P ochi giorni prima dello scorso Natale, Xi Jinping ha visitato Macao per celebrare il ventesimo anniversario del passaggio di sovranità della città dal Portogallo alla Cina. Per l’occasione, il premier cinese ha tenuto un lungo discorso sul passato, sul presente e soprattutto sul futuro di Macao: un resoconto, nel complesso positivo, dei primi vent’anni dell’ex colonia portoghese sotto il diretto controllo da parte di Pechino. Nel corso del suo discorso, ha indicato Macao quale modello esemplare e vincente della soluzione “uno stato, due sistemi”. Un riferimento niente affatto velato alla vicina Hong Kong, la quale invece sta attraversando mesi di tumulti politici per via della contestata legge sull’estradizione.
Se i primi mesi del 2020, con la pandemia in corso e le misure di lockdown, sembravano aver temporaneamente sopito (ma non spento) le proteste, l’introduzione da parte del governo cinese di una nuova legge per la sicurezza nazionale su Hong Kong ha riacceso il focolaio del dissenso. La proposta di legge, spinta proprio in reazione alle proteste che hanno scosso la città nel corso degli ultimi tempi, consentirebbe al governo centrale d’intervenire nella città bypassando le autorità locali e, soprattutto, la legislazione, attraverso l’istituzione di agenzie per la sicurezza all’interno del territorio di Hong Kong. Poiché gli ambiti d’intervento andrebbero dalla repressione dei moti di secessione, sedizione o interferenza straniera, molti hongkonghesi ritengono che se messa in atto costituirebbe la pietra tombale su ciò che resta dell’autonomia politica della città, nonché l’ennesimo tradimento del sistema “uno stato, due sistemi” che la Cina ha promesso di rispettare quando l’ex colonia britannica è stata annessa nel 1997. Le nuove proteste hanno già provocato centinaia di arresti, nonché la reazione di condanna da parte della comunità internazionale. Rimostranze rigettate dal Ministro degli Esteri cinese Wang Yi, che ha ribadito che Hong Kong è una faccenda esclusivamente interna e che non verrà tollerata alcuna ingerenza da parte di paesi stranieri. L’attuale capo esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, si è già espressa a favore della proposta di legge affermando che l’impatto sulla cittadinanza sarà positivo e che non verranno intaccate le libertà della città. Al contempo, il comandante dell’esercito cinese di stanza ad Hong Kong, forte di circa diecimila uomini, Chen Diaoxang, ha dichiarato che i soldati s’impegneranno“con determinazione” a far rispettare la legge sulla sicurezza ad Hong Kong.
Macao, invece, restando fedele a Pechino, sembra che potrà godere di importanti vantaggi da parte della madrepatria. In particolare, Xi Jinping ha promesso importanti investimenti da parte del governo per consentire alla città di diversificare la propria economia. Si tratta di una questione che sta molto a cuore ai cittadini di Macao, sebbene la loro città vanti un Prodotto Interno Lordo tra i più alti del mondo. L’economia di Macao, rappresentando l’unico luogo in Cina in cui esso è consentito, si regge infatti quasi interamente sul gioco d’azzardo. L’enorme ricchezza conferita dall’avere questo monopolio in un mercato da quasi un miliardo e mezzo di persone è comunque considerata fragile dai cittadini. Timori che sembrano fondati visto che, proprio in questo momento, per via della pandemia di COVID-19, il flusso di giocatori cinesi verso Macao si è praticamente arrestato.
Xi Jinping ha promesso importanti investimenti da parte del governo per consentire alla città di diversificare la propria economia che si regge oggi quasi interamente sul gioco d’azzardo.
Xi Jinping ha sottolineato che il sistema “uno stato, due sistemi” funziona se si parte dal principio che di “stato” non può che essercene uno solo. L’enfasi sul concetto di unicità dello stato può essere interpretato come un messaggio rivolto non solo ad Hong Kong, ma anche a Taiwan. Armonia verso un sistema di governo centrale in cambio della prosperità, la Cina mostra Macao all’opinione pubblica dell’isola “ribelle” in maniera simile a come gli Stati Uniti mostravano Berlino Ovest di fronte all’intero blocco orientale: una vetrina di un modello che Pechino considera vincente, con buona pace dei manifestanti di Hong Kong.
