I
l titolo -eccezionalmente lungo ed editorialmente, forse, svantaggioso- del debutto di Giulia Scomazzon, scrittrice originaria di Vicenza, è La paura ferisce come un coltello arrugginito. Al centro del memoir c’è il lutto per la madre, Roberta, scomparsa l’11 gennaio 1995, quando Giulia aveva appena otto anni. La memoria dei fatti è tutta da ricostruire: la figura di Roberta è un fantasma evanescente. Scomazzon lavora come un’artista che, insoddisfatta, ogni volta si vede costretta a buttare il foglio e a ricominciare da capo. Alla fine, dopo molti tentativi, ciò che resta sulla carta è un ritratto della madre apparentemente disadorno, ma in realtà equilibrato, con un gusto perfino aureo delle proporzioni: “Consumatrice di eroina, operaia, malata di AIDS, madre amorevole”. Questo era Roberta. Sono quattro istantanee, appese l’una accanto all’altra, dove ogni scatto porta con sè un indizio e un’informazione. Proviamo a interpretare: Roberta fu certamente invischiata nelle proprie fragilità, ma non del tutto sprofondata in una dipendenza; fu abbastanza in gamba e responsabile da continuare a lavorare e a provvedere ai propri affetti; la sua breve esistenza fu tormentata da una insidia mortale, ma ciò non le impedì di amare con tenerezza. È un ritratto asciutto, a fuoco e bellissimo, che nella mente e nella fantasia del lettore gioca con il volto preraffaellita di Roberta fotografato in copertina.
Chi ha avuto occasione di ascoltare l’intervista di Giulia Scomazzon su Radio Tre Fahrenheit, o di partecipare a una presentazione in libreria, avrà notato la flemma, la fatica, con cui Giulia prova a raccontare il suo libro e la sua storia. Sarà per l’accento veneto, ma i vuoti tra una parola e l’altra, così crepitanti e carichi di elettricità, mi hanno fatto pensare a Vitaliano Trevisan, altro scrittore di poche parole, sempre della provincia vicentina. È la sola affinità tra i due, direi, ma è interessante. Le curiosità sul libro erano molte, così ho spedito a Giulia un discreto elenco di domande. Sulla nonna, sul Veneto, sul ministro Carlo Donat Cattin, sul tiramisù e sul titolo del libro. Dopo qualche giorno sono arrivate le risposte. Eccole.
Se non ti dispiace, vorrei partire da un fatto curioso, che nel tuo memoir ha un peso solo marginale. A un certo punto parli di un libro scritto da tuo nonno Gianni, un libro sulla raccolta dei funghi. Per quanto sia stato scritto moltissimo tempo fa, se ne trova ancora traccia qua e là in rete. Che valore ha per te e cosa racconta di tuo nonno?
È un oggetto importante per tutta la mia famiglia paterna. Mio nonno, che era un insegnante e un giornalista locale, è morto prima della mia nascita, ma a differenza di quanto accaduto con mia madre il suo ricordo è rimasto sempre molto vivido. Per questo a volte mi pare di avere un’idea più nitida di mio nonno, che non ho mai conosciuto, che di mia madre, che si è occupata di me per quasi otto anni. Nella prima pagina del libro Cercare Funghi di Gianni Scomazzon sono incappata in un pensiero che ho trovato di una saggezza straordinaria per un “semplice” manuale sui funghi; mio nonno scrive: “L’uomo nuovo, impastoiato dagli orari di fabbrica, dai turni, sollecitato dalle sempre mutevoli esigenze di una forma di vita più complessa, bombardato dai rumori, rivela bisogni sempre più pressanti di scaricare tossine organiche e psichiche nel bosco.” Quando ho letto questo passaggio non ho potuto fare a meno di pensare a una passione condivisa per la letteratura angloamericana. Forse sembrerà esagerato, ma in alcune delle sue frasi sentivo l’influsso di Thoreau e di London, autori a cui mi aveva avvicinato mio padre durante la prima adolescenza e a cui lui stesso si era avvicinato grazie a suo padre. Andare a funghi è una sorta di rito intergenerazionale per la mia famiglia: non c’è una sola persona tra di noi che non sappia distinguere un porcino, un chiodino o un finferlo dai “funghi matti”. Credo che muoversi in un bosco con lo sguardo fisso a terra per individuare la testa di un porcino nel fogliame marrone sia una sorta di pratica meditativa con un potere estatico sorprendente e che mio nonno e mio padre fossero affascinati da questo aspetto “trascendentalista” dell’osservazione nella natura.
Mi racconti la storia del tuo libro? Quando hai cominciato a pensarci?
