C he “il personale è politico” il femminismo lo ripete dagli anni Sessanta, tanto che ormai lo slogan sembra aver perso il suo portato rivoluzionario. Leggere On Violence and on Violence Against Women (2021) e The Plague (2023) di Jacqueline Rose, pensatrice inglese, nata a Londra nel 1949, non solo ci ricorda che la politica ci riguarda nell’intimo e nell’intimo si articola, ma soprattutto che quest’intimo è tutt’altro che rassicurante.
Il libro di Jacqueline Rose più famoso in Italia, The Haunting of Sylvia Plath (1991), è anche la sua unica monografia: le altre opere che ha scritto sono tutte delle raccolte di saggi sui temi più disparati, da Peter Pan a Lacan al conflitto israeliano-palestinese, passando per Marilyn Monroe e Oscar Pistorius. La varietà dei temi affrontati è motivata dall’intento di prestare attenzione “alle paure, le fantasie e le narrative sotterranee che strutturano i nostri problemi sociopolitici più pressanti”. Tramite psicoanalisi e letteratura Rose porta alla luce dinamiche culturali profonde e mai innocenti, ma che spesso tengono a illudersi di esserlo.
È per questo motivo che Plath è per lei una figura fondamentale, su cui è tornata a più riprese. Cosa significa infatti che Plath “haunts” la nostra cultura, che la perseguita e impaurisce come un fantasma? Nel discuterne la ricezione Rose sostiene che l’attrattiva della “Plath story” consista nella forza con cui essa richiama un linguaggio di vittimizzazione e biasimo. Le sue opere vengono lette quasi sempre come documento biografico, e il suo suicidio come conseguenza della sua patologia (la depressione) o del patriarcato (incarnato dal marito Ted Hughes o più in generale da un’epoca in cui inevitabilmente i valori e le aspettative interiorizzate seguivano quel modello). In entrambi i casi sembra che nell’interpretare Plath si debba incolpare qualcuno, o qualcosa, per quegli aspetti di negatività e violenza che come poetessa ha saputo articolare con lucidità.
La questione della colpa in relazione a Plath conduce quindi a una questione ben più cruciale: cosa possiamo sopportare di pensare riguardo a noi stessi? Cos’è che la cultura non sopporta di essere, e reprime? Quel che la figura di Plath chiede ai suoi lettori in forma di spettro è quel che Rose stessa non smette di domandare: di fare i conti con se stessi, di rivelarsi per quel che si è.Diciamo “è stato lui”. La proposizione non funziona. Ma neanche dire che è stata lei, che l’ha fatto – solo – a se stessa. Il fallimento di entrambe queste proposizioni le trasforma in una domanda che dobbiamo fare a noi stessi. Perché vogliamo e proviamo a far sì che funzionino? Qual è la logica implicita? E questo processo di distribuzione – colpa/non colpa, mondi interiori/esteriori – cosa ci dice riguardo al modo in cui inconsciamente organizziamo, diamo significato, generiamo, la nostra partecipazione ai più ampi processi della vita sessuale e culturale?
Sessualità e legge
In un saggio di On Violence sulle molestie sessuali nelle università americane Rose si interroga su efficacia e limiti di una direttiva promulgata nel 2011 dal dipartimento dell’educazione dell’amministrazione Obama su come implementare il Title IX, che è la legge del 1972 che proibisce la discriminazione sessuale in ambito educativo. La direttiva del 2011 è indirizzata alle università, a cui si richiedono azioni immediate per prevenire e punire le molestie sessuali: queste vengono interpretate come una forma di discriminazione perché creano attorno allo studente un ambiente ostile, impedendone il progresso educativo. L’investigazione a seguito del reclamo è demandata all’amministrazione universitaria – un punto che ha attirato diverse critiche – che si deve incaricare anche di formare le forze dell’ordine del campus e di pubblicare delle linee guida su cosa costituisca sexual harassment e sulle modalità di denuncia. Nel 2017 la direttiva venne ritirata perché ritenuta superflua: “nei 45 anni dal passaggio del Title IX”, scriveva Betsy DeVos, segretaria all’educazione della presidenza Trump, “abbiamo osservato un notevole progresso verso un ambiente educativo libero dalla discriminazione sessuale”.