Vicine geograficamente, lontane politicamente
Diversi analisti internazionali e giornalisti si sono posti la domanda sul perché mentre una buona parte della popolazione di Hong Kong sia in stato di agitazione permanente, Macao nei suoi primi vent’anni di dominio cinese si sia mostrata una delle province più fedeli al governo centrale. Nel corso degli ultimi anni il governo di Macao ha approvato tutta quella serie di misure per le quali a Hong Kong si è manifestato ferocemente. La pubblicazione di libri di testo approvati dal governo centrale non ha causato polemiche come ad Hong Kong, così come non l’ha fatto la legge che criminalizza la “sovversione” contro il governo cinese, respinta ad Hong Kong a seguito di numerose proteste durante i primi anni del Duemila. Nonostante tra le due città, posizionate rispettivamente sulle due estremità del Golfo delle Perle, vi siano poco più di 60 chilometri e due ore di traghetto, Macao non ha avuto nessun effetto “contagio” da parte della vicina Hong Kong, salvo qualche sporadico arresto di cittadini macaensi da parte delle autorità cittadine. Al contempo, le autorità di Macao hanno impedito a diversi attivisti e giornalisti hongkonghesi di entrare nel proprio territorio durante la visita di Xi Jinping.
La Cina mostra Macao come vetrina di un modello che considera vincente, con buona pace dei manifestanti di Hong Kong.
Verrebbe quasi da domandarsi se sia ancora opportuno parlare di Macao come secondo “sistema”, con un governo locale così fedele alle direttive di Pechino e una cittadinanza a sua volta mite di fronte alla volontà del governo centrale. A spiegazione della situazione macaense si è fatto notare il peso demografico (quasi metà dei residenti a Macao proviene dalla Cina “continentale”) e l’idea che a Macao, a differenza di Hong Kong, manchi sostanzialmente un’identità distinta rispetto a quella cinese. Il concetto di una Macao solo formalmente distinta dal resto della Cina probabilmente è dovuto proprio all’immaginario fornito dalla vicina Hong Kong: è vero che la gran parte dei macaensi si definisce cinese, mentre ad Hong Kong la gran parte della popolazione si sente prima parte della città e poi, eventualmente, parte della Cina. Ciò nonostante è semplicistico ridurre le differenze di reazione di vent’anni di governo cinese nelle due città a un confronto “diversità contro omologazione”.
Macao conserva infatti diversi tratti che la rendono unica rispetto al resto della Cina. Gran parte del sistema giudiziario locale è ancora basato dal corpus di leggi portoghese. Esiste una piccola, ma molto attiva dal punto di vista culturale e economico, minoranza di origine portoghese e di altri stati lusofoni. L’impronta culturale lasciata dal Portogallo, nonostante i repentini mutamenti economici (come appunto il boom del gioco d’azzardo) e demografici, si conserva ancora nella città. Lo stesso governo cinese intende puntare proprio sulle caratteristiche peculiari del retaggio storico di Macao. Tra le strategie messe a punto dal governo cinese per la diversificazione dell’economia cittadina, spicca la volontà di rendere Macao un hub commerciale e culturale di riferimento per tutti i paesi della lusofonia, consolidando e rafforzando rapporti storici tra la città e paesi quali il Brasile, il Mozambico, l’Angola e, naturalmente, il Portogallo.
Per i cittadini di Macao il passato coloniale e il lascito culturale portoghese sembrano non essere assolutamente in conflitto con la volontà di definirsi cinesi. Dal punto di vista di Macao, nell’eterogeneo alveo cinese c’è assolutamente posto per una città che per secoli è stata la finestra verso l’oriente di una vecchia potenza coloniale europea. Anche a Macao c’è un sentimento di “saudade”, ma la nostalgia verso il passato non sembra travalicare nell’insurrezione politica. Il senso d’identità dei macaensi è senza dubbio di natura meno conflittuale rispetto a quello degli hongkonghesi, che invece guardano all’indipendenza di Singapore quale modello di riferimento. Per analizzare quanto questo aspetto incida sui differenti climi politici è innanzitutto doveroso fare un excursus sulle rispettive storie delle due città e sul modo in cui i rispettivi percorsi ne hanno plasmato l’anima.
