C ’è un posto che esiste da sempre, eppure non molti lo conoscono, perché della nazione in cui si trova è più facile ricordare città popolose e brulicanti come Madrid e Barcellona. Non è una provincia, ma una somma di regioni spopolate frutto della disomogeneità che da sempre caratterizza la demografia spagnola e che ha subito un’impennata più di sessant’anni fa quando dalle terre agricole gli spagnoli si spostarono, volenti o nolenti, nelle città in crescita.
Un saggio uscito di recente ne ricostruisce la genesi come spazio geografico, letterario e sentimentale. Si intitola La Spagna vuota – lo ha scritto Sergio del Molino (Sellerio) – e scoperchia il calderone della memoria collettiva su una condizione diventato oggetto di una rinnovata attenzione mediatica e letteraria. Per avere idea della misura del fenomeno è sufficiente ricordare che vi sono quattro comunità autonome (Aragona, Castilla La Mancha, Castilla y León ed Extremadura) in cui vivono circa sette milioni di persone su una superficie totale di 260.000 km quadrati, l’Italia intera non è molto più grande. Le quattro regioni formano una sorta di anello che circonda la densissima Madrid: si consideri che, per esempio, nella provincia di Soria – Castilla y León – vivono 9 persone per chilometro quadrato, nel comune di Madrid 5.000; La differenza tra le due zone è immediatamente percepibile e sarà apparsa evidente a chiunque si sia trovato a prendere un treno, o un autobus, diretto dalla capitale verso qualsiasi direzione – a nord, a sud, a est verso i Pirenei o a ovest verso il Portogallo –. Il paesaggio restituisce infatti il susseguirsi di terra, rocce, lecci o ulivi a perdita d’occhio, ogni tanto interrotte dalla sorpresa di qualche piccolo assembramento di case.
Il fenomeno dello spopolamento, che del Molino chiama «il grande trauma», non è diverso da quanto accaduto in altre regioni d’Europa e rimanda a quella storia comune di inurbamento e di abbandono delle campagne di cui abbiamo fatto esperienza anche in Italia. Una ventina di anni fa si sono formati tuttavia in Spagna dei movimenti che rivendicano l’appartenenza a quelle aree e protestano per richiedere lo sviluppo di servizi fondamentali che pongano fine all’esodo da quelle zone da cui ci si sposta ancora oggi per trovare lavoro, per studiare o per vivere in un centro che offra maggiori possibilità. A marzo dello scorso anno circa cinquantamila persone hanno sfilato nella capitale per richiedere un “patto di stato” che salvaguardi la vita nei territori, qualche mese dopo 20 province si sono riunite in uno sciopero silenzioso che aveva le stesse finalità. E basta buttare l’occhio a un quotidiano qualsiasi per capire quanti articoli vengono pubblicati ogni mese su questo tema: le elezioni portano alla pubblicazione di una quantità di reportage che raccontano i sentimenti alle urne di chi vota in un paese di qualche decina di persone e in questi mesi non sono mancati gli approfondimenti che cercavano di ricostruire come fosse vivere in isolamento forzato per chi in fondo è isolato da sempre.
Vanesa García è una di queste. Ha 43 anni, vive a Sotillo del Rincón ed è portavoce del movimento Soria Ya! (Soria adesso!), una delle piattaforme cittadine che chiedono a gran voce che venga data una risposta alle carenze infrastrutturali delle regioni spopolate. “Per noi la ‘Spagna vuota’ non esiste finché anche solo una persona viva in un determinato paese. Esiste semmai una Spagna svuotata perché saccheggiata degli investimenti necessari a renderla attrattiva per le imprese e per i cittadini” spiega al telefono. A 18 anni, come molti altri, è andata a vivere a Madrid dove è rimasta fino a cinque anni fa quando, dopo aver perso il lavoro, ha deciso di tornare a casa. Le ragioni economiche alla base della disomogeneità demografica si originano ancor prima nella geografia.
Si sono formati in Spagna dei movimenti che rivendicano l’appartenenza a quelle aree e protestano per richiedere lo sviluppo di servizi fondamentali che pongano fine all’esodo.