Sembra che nell’interpretare Sylvia Plath si debba incolpare qualcuno, o qualcosa, per quegli aspetti di negatività e violenza che come poetessa ha saputo articolare con lucidità. Cosa possiamo sopportare di pensare riguardo a noi stessi?
Leggendo la mole di testimonianze raccolte da Vanessa Grigoriadis in Blurred Lines. Rethinking Sex, Power and Consent on Campus (2017) non sembra sia proprio così. Catherine MacKinnon, una delle prime attiviste a combattere per l’inclusione della molestia sessuale sotto il Title IX, già nel 1979 sosteneva, a proposito delle molestie in ambito lavorativo, che comprendere come questo comportamento derivi da relazioni di potere inique è necessario per classificare la molestia come una forma di discriminazione, e quindi come illegale. Più in generale l’intento di MacKinnon, evidenzia Rose, è quello di portare la sessualità sotto la competenza della legge: se la sessualità viene separata dall’ineguaglianza di genere il rischio è che, scrive MacKinnon, “diventi la legge di se stessa”. Pur condividendo la prospettiva intersezionale di MacKinnon, Rose fa notare che, per la psicoanalisi, la sessualità è, in effetti, la legge di se stessa. Per la psicoanalisi la sessualità è senza legge o è niente, non per ultimo per i modi in cui affonda le sue radici nelle nostre vite inconsce, dove tutte le certezze sessuali vanno in rovina. Nell’inconscio non siamo maschi e femmine ma sempre, e in combinazioni che mutano continuamente, nessuno o entrambi. […] Qui mi distanzio da MacKinnon e più in generale dal femminismo radicale che, non ammettendo alcuna ambiguità su queste questioni, vede la mascolinità come perfettamente e violentemente in controllo di se stessa, laddove per me è la mascolinità fuori controllo – la mascolinità in panico – che è più portata a diventare cattiva.
Quel che la mascolinità tossica non controlla è la propria vulnerabilità: non la controlla perché non la conosce, pensando che essere “uomo” voglia dire essere forte, invincibile e sempre potente, prima di tutto sulle proprie emozioni. Di fronte all’impossibilità di potere illimitato il panico produce e diffonde tossicità: e continuerà a reagire così se gli atteggiamenti violenti non vengono riconosciuti in quanto tali. Non sembra così semplice in una società in cui non solo sono tollerati ma spesso vengono considerati normali, o descritti come stati episodici di coscienza alterata provocati da una gelosia folle ma anche affascinante, come osserva Giulia Siviero a proposito dei “raptus” passionali con cui i giornali italiani raccontano spesso i femminicidi. I più banali e frequenti “non me ne sono reso conto”, “non ero in me” fanno parte dello stesso problema. Ammettere la propria vulnerabilità invece, scrive Rose, permette agli uomini (ad alcuni) uno scorcio sulla loro imperfezione. Apre un divario tra quegli uomini che non tollerano alcuna sfida alla loro autorità e quelli per cui tale autorità non è niente di cui andare fieri, se non altro perché capiscono che il potere di una persona si esercita sempre a spese di qualcun altro. Se questo non fosse il caso – e tutti gli uomini fossero per definizione esattamente chi sono – allora il femminismo non ha nessuna speranza. La mente, senza pietà, si chiude su se stessa senza clausola di uscita, senza spazio di manovra psichica per entrambi i sessi. […] Niente di questo vuole sottovalutare quanto la mascolinità possa essere implacabile, persino quando un uomo è convinto di essere riformato o, per usare il termine corrente, “woke”.
Quel che Rose si propone di fare è “conoscere gli strani capricci della sessualità umana”, “riconoscere la sua insistenza una volta che è stata rinchiusa in un posto” e allo stesso tempo “insistere che la molestia è inaccettabile e deve finire”. Solo tenendo insieme queste idee contraddittorie la crisi attuale può venire affrontata fino in fondo: senza semplificazioni della sessualità, vittimizzazioni o demonizzazioni.