Un malinteso vecchio di secoli
Macao e Hong Kong sono due città situate una a fianco all’altro all’imbocco del Golfo delle Perle, entrambe hanno avuto una funzione prettamente commerciale ed entrambe sono state colonie europee restituite alla Cina alla fine del XX Secolo. Nonostante queste caratteristiche di base, le due città hanno ben poco da spartire dal punto di vista storico. Hong Kong è nata a seguito delle disastrose guerre tra la Dinastia Qing e l’impero britannico nel corso del XIX Secolo. Cedere una porzione di territorio, sebbene piccolo, a una nazione straniera è un’onta che solo una Cina in profonda crisi poteva accettare. Un periodo, quello delle cessioni di territorio e delle concessioni extraterritoriali, che costituisce ancora oggi una profonda ferita all’interno della società cinese, che per millenni è vissuta nella convinzione di rappresentare il fulcro dell’intera civiltà umana.
Per i cittadini di Macao il passato coloniale e il lascito culturale portoghese sembrano non essere assolutamente in conflitto con la volontà di definirsi cinesi.
Macao, invece, ha origini molto più antiche di Hong Kong. L’avamposto è stato infatti fondato dai portoghesi a metà del XVI Secolo, durante la fase di grandi esplorazioni commerciali e militari che resero il piccolo paese iberico un attore importante nell’Oceano Indiano e nelle Americhe almeno per un paio di secoli. In quell’epoca, la Cina era dominata dalla dinastia Ming. Sebbene avesse già dato inizio a quel lungo periodo d’isolamento che contribuì, secoli dopo, al confronto disastroso con le potenze europee, all’epoca l’Impero Cinese era senza alcun dubbio la più grande potenza mondiale sotto pressoché ogni aspetto si possa prendere in considerazione. Come è stato quindi possibile per i portoghesi fondare una colonia e sfidare un tale colosso? Semplicemente, non lo fecero. Ciò che rese possibile la nascita e lo sviluppo di Macao fu il fatto che, dal punto di vista cinese, l’insediamento non era altro che una concessione commerciale, un affitto di un piccolo fazzoletto di terra considerato insignificante. Macao, pertanto, non nacque come colonia nell’accezione che oggi siamo soliti dare a questo termine, in quanto per i primi secoli di storia la città è stata frutto di un’incomprensione tra la Cina e il Portogallo. Per i cinesi, Macao costituiva un porticciolo gestito da stranieri utile a tenere al di fuori seccature; non era tuttavia assolutamente in discussione il fatto che fosse comunque territorio imperiale. Soltanto nel 1887, nel pieno della profonda crisi cinese e del proliferare delle ingerenze straniere, Lisbona ottenne finalmente da Pechino il riconoscimento di Macao quale possesso portoghese a tutti gli effetti.
Anche l’ultimo secolo, sebbene fossero entrambe pienamente riconosciute quali colonie, ha visto Macao e Hong Kong prendere direzioni storiche ben specifiche. La ragione sta innanzitutto nella diversa natura dei rispettivi imperi coloniali. Hong Kong ha giocato un ruolo importante nei piani di consolidamento dell’impero britannico nel momento della sua massima espansione, e Londra aveva tutte le capacità per garantire nei confronti di Pechino l’effettiva sovranità sulla colonia, che anzi vide diverse ulteriori espansioni territoriali nella prima fase del XX Secolo. Furono i giapponesi i primi a mettere in discussione la presa britannica su Hong Kong occupandola durante la Seconda Guerra Mondiale. Nella seconda metà del XX Secolo, nonostante l’impero britannico fosse in fase di smantellamento, il Regno Unito si è impegnato per garantirsi la sovranità su Hong Kong, fino agli anni Ottanta. Non per niente, diversi storici considerano la cessione di Hong Kong alla Cina l’ultima tappa della storia coloniale del Regno Unito.
