È uscito da pochi giorni il saggio La scoperta di Cosa nostra. La svolta di Valachi, i Kennedy e il primo pool antimafia (Chiarelettere). Il lavoro di ricerca, realizzato negli Stati Uniti, ricostruisce l’evoluzione di Cosa nostra tra le due sponde dell’Atlantico con due protagonisti: il collaboratore di giustizia Joe Valachi, il primo a fare il nome dell’organizzazione mafiosa, e il ministro della Giustizia statunitense dal 1961 al 1964 Robert Francis Kennedy che in quegli anni concepì il primo programma organico di contrasto alla criminalità organizzata. Le sue intuizioni e azioni ebbero riflessi importanti in Italia, a cominciare dalla definizione dell’associazione per delinquere di stampo mafioso. Pubblichiamo un estratto dal libro che racconta l’impegno su questo fronte del giudice Cesare Terranova a Palermo.
“La caratteristica di questi processi, come di tutti i processi mafiosi, è che non vi è mai una dichiarazione, non vi è mai nulla di positivo, di certo. La difficoltà del nostro lavoro consiste appunto nel distinguere, attraverso le ombre, le apparenze, ciò che vi è di solido e di consistente da ciò che è incorporeo”. Il 22 aprile 1964, pochi mesi dopo le deposizioni pubbliche di Valachi, Cesare Terranova, giudice istruttore del Tribunale di Palermo dal gennaio del 1959, spiegò con queste parole chiare l’estensione del problema in sede giudiziaria.
Come il magistrato Vigneri, anche Terranova istruì a Palermo procedimenti complessi per associazione a delinquere soprattutto di natura mafiosa, durante i quali dimostrò estrema meticolosità nella raccolta delle prove, seppure fosse costretto ad affidarsi a modelli di indagine e strumenti ancora antiquati. Nello stesso arco temporale in cui Robert Kennedy attuò negli Stati Uniti il primo programma organico di contrasto alla criminalità organizzata, in Sicilia Terranova sfidò, in anticipo sulla storia, il potere militare e la crescita esponenziale delle famiglie mafiose di Corleone. In tribunale parlò del pericolo costituito dal gruppo guidato da Liggio, nel quale erano in ascesa criminali che hanno segnato la vita della Repubblica italiana, come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
Dal 1960 al 1964 Terranova redasse 931 sentenze penali istruttorie, alle quali aggiunse le 293 del biennio 1965-1966. Particolarmente corpose furono quelle contro Angelo La Barbera+41, Pietro Torretta+120 e Luciano Liggio+114. Fece processare e condannare all’ergastolo quest’ultimo, latitante fino al 1974, per associazione a delinquere e per l’assassinio di Michele Navarra, così come La Barbera, Torretta e i latitanti Buscetta e Salvatore Greco.
Terranova dichiarò a Il Giornale di Sicilia: “Paura? No. Nella peggiore delle ipotesi mi possono ammazzare. Sì, lo so che Liggio ce l’ha con me. È una vecchia storia: risale al tempo in cui lo feci arrestare. Lui mi ritiene responsabile esclusivo della sua fine. E in effetti è così”.
La Commissione sul fenomeno della mafia in Sicilia
Nel settembre del 1963 Kennedy, avvalendosi della collaborazione di Valachi, aveva dimostrato dinanzi alla Commissione McClellan l’esistenza di Cosa nostra e il grado d’influenza del crimine organizzato nella società americana. Sette mesi dopo, Terranova, in solitario, fece lo stesso in Italia, nel corso di una fondamentale audizione presso la Commissione d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. Esattamente come il procuratore generale americano, il giudice istruttore italiano cominciò con il dire che “l’entità del fenomeno è notevole”.
Nei rispettivi interventi entrambi evidenziano la caratterizzazione e la specificità di tale associazione per delinquere, che appare come “una forza corrosiva e disgregatrice delle istituzioni, un vero potere occulto in antagonismo con quello dello Stato, un vero e proprio cancro sociale, le cui profonde infiltrazioni nei più diversi settori della vita pubblica ed economica sono solo in minima parte documentate dalle risultanze processuali”. Allo stesso modo, entrambi si trovano davanti alla difficoltà di riconoscere la mafia come organizzazione strutturata e di reggere alla prova dei procedimenti in tribunale. Nelle sentenze, Terranova la definisce una criminalità organizzata, articolata in famiglie o meglio ancora cosche, e sottolinea l’unitarietà della mafia, né vecchia né giovane, in quanto associazione delinquenziale.