Rose propone di “conoscere gli strani capricci della sessualità umana” e allo stesso tempo “insistere che la molestia è inaccettabile e deve finire”. Solo tenendo insieme queste idee contraddittorie la crisi attuale può venire affrontata senza semplificazioni, vittimizzazioni o demonizzazioni.
Una prospettiva simile è quella di Amia Srinivasan, che mostra come la nozione stessa di consenso porti a negare che il sesso sia qualcosa di problematico. Anche per lei la legge è uno strumento insufficiente a regolare la sessualità, considerato che quel che scegliamo e desideriamo è già condizionato da strutture psicosociali politicamente inique: la soluzione è culturale ed educativa, prima che normativa. Questo vuol dire anche che la ferma condanna dei comportamenti violenti non deve impedire la comprensione della loro ambiguità, di quanto non sia sempre facile accorgersi di subire un abuso – o di commetterlo.
A questo proposito Rose fa riferimento ad Asia Argento, una delle prime attrici ad accusare Harvey Weinstein, accusata a sua volta di sexual assault da un attore di diciassette anni: il punto è che non esistono vittime perfette e la gravità dei crimini sessuali non dovrebbe essere giudicata in base all’identità della vittima. Va smantellata l’idea della vittima di stupro “perfetta” (“sconosciuta all’assalitore, certamente non più in relazione con lui dopo lo stupro, capace di riprendersi e raccontare la sua esperienza con perfetta chiarezza quasi dal momento stesso in cui è successo”).
Ogni persona dovrebbero avere il diritto di denunciare e di essere creduta, anche perché la purezza morale “totale” semplicemente non esiste, dice Rose, nei singoli come nelle istituzioni. L’immagine della “wronged woman” (la donna sbagliata o ferita, vittima di se stessa o degli altri) è dannosa perché impedisce l’accesso ad aree complicate della sessualità e della fantasia, non spiegandone il “residuo di soggettività”, i suoi piaceri e pericoli. Questo residuo, scrive Rose, “è storico, politico. Non solo perché il personale è politico – il femminismo ha insistito a lungo sul fatto che quel che succede in privato è una problema politico che ci riguarda tutti – ma perché se la vita psichica viene relegata al privato, non sta al proprio posto.” Al contrario la vita psichica si presenta nella realtà storica, alla quale non andrebbe contrapposta come invece siamo soliti fare.
In Ripartire dal Desiderio (2020) Elisa Cuter insiste su questo punto quando scrive che tenere distinti i piani della società e della sessualità secondo quello che Rosemary Hennessy chiama ‘percezione borghese’ “vorrebbe dire reiterare quella frammentazione sociale in pubblico e privato su cui si sono retti la segregazione delle donne e il binarismo di genere.” Solo ammettendo la propria negatività, la propria capacità di ferire e di essere feriti, si accede alla dimensione politica, autenticamente tale perché autenticamente singolare.
Se la violenza è parte della psiche, quel femminismo che la ripudia come abominevole, che la rende impensabile, “diventa complice dei processi psichici che portano all’attuazione della violenza stessa”.
Se la violenza è parte della psiche, quel femminismo che la ripudia come abominevole, che la rende impensabile, si ritrova a replicare quella parte della mente che non riesce a tollerare la propria complessità. In questo modo il femminismo “diventa complice con i processi psichici che portano all’attuazione della violenza stessa.” Contro questo atteggiamento c’è bisogno di pensare a ciò che il pensiero stesso si rifiuta di pensare: sulla scorta di Melanie Klein e Hannah Arendt, Rose suggerisce che pensare è spesso insopportabile perché rompe la fantasia del mondo come qualcosa che sta lì per essere controllato – “pensare impedisce a questa fantasia pericolosa di compiere danni non detti”. Ecco perché per Arendt la violenza è una forma di autoinganno radicale: scaturisce dalla percezione dell’ “impotenza della grandezza”, un’impotenza che punisce il mondo per i limiti del potere umano. Quel che Arendt propone è quindi, semplicemente, di “pensare a quel che stiamo facendo”: “è per il pensare stesso, come processo, che si deve combattere”, insiste Rose. Pensare al desiderio, ai desideri che non vogliamo sapere di provare, e “ripartire” da lì.
