ricerc-azione che lega l’editore Donzelli all’associazione “Riabitare l’Italia”, per tornare a parlare dei paesi, della Bruttitalia, dei ‘nonostante’ da cui in molti decidono di partire. Quelli brutti, quelli solo provinciali, a tratti ‘borghizzabili’ da cui veniamo in molti e molte.
Ma non solo mancanze: le problematiche legate all’isolamento sono reali ma che le condizioni materiali attuali abbiano dato una bella spinta alla rivitalizzazione delle forme di vita nelle aree interne lo conferma anche “Giovani dentro”, l’indagine realizzata dall’associazione “Riabitare l’Italia” sulla vita e sulle prospettive dei cittadini nella fascia 18-39 anni e che ha coinvolto circa 3.300 cittadini delle aree interne italiane. Il dato non scontato è che la metà dei rispondenti (52%) vorrebbe restare nel luogo in cui vive e pianificare lì la propria vita, mentre solo il 12% vorrebbe vivere e lavorare altrove e ha in programma di partire. Gli altri si dividono tra chi vorrebbe partire ma non può (21%) e tra chi invece vorrebbe restare ma si vede costretto a partire (15%). Tra le principali motivazioni a restare ci sono quelle legate, ovviamente, a come in un certo luogo si può vivere: e quindi emergono fortemente elementi come il legame con la comunità, la possibilità di contatti sociali più gratificanti e la più alta qualità della vita.
Paesaggio plurale
Ogni luogo ha un’identità e rende possibili – concretizza – delle forme di vita. Il racconto dall’esterno – e, in qualche misura, le ricette politiche che si pensa di applicare – di questi luoghi, però, è spesso poco realistico e dannoso. La difesa da questa visione puntiforme e nociva è vedere i luoghi in connessione inscindibile tra di loro. Ho cominciato a gettare i semi di queste considerazioni durante una chiacchierata con Sarah Gainsforth sul suo Abitare stanca, una chiacchierata per la quale vorrei ancora ringraziarla. Si parlava del fatto che il numero di città medie e piccole è più alto che nel resto d’Europa, e in percentuale la provincia rappresenta più del 50% della popolazione italiana. Le chiedevo, in quanto esperta, in che modo i centri urbani possono stare in relazione con le aree periferiche dismettendo una visione puntiforme di una diade indissolubile.
Il racconto dall’esterno di questi luoghi è spesso poco realistico e dannoso. La difesa è vedere i luoghi in connessione inscindibile tra di loro.
Lei mi rispondeva così: Direi che il tema che accomuna tutti gli insediamenti, dal piccolo al grande – con tutto quello che c’è in mezzo e che non viene mai visto mai come i “paesi brutti” – è la domanda fondante: “Cosa ci vuole per abitare?”, che si declina in modi diversi a seconda del posto di cui (e da cui) si sta parlando. […] Ma non ha senso opporre città e ‘borghi’, perché non ha più senso una visione limitata, puntiforme, isolata, del territorio. […] il tema dell’abitare non si può ridurre all’oggetto-casa, cioè al manufatto edilizio; i luoghi, per essere abitati e abitabili, hanno bisogno di tutta una serie di condizioni oggettive e sociali che travalicano il perimetro domestico, sia che si parli del centro storico cittadino spopolato dal turismo sia che si tratti invece di luoghi che si vedono impoverire in risorse e infrastrutture per il solo fatto di essere più periferici.
La strada è solo una e unisce Città troppo piene e aree interne troppo vuote; spazi da riempire con strategie di concentrazione-centralizzazione di infrastrutture, affiancate da fenomeni di dispersione insediativa, uso estrattivo del territorio e consumo di suolo, trainate da logiche di accumulazione finanziaria. Oppure spazi lasciati all’avanzare del bosco e al de-popolamento, dove si chiudono i servizi essenziali e prevalgono logiche di sviluppo turistico all’insegna del ‘piccolo-borghismo’
, come scrive Barbera a proposito del reportage di Tantillo.
Le forme di vita sono diverse in base a dove si risiede e, anzi, si sceglie probabilmente di risiedere in un luogo rispetto a un altro proprio per instaurare una forma di vita, volendo restare nel perimetro concettuale di Jaeggi. Ma queste forme di vita sono sempre più ibridate tra di loro. È per questo che chi ha vissuto la propria vita a cavallo tra aree eterogenee tra di loro – caratterizzate da diversi gradi di urbanità, diversa impostazione del servizio pubblico su gomma o su rotaia, diversa concentrazione di presidi culturali, diversa vicinanza a presidi ospedalieri o strutture scolastiche – sa da tempo cose di cui i cittadini in fuga dalle città, che transitano in preda ai loro desideri centripeti, si rendono conto oggi: raccontare come antipodiche ‘città’ e provincia è quanto mai falso quando si conosce solo uno dei due poli. E, a livello politico, è solo mettendo in comunicazione reale le città con i territori circostanti meno inurbati che ci saranno finalmente luoghi-per-le-persone e non il contrario.
Le forme di vita possibili sono diverse ma la verità sui luoghi si può sapere solo tenendoli insieme dentro un unico discorso per non incappare nella falsità delle immagini fisse. L’unico antidoto – tanto personale quanto collettivo – alla concezione unilaterale che vede contrapposte e non comunicanti queste sfere del vivere comune è dare spazio al procedere dialettico del pensiero, sciogliere la diade e rendersi conto, infine, che il paesaggio è solo plurale.