Il Portogallo, invece, nel XX Secolo aveva da tempo perso la sua proiezione a livello globale, relegato come era a una posizione di nazione di secondaria importanza anche in Europa. Durante la dittatura di Salazar, ci fu un ultimo tentativo di conservare i territori coloniali rimasti in Africa e in Asia, tra cui Macao, trasformandoli in “province oltremare”, Un’integrazione politica di facciata pensata per ripararsi dagli effetti della decolonizzazione, con scarsi risultati. Per Macao, il punto di svolta fu nel 1966, durante la Rivoluzione Culturale Cinese. L’incapacità da parte di Lisbona di far fronte ai moti interni a Macao ha consentito a Pechino di assumere sempre più il controllo de facto della città rendendo il passaggio di consegne effettivo, nel 1999, poco più che una formalità; in diverse occasioni, come nel 1974 a seguito della Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, è stata la Cina stessa a rifiutare la cessione immediata di Macao da parte del Portogallo. L’anomalia di Macao ha fatto sì che la città mutasse le proprie caratteristiche per poter sopravvivere. All’interno di queste sue fasi, l’elemento della sovranità cinese è sempre rimasto come un sottinteso messo in discussione da parte del Portogallo per poco meno di un secolo rispetto ai quasi 600 anni di storia complessiva della città. Probabilmente è per questa ragione che il lascito portoghese è stato di natura più culturale, che politica.
Una scommessa vinta
A contribuire ulteriormente ai rispettivi sentimenti verso Pechino da parte di hongkonghesi e macanensi pesano gli ultimi vent’anni di storia sotto il controllo diretto da parte della Cina. Per Hong Kong, una delle “tigri asiatiche” nelle ultime decadi del XX Secolo, i primi vent’anni di dominio cinese sono stati, dal punto di vista economico, decisamente meno esaltanti. Nel complesso il PIL della città è cresciuto, e Hong Kong continua a essere il principale hub finanziario del paese nonostante la poderosa ascesa di Shanghai. Tuttavia negli ultimi anni la città ha visto un incremento della disoccupazione, soprattutto giovanile, nonché una diminuzione dei ritmi di crescita, legati al rallentamento della corsa cinese.
Macao non nacque come colonia nell’accezione che oggi siamo soliti dare a questo termine.
Le proteste politiche dell’ultimo anno hanno portato persino a una seppur contenuta recessione, un precedente che non si ripeteva dal 2008, durante la crisi finanziaria globale. Sebbene le proteste siano legate strettamente alle libertà politiche, anche l’economia indirettamente contribuisce a rendere alta la tensione. Storicamente la forza economica di Hong Kong deriva da un’ampia libertà economica, che ha consentito alla città di diventare un hub prima manifatturiero e oggi finanziario, nonché uno dei porti più trafficati al mondo. Questo vantaggio oggi sembra venir messo in discussione dalla crescente stretta cinese sulla città. Con la paura che un giorno, inesorabilmente, la città venga surclassata da Shanghai quale centro finanziario di punta per la Cina, così come da altre città costiere in ascesa sotto il profilo manifatturiero e commerciale, la sensazione dominante tra gli hongkonghesi è che la città si possa in futuro trovare inesorabilmente travolta dal resto della madrepatria, perdendo così tutto ciò che oggi la rende ricca e potente. In questo mix di delusioni presenti e ansie per il futuro, è prevedibile che molti cittadini di Hong Kong guardino a soluzioni di rottura come Singapore, scendendo in piazza e giocandosi il tutto per tutto con la sicurezza di non avere, in fondo, molto da perdere.