“La mafia a Palermo si occupa anche della vendita dei fiori” asserì Terranova, per poi descrivere le fonti di arricchimento illecito, indicando nel traffico di stupefacenti e nelle estorsioni le più fruttuose. Illustrò gli interessi mafiosi nel reinvestire il ricavato in speculazioni industriali e commerciali, specificando come l’edilizia fosse il settore che attirava i maggiori interessi per l’investimento del denaro sporco. Infine ribadì il suo rifiuto della concezione culturalista della mafia: “Non bisogna ricadere nel vecchio errore di adombrare una concezione razzista della mafia, quasicché la mafia esista in Sicilia perché esistono i siciliani”.
Sollecitato da Girolamo Li Causi, segretario del Pci siciliano e vicepresidente della commissione d’inchiesta, Terranova affrontò senza indugi il nodo del rapporto tra mafia e politica: “Non c’è dubbio che il mafioso è portato ad appoggiarsi al politico; anzi una delle forze del mafioso consiste in questo appoggiarsi al potere costituito”. Nella sua ottica, per dare un apporto concreto alla lotta contro la mafia, era indispensabile ripristinare la fiducia nelle istituzioni, cominciando dall’allontanamento dai posti di potere di coloro che erano stati in qualche misura compromessi o invischiati con essa. Anche l’omertà dipendeva in larga parte dalla compromissione delle istituzioni pubbliche: “Da che cosa deriva l’omertà? Forse ci saranno anche delle spiegazioni etiche, storiche, ambientali, ma molto incide la scarsa fiducia che il cittadino ha dei pubblici poteri”
Se Kennedy considerò la collaborazione e il coordinamento tra le agenzie investigative un cardine dell’attività antimafia, Terranova segnalò ai parlamentari le carenze e i ritardi italiani:
Purtroppo da noi le polizie – questo è un fatto notorio – agiscono indipendentemente l’una dall’altra: Carabinieri, Finanza, Pubblica sicurezza. Non c’è un organo superiore che le coordina e questo, naturalmente, procura tanti inconvenienti. La collaborazione dipende spesso dai rapporti personali tra i dirigenti locali e dai rapporti che si creano con l’Autorità giudiziaria, la quale nominalmente dirige la Polizia giudiziaria.
Il giudice intuì quanto nella strategia di repressione del contagio mafioso fosse necessario colpire le ricchezze accumulate dai boss:
Il sistema più efficace per stroncare o, quanto meno, per scoraggiare concretamente le attività delinquenziali delle organizzazioni criminose e in particolare delle associazioni di tipo mafioso è, indubbiamente, quello di colpire i patrimoni del delitto mediante il sequestro e la confisca dei beni di illecita provenienza.
Il compimento del dovere fino al sacrificio
Terranova era un intellettuale borghese in rivolta contro la concezione clientelare e mafiosa del potere, alla quale non si rassegnava. Dopo la partecipazione alla guerra e gli studi in Giurisprudenza, prese le funzioni giudiziarie, era stato destinato alla Pretura di Messina. Alle elezioni del 7 maggio 1972, dopo la richiesta di collocamento in aspettativa dalla magistratura per mandato parlamentare, su invito di Emanuele Macaluso si era candidato ed era stato eletto come indipendente di sinistra nelle liste del Pci.
In un’intervista a L’Ora, sette mesi dopo la sua elezione, aveva esternato il disincanto verso l’esperienza parlamentare:
Il primo contatto con il Parlamento fu per me molto deludente. Avevo la sgradevole sensazione dell’inutilità. Un’impressione iniziale deludente che si prolunga sulla Commissione. (…) Mi aspettavo un ritmo di lavoro piuttosto serrato, sollecito. Penso che questa commissione funziona da ben nove anni, ma non può dirsi che abbia se non in piccola parte corrisposto all’attesa dei cittadini. Si procede in modo dispersivo.
Anni dopo, questa insoddisfazione si sarebbe concretizzata nel voto contrario di Terranova alla relazione della Commissione d’inchiesta sul fenomeno della mafia. La critica sostanziale, mossa ai lavori in sede parlamentare, consisteva nel non aver adeguatamente trattato la compenetrazione tra il sistema di potere mafioso e l’apparato statuale-politico: “Certi nodi, certi confusi e loschi grovigli, certi rapporti sono stati appena sfiorati dalla Commissione, pur rappresentando l’essenza della mafia, l’elemento fondamentale che vale a differenziare la mafia da ogni altro tipo di delinquenza associata”.