Per Marc Bloch anche le notizie false hanno a che fare con i desideri inconfessati della società: una “fake news” probabilmente nasce sì da osservazioni o testimonianze individuali inesatte, ma poi “l’errore si propaga, si amplia, vive infine a una sola condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. In esso gli uomini esprimono inconsapevolmente i propri pregiudizi, gli odi, le paure, le proprie forti emozioni.” Come i fascismi sanno bene, “solo grandi stati d’animo collettivi hanno il potere di trasformare in leggenda una cattiva percezione”. L’alternativa non può essere far finta che queste pulsioni non esistano, o che non siano sempre potenzialmente violente. Come scrive Rose, quel che leader politici come Hitler e Trump hanno in comune è “l’abilità di mobilitare e autorizzare come vero e proprio piacere l’oscenità gelosamente custodita dell’inconscio”. Per rendere il proprio inconscio meno infelice e possessivo, serve pensare a questa oscenità. “Se non riconosciamo che Eros alimenta il pericolo presente, saremo sempre più impotenti nel fermarlo” conclude Rose. “Certo, potremmo essere impotenti comunque.”
La talking cure della letteratura
I due “posti” dove le resistenze del pensiero a se stesso vengono combattute, facendo sperare per un po’ di impotenza in meno, sono per Rose la psicanalisi e la letteratura. In On Violence varie pagine sono dedicate a Fame di Roxane Gay (2017), un memoir in cui l’autrice racconta la storia della propria obesità collegandola allo stupro subito a dodici anni (a violentare Gay furono il ragazzo di cui era innamorata e i suoi amici). Da adolescente Gay non riuscì a fare parola della violenza subita con nessuno – troppa la vergogna, il senso di colpa, la paura di venire abbandonata e prima ancora lo svuotamento, il trauma del non ritrovarsi più: “non avevo letteralmente nessuna capacità di comprendere la mia storia cosí come veniva scritta in quel momento”. Quel che da dodicenne riuscì a fare fu invece iniziare ad abbuffarsi compulsivamente: “Se ero indesiderabile, potevo tenere lontano il dolore”, “Il mio corpo poteva diventare così grande che non sarebbe stato rotto di nuovo”. Mangiare è al tempo stesso una difesa, un rifugio e uno sfogo: il cibo non le chiede niente e almeno per un po’ la accontenta, quasi diventando complice del suo segreto, nascondendo più in profondità quel che è successo e al tempo stesso permettendole di non combaciare con la bambina innocente che gli altri pensano sia ancora.
Ho seppellito la ragazza che ero per via di tutti i guai che aveva passato. Ho cercato di cancellare ogni memoria di quella ragazza, ma lei c’è ancora, chissà dove. È ancora piccola e spaventata e piena di vergogna, e forse scrivo per tornare da lei, per cercare di dirle tutto ciò che ha bisogno di sentire.
Milkman di Anna Burns (2018) è invece descritto da Rose come la risposta definitiva a chi ha provato a far fallire il movimento #MeToo sostenendo che l’unica violenza sessuale reale sia quella fisica. La protagonista diciottenne di questo romanzo non viene mai neppure sfiorata da Milkman, un paramilitare quarantenne che la stalkera durante la guerra civile irlandese, in una comunità cattolica di una città che ricorda Belfast. Questa è una storia di “sconfinamento”, dice Rose: di come, senza contatto fisico, lui riesca a minacciare sia il corpo che la mente della ragazza. “Il mio mondo interiore era sparito”, “Si era infiltrato nella mia mente e sentivo che questo era ingiusto”.
I due luoghi dove le resistenze del pensiero a se stesso vengono combattute, facendo sperare per un po’ di impotenza in meno, sono per Rose la psicanalisi e la letteratura.