Le vicende di Macao, una volta tornata alla Cina, non possono essere più diverse rispetto a quelle di Hong Kong. Macao da tempo viveva in uno stato di profonda stagnazione economica. Tra le ragioni c’era proprio l’impossibilità da un secolo a questa parte di competere proprio con Hong Kong. La città aveva così seguito il declino dell’economia portoghese. Essa era diventata tanto marginale rispetto ai traffici commerciali globale che nella prima fase del XX Secolo, nel momento storico probabilmente di maggiore crisi per l’economia macaense, l’attività principale di Macao era tornata ad essere la pesca, esattamente come accadeva prima dell’arrivo dei portoghesi.
L’intervento del governo centrale cinese ha costituito una svolta, con la decisione di trasformare la città nell’unico centro dell’intero paese in cui il gioco d’azzardo è legale. Negli ultimi decenni di dominio portoghese l’industria del gioco aveva già cominciato a svilupparsi a Macao, diventandone il settore economico dominante. La decisione da parte del governo cinese di sfruttare l’industria già esistente per soddisfare le esigenze di una classe benestante in ascesa, composta da centinaia di milioni di persone, ha consentito a Macao di diventare la più importante meta per il gioco d’azzardo nel mondo, superando con ampio margine Las Vegas (complici anche la modesta estensione, Macao ha puntato a un’industria riservata a turisti particolarmente ricchi). L’apertura di Pechino a investimenti da parte di operatori internazionali del settore, ha contribuito all’esplosione dell’industria del gioco, spingendo la città verso altissimi tassi di crescita. Oggi Macao vanta uno dei PIL pro capite più alti del mondo, superiore quasi del doppio a quello di Hong Kong.
Si tratta di un risultato straordinario dettato da una situazione altrettanto straordinaria concessa da Pechino. Una tale ricchezza sarebbe stata impossibile anche solo da pensare sotto il dominio del piccolo Portogallo. Questa consapevolezza fa sì che i macaensi siano consapevoli di quanto il loro destino sia indissolubilmente legato al resto della Cina, fattore che spiega la sostanziale assenza di movimenti autonomisti o indipendentisti, molto forti invece nella vicina Hong Kong. A differenza di quest’ultima, in pochi a Macao guardano con invidia al modello Singapore. Nel corso degli ultimi anni l’apporto dell’industria del gioco d’azzardo è in leggero calo, e sta emergendo l’esigenza di diversificare un’economia altrimenti troppo esposta alle fluttuazioni di un solo settore. Anche sotto questo aspetto, i macanensi confidano molto nell’apporto del governo centrale, se non altro per la consapevolezza di non poterlo fare autonomamente.
La sensazione dominante tra gli hongkonghesi è che la città sia travolta dal resto della madrepatria, perdendo tutto ciò che oggi la rende ricca e potente.
Macao al momento ha meno di un milione di abitanti stipati in meno di 30 chilometri quadrati interamente urbanizzati e senza la minima traccia di risorse naturali. Numeri molto diversi rispetto ai quasi otto milioni di abitanti di Hong Kong e al migliaio di chilometri quadrati di superficie della rispettiva regione amministrativa speciale. Già partendo da questi numeri basilari, può emergere come per Macao possa essere difficile immaginarsi realisticamente qual novella “città stato” del XXI Secolo. Diversi politologi, infatti, ipotizzano l’ascesa di città globali, alcune declinate come vere e propri stati indipendenti, altre come zone con più o meno autonomia rispetto a un governo centrale, che saranno sempre più in grado di dettare un’agenda politica distinta e autonoma, in quanto più adatte rispetto ai vecchi stati nazionali alla governance interna ed estera. Se naturalmente Hong Kong appare una delle candidate più papabili per assurgere a questo ruolo, Macao non sembra avere le caratteristiche necessarie, rischiando piuttosto di ritrovarsi nell’orbita d’influenza della vicina Hong Kong.
Tutta questa serie di fattori inesorabilmente smorzano ogni possibile conflittualità tra macanensi e la madrepatria nel processo d’integrazione messo in atto dalla Cina. Ciò nonostante, è fuorviante pensare che a Macao siano completamente assenti movimenti di opposizione all’autocrazia cinese e che lottano per conservare l’autonomia democratica della città. Tuttavia, a differenza di Hong Kong, si muovono in una direzione di riforma all’interno del sistema politico dettato dalla Cina. I movimenti a favore della democrazia di Macao potranno senza dubbio giocare un ruolo importante nella democratizzazione del paese, ed è proprio per questo che perseguono obiettivi tanto diversi rispetto ai loro corrispettivi di Hong Kong, dove la lotta per la democrazia procede di pari passo con la spinta separatista.