“A differenza di altre regioni d’Europa la Spagna dell’entroterra è solcata da catene montuose che rendono difficile l’accesso ad alcune zone. Questo ha impedito che si potessero formare strutture territoriali più interconnesse, magari attraverso i fiumi, altra possibilità che non esiste lì” spiega Ester Higueras, docente di urbanistica e pianificazione territoriale a la Universidad Politécnica de Madrid. Se quindi in qualche modo il paesaggio per gli europei è sempre stato “un luogo in cui camminare, ricrearsi, contemplare bei panorami” come dice del Molino nel suo saggio, alla Spagna è toccata una sorte diversa, quella di nascere “in un luogo che non è un paesaggio, ma un problema da risolvere.”
La portavoce di Soria Adesso! spiega che l’età media della provincia è di circa 60 anni e dettaglia un piano molto specifico volto a promuovere il ripopolamento: parla di discriminazione fiscale positiva (ovvero una riduzione delle tasse sul lavoro) e accenna alla richiesta, già avviata, per poter ricevere di fondi europei specifici; accenna alla ristrutturazione dell’ospedale di Soria (“ci sono 14 posti in terapia intensiva e 11 sono già pieni”, aggiunge); si lamenta del fatto che siano stati ridotti i consultori medici e che molte persone ormai abbiano in molti casi solo un numero da chiamare in caso di necessità. “In passato si è per esempio offerto la casa a un affitto ridotto alle famiglie che volessero trasferirsi in paesi spopolati per non chiudere le scuole.” Ma poi non ha funzionato, perché una volta che i figli sono diventati grandi, le famiglie si sono spostate di nuovo. L’unico momento in cui le case sono tutte abitate normalmente è in agosto, fatta eccezione per l’inverno appena trascorso quando il lockdown ha spinto chi poteva in luoghi più periferici, più tranquilli e in cui poter usufruire di un maggior spazio vitale. Come esistessero due paesi che interagiscono come vasi comunicanti: quando l’uno è pieno l’altro è vuoto e viceversa. O che forse si sono invertiti per la prima volta: a Sotillo del Rincón si va al massimo in vacanza a casa di nonna, non a lavorare in smart-working.
“La pandemia è una situazione critica che ha messo in allarme i sistemi complessi e dinamici che conformano una città. Non è la prima volta che accade. Nei secoli passati le città sono state spinte da altre pandemie, altri assedi e catastrofi, a condizioni estreme” continua la professoressa Higueras. La possibilità infatti di immaginare un futuro in cui non sia necessario spostarsi da casa per svolgere il proprio lavoro o per studiare ha sollevato infatti in questi mesi un dibattito molto nutrito in differenti paesi del mondo. E se in Spagna la pandemia viene vissuta dai movimenti come una momentanea battuta d’arresto dell’attenzione finora crescente dedicata alle loro istanze, altrove ha messo in luce alcuni degli aspetti che da tempo sembrano rendere sempre più difficile la vita nelle grandi capitali economiche che appaiono sempre più affollate, meno sostenibili e rese feroci dalla mercantilizzazione delle case. Il New York Times l’ha perfino definito un tema “angoscioso” in un articolo in cui si chiede se valga ancora la pena di vivere a New York, delineando una sorta di scontro tra “periferici” e “inurbati” impensabile fino a poco tempo fa. Così come era imprevedibile che il quotidiano economico Blomberg riconoscesse tanto valore alla possibilità di una decentralizzazione della popolazione da pubblicare un articolo dal titolo sottilmente minatorio: “State pensando di andarvene? Tornerete.”