Come sostiene Christopher Bollas, ricorda Rose, quel che l’abuso distrugge è soprattutto la capacità di reverie: la protagonista del romanzo viene avvicinata per la prima volta da Milkman mentre legge camminando, un’attività che la fa considerare strana e “inaccettabile” da tutto il quartiere e che invece per lei è fonte di una libertà di pensiero, e di piacere, che non trova altrove (“passavo gran parte del tempo nel Diciannovesimo secolo dando le spalle a tutto questo”). Nessuno attorno a lei capisce quello che le sta succedendo, anzi: la madre bigotta, pressata dai sospetti e poi dai pettegolezzi e dalle bugie sul suo conto, la accusa di essere l’amante dell’uomo e non le crede anche quando lei nega. Il problema è che oltre a negare o tacere la ragazza non sa fare altro, è intrappolata in una nebbia in cui non sa più spiegarsi quel che sente: “Non potevo avere più di diciott’anni prima che la confusione del vasto sottotesto e le contraddizioni del sesso mi si manifestassero davanti per incrinare le mie sicurezze?” All’inizio del romanzo la protagonista si chiede:
Perché non potevo semplicemente fermarmi e chiedere a quest’uomo se per favore mi lasciava in pace? […] A quel tempo, a diciott’anni, essendo cresciuta in una società dal grilletto facile dove le regole di base erano che se nessuna mano violenta era stata alzata su di te, e se nessuna offesa verbale ti era stata scagliata addosso, e se nessuno sguardo provocatorio di chicchessia s’era posato su di te, be’ allora non era successo nulla, quindi come potevi sentirti attaccata da qualcosa che non esisteva? A diciott’anni non avevo gli strumenti per capire i modi che costituivano l’oltrepassare-il-limite. Ne avevo una percezione, un’intuizione, provavo un senso di ripugnanza per certe situazioni e per certe persone, ma non sapevo che intuizione e ripugnanza contassero qualcosa, non sapevo che avevo tutto il diritto di non apprezzare, di non dover sopportare, chiunque mi si avvicinasse.
Non è solo Milkman a sconfinare, ma l’intera comunità, infastidita da quel vagheggiare libero e assorto che la ragazza rappresenta. “Sono arrivata a capire quanto mi fossi chiusa in me stessa, quanto fossi stata incastrata in un vuoto accuratamente costruito da quest’uomo. Ma anche dalla comunità, da quell’atmosfera tutta mentale, dalle minuzie dell’invasione.” Quello che infine la salva, sostiene Rose, è la sua stessa voce: il monologo interiore in cui questa storia è raccontata, che grazie una “stravagante resilienza” e a uno “humour contro ogni probabilità” costituisce una vera e propria talking cure.
È anche tramite Una ragazza lasciata a metà (2013) e Bohémien minori (2016) di Eimear McBride che Rose riflette su come una violenza si ricostruisce a parole, e su come la si racconta a qualcuno. Il primo è “parola traumatizzata senza uscita”, un romanzo quasi senza virgole che dà l’impressione di “una voce che inizia e si stoppa, quasi strozzandosi col suo stesso respiro” – anche questa una storia di abusi sessuali, dello zio nei confronti della ragazza protagonista e del padre nei confronti della madre. L’obiettivo dichiarato dall’autrice è di “far fare i conti al linguaggio con quella parte della vita che viene distrutta una volta che inizia a essere messa in un linguaggio grammaticalmente semplice e lineare”. Cosa i corpi sono capaci di farsi a vicenda? Come scrivere la violenza e il sesso senza tradirli, entrambi?
Come scrivere la violenza e il sesso senza tradirli, entrambi?
In Bohémien minori l’abuso più eclatante è quello subito dall’uomo di cui la protagonista si innamora da parte della madre, quand’ era ancora un ragazzino. La sua storia viene raccontata in prima persona a metà romanzo, con un cambio di tono e stile notevole: è da questa confidenza in poi che i due personaggi vengono chiamati per nome, come a suggerire che “solo quando sei in grado di portare te stesso a parlare a un altro puoi sperare di trovare te stesso”, scrive Rose. È dopo e forse grazie a questa lunga confessione che la frequentazione occasionale dei due diventa una vera e propria storia d’amore. La scrittura di McBride costringe il lettore a calarsi nella complessità di una sintassi che fa sembrare che la narrazione si produca nella lettura stessa, “dall’interno all’esterno piuttosto che dall’esterno all’interno”, dice McBride. È per questo, scrive Rose, che i temi trattati sono quelli dell’abuso, dell’incesto e della passione – “la vicinanza è la questione scottante: desiderata, omicida, troppa o troppo poca.”