Non c’è nessun libro immaginato e poi realizzato, ma solo un concatenamento fortunato di eventi che hanno trasformato una scrittura privata e diaristica in un blog e, in un secondo momento, in un libro. Avevo deciso di dare una forma pubblica al mio sforzo di recuperare il rimosso, ovvero la storia di mia madre, perché sentivo che il mio trauma poteva assumere una dimensione collettiva, aperta ad altri orfani di AIDS, trentenni che non si sono mai riconciliati con un lutto vissuto nel silenzio e, spesso, nella vergogna (vale lo stesso, forse, per i figli dei suicidi). Per farla breve, Elisa Cuter ha generosamente segnalato il mio blog ad Alessandro Gazoia, editor di Nottetempo, e nel giro di pochissimo tempo Alessandro e Andrea Gessner mi hanno proposto di farne un libro (provo una profonda gratitudine per tutti e tre, non saprei dove altro dirlo). Non ero convinta di avere una storia per un libro, ma mano a mano che la scrittura procedeva, con il sostegno di Alessandro, l’ho vista definirsi e mi pare di essere, tutto sommato, riuscita a raccontare una vera e propria storia, con un inizio e una fine e in mezzo il caso (abbastanza sfortunato).
Il tuo libro parte da una memoria dei fatti labile e zoppicante. C’è una riga in cui paragoni il ricordo di tua madre a una specie di lampadina che non funziona bene. Tu lo dici meglio, ma non voglio anticipare. Come ti sei aiutata nella ricostruzione di questa memoria?
Sì, mia madre per me era ed è come una lampadina a intermittenza. Il ricordo più consistente di lei, non a caso, è affidato alle decine di foto che la immobilizzano in un momento estratto dal flusso del tempo. Ho provato tante volte a mettere in movimento tutte quelle fotografie nella mia testa per rivederla parlare o fumare una sigaretta e bere una birra, ma non ci sono riuscita e, allora, ho iniziato a cercarla nei suoi quaderni delle superiori, nelle due lettere che spedì a mio padre, nelle sottolineature di un paio di libri, nelle ricette che trascriveva. Anche questo non è stato abbastanza e allora mi sono messa alla ricerca di testimoni: parenti, compagne di scuola, colleghe di lavoro. Quasi trent’anni di assenza avevano lasciato un’immagine sfocata persino in coloro che più l’avevano amata, il suo compagno (lei e mio padre non si sposarono mai, in modo da lasciare a me tutta l’eredità materna) e suo fratello. Ho cercato di ricostruirla anche attraverso le sue cartelle cliniche e il racconto locale e quotidiano della malattia che le era stata diagnostica mentre era incinta di me. Credo che il risultato sia una specie di mosaico che la ritrae nella sua “evanescenza”.
Che idea ti sei fatta del Veneto in cui sono cresciuti e sono stati giovani i tuoi genitori?
La cronaca locale dell’epoca consisteva in larga parte di articoli con foto, nome e indirizzo di giovani consumatori o spacciatori di droga. Nessuna volontà di comprendere il fenomeno, solo scandalo e giudizi sommari. Su Facebook mio padre ha ancora come immagine profilo la sua foto segnaletica che ho trovato nei microfilm dell’emeroteca di Vicenza. È buffo e un po’ malinconico ora che non c’è più. Il giornale era pessimo anche nel modo con cui alimentava, più o meno indirettamente, la fobia e la ghettizzazione dei sieropositivi, dando ampio spazio a voci come quella del comitato dei genitori per l’espulsione dei bambini sieropositivi dagli asili e altri gruppi di cittadini allarmati in modo ingiustificato dalla diffusione della malattia (parrucchieri, sanitari, maestre, etc.). L’idea che mi sono fatta del Veneto a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta è piuttosto severa; è come se la Sacrestia d’Italia avesse perso l’umiltà servile che la rendeva innocua e si fosse trasformata d’un tratto in un territorio crudele, dominato dal desiderio violento di guadagno e di consumo. Credo che ci sia una connessione tra l’imperversare dell’eroina nell’humus socioculturale della provincia veneta e l’incapacità di un dialogo intergenerazionale tra coloro che erano nati durante la guerra, immersi nella povertà, e i loro figli, esposti a un benessere ignoto prima di allora. Penso, ma potrei sbagliarmi, che tra i giovani vicentini aleggiasse un’angoscia inconsapevole dovuta alla fine di qualsiasi immaginario non capitalista. A questa impressionante fine del futuro va poi aggiunto quel moralismo cattolico rimasto immutato nella trasformazione materialistica dal Veneto agricolo e religioso al Veneto iperproduttivo e cementificato.