Sebbene un “esodo al contrario” resti, almeno in Spagna, del tutto impensabile secondo Higueras – che conferma quanto sostenuto da Soria Adesso! e spiega che in quelle zone mancano posti di lavoro, formazione specializzata, spazi culturali, presidi medici, università e infrastrutture sufficienti a sostenere i bisogni dei cittadini “urbani” – il fascino della Spagna rurale non perde smalto e continua ad essere un luogo molto frequentato da scrittori e giornalisti. Se esiste infatti una possibile correlazione tra geografia umana e letteratura, il filone della narrazione che mette al centro i luoghi isolati, spopolati e periferici può essere considerato a tutti gli effetti una delle glorie nazionali. Nel suo libro del Molino ricorda come questi temi siano per esempio centrali nella produzione letteraria di Miguel Delibes o di Julio Llamazares che con il suo La pioggia gialla (1988, ultima edizione italiana Il Saggiatore, 2019), romanzo che racconta la storia dell’unico abitante di un paese che resiste da solo contro il tempo e la morte, ha ottenuto fama internazionale. Del Molino dedica anche diverse pagine a Las Hurdes, un documentario del 1933 in cui Luis Buñuel getta uno sguardo molto duro alle campagne poverissime al confine con il Portogallo; e a Surcos, un film di José Antonio Nieves Conde (1951), che racconta il dramma di una famiglia che lascia campagna in cerca di fortuna in una Madrid che si rivela gelida e inospitale. A dimostrazione di come in tempi e in epoche diverse la sensibilità verso la Spagna vuota abbia cambiato tono, colore e ideologia di riferimento senza aver smesso di essere humus di produzione letteraria.
In epoche diverse la sensibilità verso la Spagna vuota ha cambiato tono, colore e ideologia di riferimento senza smettere di essere humus di produzione letteraria.
Secondo del Molino fa parte di questo filone anche La tierra desnuda (La terra nuda, 2019) di Rafael Navarro de Castro, che racconta la storia di Blas, un uomo che vive in un paese dell’entroterra che non esiste più, e anche In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas (Guanda, 2019), che nel suo raccontare le generazioni rimanda in qualche modo al “grande trauma”. A questi si potrebbe forse aggiungere anche Gli schifosi di Santiago Lorenzo (Blackie edizioni, 2020) che non ci porta indietro nel tempo ma racconta la storia di un ragazzo che, costretto a nascondersi in un paese abbandonato, scopre che in fondo può fare a meno di ciò che offre la città.
E ben vedere non c’è solo il caso di chi decide di tornare per ragioni di necessità, ma chi si sposta in zone molto poco popolate senza averci mai vissuto prima. Da qualche mese il regista franco-spagnolo Oliver Laxe, pluripremiato a Cannes, è diventato l’unico abitante di Vilela in Galizia, il villaggio da cui emigrò la sua famiglia. La zona ha una densità di popolazione di circa 36 persone per km quadrato e l’obiettivo del regista è creare un centro di sviluppo rurale incentrato nelle professioni tradizionali. “Vivo in un posto paradisiaco”, ha dichiarato in un’intervista, “e se sono il solo a farlo significa che qualcosa sta andando per il verso storto. Se ci pensi, non è logico.”
Le cose che stanno andando per il verso storto sembrano essere molte negli ultimi tempi e probabilmente il “vuoto”, così ben rappresentato dalla Spagna dell’entroterra e dalle narrazioni che vi cercano in qualche modo un’innocenza perduta, interroga il “pieno” messo in discussione da un’emergenza senza precedenti. In questo senso, del Molino appare illuminante quando, nel descrivere la categoria di artisti che decide di isolarsi per continuare a produrre in un sistema globalizzato, scrive: “Alla domanda che ogni creatore si pone di fronte alla propria identità, le città di oggi offrono spazi che replicano dappertutto la stessa immagine. [Gli artisti] ‘vecchigiovani’ infrangono questi specchi e li trasformano in finestre aperte sul paese vuoto, perché è lì che sperano di trovare una rivelazione, qualcosa di intimo e significativo, forse minuscolo, ma unico e personale.”
Un salto ulteriore che dalla geografia di terre solcate dalle catene montuose, diventata origine di un particolare sistema demografico ed economico, finisce per interrogare la dimensione della vita interiore. D’altra parte del Molino è il primo a sostenere che la Spagna vuota sia sempre esistita senza esistere davvero. Perché è possibile che alla fine di questi mesi complicati si trovi un modo per organizzare il nostro vivere comune in maniera differente, che l’idea di periferico e centrale cambino definitivamente. Ma se anche così non fosse la Spagna vuota resterà sempre lì con la sua terra dura e le sue lotte per esistere. Un luogo semplice in cui la solitudine non è un’imposizione bensì una condizione. Un posto di cui si sente la mancanza senza averci mai vissuto.