Il trauma della storia, la politica della rimozione
Uscendo dai territori letterari, un tema centrale di On Violence è il Sudafrica post-apartheid: qui la vicinanza con chi fino a pochi anni fa era il nemico rischia di diventare un pericoloso covo d’odio. Rose riflette sull’esperimento di giustizia riparativa che è stata la commissione per la verità e riconciliazione in Sudafrica, il tribunale istituito da Nelson Mandela per permettere alle vittime e ai perpetratori dei crimini commessi da entrambe le parti durante l’apartheid di confrontare le proprie testimonianze e “riconciliarsi” più in profondità di quanto la legge solitamente permetta. La stessa Winnie Madikizela-Mandela, che ha seduto in parlamento fino alla sua morte ed è conosciuta come “ la madre della nazione”, è stata condannata da questa commissione per violazione dei diritti umani, ritenuta responsabile di omicidi e torture quali il necklacing.
Come gestire politicamente la violenza del passato, chiede Rose, dimenticandola o riconciliandosi con essa sempre e di nuovo, ammettendo che abbia potere sul presente? Cathy Caruth definisce il trauma non come una storia che resiste alla rappresentazione ma piuttosto come un racconto che manda in frantumi la stessa base della comunicazione umana perché fa si che non ci sia nessuno a cui parlare, nessuno che ascolti, né dentro né fuori dalla testa. Wilfred R. Bion, uno dei primi psichiatri a occuparsi di quel che oggi è denominato disturbo da stress post-traumatico, chiamava il trauma un “attacco al connettere”.
Nel caso di una nazione o di una famiglia questo stato si può trasmettere di generazione in generazione, lasciando in eredità l’inconscio non pensato della comunità, e andando così a preparare nuova violenza. Non è un caso se il Sudafrica ha uno dei tassi di violenza sessuale più alti al mondo: ogni giorno vengono riportati più di cento stupri e Cape Town è conosciuta come la “rape capital of the world”. Qui lo slogan della campagna contro la violenza sessuale non è #MeToo né #TimesUp, ma #AmINext. #AmINext, scrive Rose, ha il merito di creare “una comunità di target potenziali, allertando il mondo di un continuum, non solo di una violenza già successa ma di quella che deve ancora succedere”, e che accadrà indiscriminatamente, senza riguardo per razza, classe o status. In questo senso #AmINext “echeggia il ‘velo di ignoranza’ teorizzato dal giurista John Rawls come la sola precondizione della giustizia: solo se gli individui non hanno idea di dove si troveranno nella dispensazione finale contempleranno per un secondo che potrebbero finire tra i più bisognosi, e lanciare i loro dadi dalla parte di un mondo più giusto.”
Nel caso di una nazione o di una famiglia il trauma si può trasmettere di generazione in generazione, lasciando in eredità l’inconscio non pensato della comunità, e andando così a preparare nuova violenza.
Un’ idea di giustizia simile è quella di Simone Weil, a cui Rose dedica un capitolo di The Plague. Morta di tubercolosi in esilio a Londra nel 1943, dopo essersi rifiutata di mangiare più di quanto mangiavano i soldati connazionali, scrisse a De Gaulle chiedendo di paracadutare delle infermiere, tra cui lei stessa, sulla prima linea del fronte. De Gaulle la considerò un’idea folle ma era proprio in quanto tale che Weil la difendeva: Soltanto Hitler ha finora colpito l’immaginazione delle masse. Ora bisognerebbe colpire più forte di lui. Questo corpo femminile costituirebbe senza dubbio un mezzo in grado di riuscirci. […] Questo corpo da una parte e le SS dall’altra creerebbero con la loro contrapposizione un’immagine da preferire a qualsiasi slogan. Sarebbe la rappresentazione più clamorosa possibile delle due direzioni tra le quali l’umanità oggi deve scegliere.
Questa idea di giustizia è talmente votata al sacrificio che viene da chiedersi se prenderà mai corpo su vasta scala, se un grande numero di persone, pur non facendo parte degli “ultimi” della terra, farà mai la scelta di rinunciare ai propri privilegi. Forse è più a misura d’uomo il rendersi conto di stare già da quella parte, nelle proprie paure, e agire per costruire un mondo più giusto per tutti, senza bisogno di martiri.