Terranova stimava l’acutezza delle analisi e delle indagini di Giorgio Boris Giuliano, capo della Squadra mobile palermitana, che erano giunte fin dentro le banche. Giuliano aveva chiesto di essere trasferito a Palermo, indignato dall’efferatezza della strage di Ciaculli del 1963, in cui avevano perso la vita sette membri delle forze dell’ordine. Specializzatosi all’Accademia dell’Fbi a Quantico, aveva esperienza internazionale. Aveva mappato il territorio attraverso i pedinamenti estenuanti dei suoi uomini sulla strada senza ausili tecnologici, creato un vasto archivio per schedare le famiglie mafiose e risalire ad alleanze e ostilità. Si era messo in testa di risolvere i casi Mario Francese e Mauro De Mauro. Era stato freddato il 21 luglio 1979, dieci giorni dopo l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca privata italiana, finita in dissesto nelle mani di Michele Sindona. Quell’anno tragico e spartiacque si era aperto con gli omicidi proprio del giornalista Francese e del segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina. Usando le parole di Leonardo Sciascia, l’assassinio di Boris Giuliano aveva marcato una svolta: il vantaggio per la mafia della sua eliminazione era più forte del rumore suscitato da un delitto eccellente, poiché lasciava un vuoto incolmabile. A proposito della loro fine Sciascia scrisse:
Questa catena di delitti nasce dal fatto che la caduta dello spirito pubblico investe le istituzioni, quando da esse non diparte, a tal punto che fra gli individui preposti a sorreggerle, che scelgono di sorreggerle, coloro che inflessibilmente e fino in fondo vogliono compiere il loro dovere restano come segnati, segnalati, come isolati.
Dopo il secondo mandato parlamentare, Terranova decise di non ricandidarsi alle elezioni politiche del giugno 1979, chiedendo di tornare in magistratura e in prima linea sul fronte palermitano. Fu ucciso il 25 settembre 1979, una volta lasciato il Parlamento, prima che potesse indossare di nuovo la toga all’Ufficio istruzione. Il 10 luglio il Csm lo aveva nominato consigliere di Corte d’appello a Palermo. Il suo fu un vero e proprio omicidio preventivo, di modo che non riversasse sulle indagini l’imponente conoscenza del fenomeno mafioso da lui maturata.
Sciascia si soffermò su questo aspetto del delitto Terranova:
Fu assassinato prima che tornasse al suo ufficio di magistrato: nella certezza che a Palermo, nell’amministrazione della giustizia, vi sarebbe stato un nemico accorto e implacabile della mafia; e, per di più, un nemico che aveva acquisito una visione del fenomeno in tutta la sua complessità, in ogni sua diramazione.
Per poi restituire la statura e l’equilibrio del giudice, nonché il sentimento più forte che lo animava, la compassione: “E molti giudici si possono ricordare duri a misura di giustizia, ma pochissimi credo siano capaci di patire con quei che patiscono”.
L’unica forma di protezione garantita a un uomo esposto alla minaccia mafiosa, qual era Terranova, era stato l’autista e scorta, nonché amico fidato, Lenin Mancuso, che fu ucciso con lui nell’agguato nel centro di Palermo. In un’intervista a Il Diario, pubblicata due giorni prima, Terranova aveva indicato la nuova linea intrapresa dal crimine organizzato: “La più grossa connotazione che io darei alla mafia oggi è quella degli appalti. L’appalto delle grandi opere pubbliche e quanto c’è dietro. L’argomento più interessante destinato a svilupparsi negli anni futuri”.
Il presidente della Repubblica Sandro Pertini, in una lettera indirizzata al Csm, descrisse Terranova come un incorruttibile servitore dello Stato repubblicano. Ed evidenziò un passaggio, confermato dolorosamente dal tempo e dagli eventi: “Queste vite di assoluta dedizione al dovere sono pienamente conosciute e comprese dal nostro popolo solo nel momento del sacrificio”.
Estratto da La scoperta di Cosa nostra di Gabriele Santoro (Chiarelettere, 2020).