Un’autorità cercata
Storicamente per il governo centrale cinese, e ciò non è cambiato poi molto dalle dinastie imperiali all’attuale Politburo, il riconoscimento dell’autorità ha giocato un ruolo più importante rispetto all’effettivo livello di autorità esercitata, elemento invece più tipico delle potenze imperiali occidentali. Che fosse attraverso il sistema del tributo imposto alle nazioni confinanti storicamente e orbitanti attorno alla sfera d’influenza, o attraverso l’attuale garanzia di preservare l’autogoverno a Hong Kong e a Macao, per la Cina l’importante è che questi territori garantiscano stabilità riconoscendo a diverso titolo la supremazia del potere centrale senza ricorrere, se non ritenuto necessario, a un controllo capillare. Una strategia per certi versi necessaria per un paese che è riuscito a dominare su territori enormi e ampiamente eterogenei per migliaia di anni.
Macao si è ritrovata ad essere un territorio autonomo più per una concatenazione di casualità storiche che per effettive peculiarità intrinseche dovute alla sua storia, alla sua popolazione o ad altri elementi. Non sorprende quindi che la volontà da parte della Cina di mantenere, almeno formalmente, la sua promessa di conservare i due sistemi, sia vista dallo stesso governo macaense più come uno strumento per garantirsi vantaggi particolari di cui altrimenti non avrebbe mai potuto godere senza la sua peculiare storia. Senza l’apporto portoghese, Macao non sarebbe altro che una città costiera di modeste dimensioni come tante nella ragione, se non addirittura un distretto periferico di Shenzhen, ZhongShan o di Hong Kong. Sotto questo aspetto, non sorprende affatto l’elezione di Ho Iat Seng, uomo di fiducia di Xi Jinping, nel dicembre 2019, in concomitanza con la celebrazione dei vent’anni del passaggio di Macao dal Portogallo alla Cina.
Pechino, puntando al riconoscimento piuttosto che al controllo, non sembra voler intaccare le peculiarità culturali di Macao, che saranno centrali nei progetti di diversificazione dell’economia.
Il costituire un “secondo sistema” oggi è per molti macaensi uno strumento per massimizzare premi e concessioni da parte del governo centrale. Ragion per cui le strade di Macao nel 2019 sono state tanto più tranquille rispetto a quelle di Hong Kong. Pechino, nell’ottica del suo sistema di puntare al riconoscimento piuttosto che al controllo, non sembra voler intaccare le caratteristiche culturali tipiche di Macao, le quali invece sembrano saranno parte dei progetti di diversificazione dell’economia.
Forse, a non esser del tutto soddisfatta da questa luna di miele tra Macao e la Cina è proprio Pechino, che oggi più che mai spera di poter mostrare la città quale prova del fatto si possa davvero operare con uno stato e più sistemi, a reciproco vantaggio delle parti. Se, infatti, l’allineamento da parte di Macao alle volontà della madrepatria è dovuto a ragioni del tutto interessate, l’elemento dei “due sistemi” appare agli occhi esterni, soprattutto a quelli dei taiwanesi, claudicante tanto quanto quello di Hong Kong, sebbene per ragioni diametralmente opposte. Al contempo, la stabilità interna di Macao è legata al trattamento di favore elargito da Pechino, per cui le aspettative restano altre. Occorre, ricordare, infine, come in realtà a Macao ci siano state effettivamente importanti proteste, ad esempio nel 2006, ma per chiedere migliori condizioni a fronte del boom economico che ha investito la città. Per il governo cinese, la prosperità promessa in cambio della stabilità e dell’obbedienza potrebbe, a lungo andare, rendere Macao una vetrina troppo cara da mantenere.