La capacità di Rose è quella di dare concretezza a un atteggiamento, quello di Weil, che spesso viene liquidato in fretta perché idealista: Rose mostra perché quell’atteggiamento è necessario alla comprensione dei problemi della nostra società, perché è urgente e non deve diventare né una posa né una scusa per non fare niente. “Postare foto da una protesta contro la separazione delle famiglie al confine”, ha notato Jia Tolentino, “è espressione di un principio genuino ma anche, inevitabilmente, una sorta di tentativo di segnalare che sono buona”. Nessuno è solo buono, nessuno si conosce fino in fondo. Neanche Simone Weil, ci fa scoprire Rose.
La peste: pandemia e rivoluzione
Pensare alle proprie debolezze, ammettere di essere anche cattivi, è quindi il primo passo, tutt’altro che semplice, per un cambiamento. Trump, Boris Johnson, Bolsonaro, Putin incarnano per Rose la tentazione di far sparire dalla vista il rischio di ritrovarsi fra gli ultimi, di cadere in disgrazia. “Trump ha sdoganato nuovamente la libertà di calpestare i più vulnerabili, che, in ultima analisi, tutti i soggetti umani, incluso – e forse specialmente – Trump stesso, hanno paura di essere.” Ma con la pandemia non è stato più possibile pensarsi sicuri, fare finta di non vedere: eppure questi leader hanno continuato a convincere a non guardare, cavalcando una psicosi collettiva, scrive Rose. Che non è stata solo la negazione ma anche quella di chi ripeteva che “we’re all in this together”: la pandemia piuttosto è stato proprio il momento in cui le disparità sociali sono emerse e si sono acuite, a partire da quelle tra chi in casa aveva un giardino e chi invece un partner violento, tra gli affollati slum del Bangladesh dove la distanza sociale sembrava uno scherzo e le città dove ci si poteva lamentare dell’obbligo di mascherina, tra chi ha trovato posto in ospedale e chi non è stato nemmeno raggiunto dall’ambulanza.
Nessuno è solo buono, nessuno si conosce fino in fondo. Neanche Simone Weil, ci fa scoprire Rose.
L’iniquità è scoppiata davanti ai nostri occhi come i bubboni descritti da Camus nel La peste (1947), romanzo a cui Rose dedica il titolo e il capitolo d’apertura di The Plague. Si sarebbe detto che la terra stessa, dov’erano piantate le nostre case, si purgasse del suo carico d’umori, lasciasse salire alla superficie sanie e foruncoli che sino ad allora l’avevano travagliata internamente. S’immagini soltanto la stupefazione della nostra cittadina, sinora tranquilla, e sconvolta in pochi giorni, come un uomo in buona salute il cui sangue denso all’improvviso si metta in tumulto!
L’avverbio “internamente” non specifica se il riferimento sia alle viscere del corpo in subbuglio o “ai tumulti della mente inconscia”, scrive Rose: nel suo saggio, come nel romanzo di Camus, la plague (la peste o la pandemia da Covid-19) non è “solo” sanitaria ma qualcosa di ben più profondo, endemico e integrato nella società, che ora dirompe in tutta la sua virulenza: una piaga politica. La traduzione italiana del brano sopracitato lascia cadere, come quella inglese, il riferimento alla rivoluzione presente nell’originale (“comme un homme bien-portant dont le sang épais se mettrait tout d’un coup en révolution”) facendo perdere il rimando a L’uomo in rivolta, una raccolta di saggi che Camus pubblicò nel 1951. L’elemento chiave della rivolta è il “rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile”, scrive Camus, uno sconfinamento che “ripulsa”: il sangue si rivolta dal disgusto e dall’ingiustizia, nel romanzo i due sono inseparabili. La potenzialità della pandemia era quella di un risveglio politico di massa, quindi, ma a quanto pare la terra continua a suppurare. In esergo all’introduzione di On Violence Rose accosta un altro brano del romanzoIl male che è nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza, e la buona volontà può fare guai quanto la malvagità, se non è illuminata […] il vizio più disperato essendo quello dell’ignoranza che crede di saper tutto e che allora si autorizza a uccidere. L’anima dell’assassino è cieca, e non esiste vera bontà né perfetto amore senza una visione di scala quanto più larga possibile. [traduzione modificata]
E una dichiarazione di Bolsonaro del marzo 2020: Affronteremo il virus, ma lo affronteremo come dei fottuti uomini.
Quale migliore esempio delle conseguenze della “mascolinità fuori controllo”? Questo atteggiamento volutamente ignorante, ignorante e poi delirante pur di non ammettere l’errore, accomuna anche chi, più silenziosamente, giudica le attuali politiche occidentali sull’immigrazione come necessarie. Se sono disumane che importa, bisogna essere pragmatici e pensare prima agli italiani, soldi per tutti non ce n’è abbastanza, e loro sono quelli che stuprano le nostre donne. Loro. Se, per prosperare, alle false notizie serve un terreno di coltura favorevole, questo in Occidente è proprio quello dell’ineguaglianza. Un’ineguaglianza che però non si vuole o non si sa rendere conto delle sue ragioni reali: troppa la paura, da una parte, e l’avidità dall’altra. “I migranti di oggi sono diventati i capri espiatori finali di un ordine sociale la cui avidità in continua espansione vuole distruggere l’aria stessa che respiriamo. Come se fossero la causa di tutto, la merce perfetta per la cecità, il modo migliore di non vedere cosa sta succedendo davvero”.
I migranti rimangono invisibili veicoli di cecità anche una volta entrati in Occidente: fino a quando non acquisiscono una posizione legale che li protegga rimangono di fatto dei non-cittadini, e questa condizione si protrae spesso per vari mesi, se non anni. Rose riporta che il numero di donne a cui non è stato concesso un visto permanente (e che sono state quindi deportate) dopo aver subito – e denunciato – violenza domestica in UK è più che raddoppiato tra il 2012 e il 2016. Come ha dichiarato Thangam Debbonaire, presidentessa laburista del gruppo parlamentare intrapartitico sui rifugiati, “quello che stiamo facendo in questi casi è dire che ci preoccupiamo della violenza domestica – a meno che il proprio status di immigrazione sia precario, perché allora non ci importa”. Gli stupri di persone senza documenti rimangono largamente non rappresentabili: questo succede anche nel caso del silenzio che vige intorno alle violenze sistematiche delle guardie di confine negli Stati Uniti, ma anche sulle coste libiche e italiane, come mostra il caso del centro di accoglienza di Messina.
La pandemia è stata il momento in cui le disparità sociali sono emerse e si sono acuite. L’iniquità è scoppiata davanti ai nostri occhi come i bubboni descritti da Camus.
Qui nel settembre del 2019 dei richiedenti asilo nordafricani riconobbero gli aguzzini che li avevano torturati e violentati in un centro di detenzione libico, centro da cui era necessario passare per attraversare il Mediterraneo. In questo caso la procura di Agrigento arrestò tre uomini, accusati di tortura, rapimento e traffico umano. Ma di quanti casi di violenza non arriva nemmeno notizia? L’ignoranza volontaria e sistematica della condizione in cui queste persone versano al confine con suoli teoricamente più progrediti è uno dei più gravi rimossi collettivi. Scegliere di non parlarne rende complici di una “produzione culturale di ignoranza” coltivata in modo da tenere in piedi la nostra identità nazionale, quel che vogliamo credere di essere. Come ha scritto Adriano Sofri “L’occidente migliore è fuori dall’occidente. Nelle giovani iraniane che liberano i capelli e vengono assassinate per questo. L’Europa migliore è fuori dall’Europa. Nei giovani ucraini che ne sventolano la bandiera. O in una giovane pakistana che le è arrivata dentro e viene assassinata dai suoi – i suoi… Per capire chi siamo, o almeno chi non siamo, chi non siamo più, bisogna guardare a chi non è ancora come noi, e immagina che noi siamo come lei ci immagina.” Riportiamo i sogni nella nostra coscienza, anche quelli belli.