E della fabbrica in cui lavorava tua mamma, che idea ti sei fatta?
Mi sono fatta l’idea che fosse uno schifo, per questo mia madre finché è stata sana e in forze ha partecipato attivamente alle lotte sindacali interne ed esterne alla fabbrica. A casa girava la storia di una volta in cui mio padre andò a minacciare con un bastone il padrone della fabbrica, un arricchito pieno di boria che aveva maltrattato mia madre dopo che gli era giunta voce della sua malattia (in questi due anni di ricerca ho realizzato che quasi tutti nel mio paese sapevano di cosa stava morendo mia madre). Non so nemmeno dire se il padrone avesse minacciato di licenziarla o cosa. Come per tutto ciò che riguardava l’AIDS, i ricordi di mio padre si facevano reticenti non appena sembrava afferrarli. Ed è un peccato, perché dentro questo aneddoto avrei potuto trovare la prova di un amore profondo e l’esempio di un piccolo atto di eroismo: un giovane muratore ed ex spacciatore che difende la compagna sieropositiva minacciando un padrone con un bastone. È un’immagine piena di giustizia e di poesia anche nella sua apparente violenza (solo minacciata, mio padre non era assolutamente un violento).
Che tipo era tua nonna? E qual è stata la sua pedagogia, insomma il modo con cui ti ha allevato e cresciuto?
Mia nonna è stata una tutrice severa. Era particolarmente dura per tutto ciò che riguardava la scuola e lo studio. Non ero una bambina brillante e non ero dotata di nessun particolare talento. Da piccola mi sentivo scoppiare la testa nello sforzo di comprendere le basi della grammatica o della matematica e odiavo mia nonna che non mi faceva alzare dal tavolo finché non completavo i compiti, che non si commuoveva di fronte alle mie lacrime e ai singhiozzi. Mia nonna paterna mi ha trasformato da allieva mediocre (alle elementari) a studentessa modello (negli ultimi anni del liceo e in seguito). Non so se devo esserle grata per questo… è una strada pedagogica che mi ha portato a sviluppare in maniera abnorme il mio pensiero razionale, inibendo al contempo gran parte dei miei impulsi più emotivi. Per fare un esempio, io ho sempre nascosto a mia nonna la mia omosessualità, ma lei non era né cieca né stupida e il papiro goliardico scritto per la mia laurea triennale in filosofia confermò definitivamente i suoi sospetti grazie a una serie di rime raffinate con la parola “vagina”. Credo odiasse la mia omosessualità come aveva odiato la tossicodipendenza di suo figlio, la sieropositività di sua nuora e il libertinaggio di suo marito: uno sfregio al suo orgoglio da piccola balilla, perché anche questo era mia nonna, una nostalgica del Duce che aveva sposato l’intellettuale comunista del paese con cui aveva creato una famiglia incasinatissima. Mi aggrappo ai rari momenti di profonda tenerezza tra me e lei, come quando d’inverno mi riscaldava le mani sotto le sue ascelle, e accetto il fatto che ha tentato con tutte le sue capacità e risorse di farsi responsabile del mio benessere e della mia educazione.
Una delle figure chiave del libro è tuo padre. Faccio la stessa domanda già fatta per tua nonna. Qual è stato il metodo pedagogico di tuo padre, insomma, come ti ha cresciuta?
Non so bene da dove cominciare a rispondere. Mio padre non si è mai davvero interessato al mio percorso scolastico. Lì, la sua unica regola era delegare a oltranza. Non ricordo una sola volta in cui mi abbia aiutato con i compiti ed era un miracolo vederlo andare a colloquio con gli insegnanti. In compenso, ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione letteraria e cinematografica extra-scolastica. Sentivo di dover leggere tutti gli scrittori di cui mi parlava per essere alla sua altezza e ciò ha significato divorare le vecchie edizioni conservate nella libreria del nonno dei romanzi di Dostoevskij, Tolstoj, Twain, London, Conrad, Joyce e, di nascosto, Mishima, Genet e Burroughs e, più avanti, recuperare tutto Bergman e Tarkovskij. Mio padre era convinto, certamente più di me, che un giorno avrei scritto un libro che lo avrebbe fatto sentire contemporaneamente orgoglioso e sotto accusa. Non ha potuto leggerlo e io avrei voluto che lo facesse per dimostrargli quanto ero disposta a perdonarlo per amore. Mio padre mi ha insegnato che quando si tira un pugno il pollice deve restare fuori dalle altre dita serrate, che in una rissa il coltello si usa di lama, mai di punta, e che quando ci si perde nel bosco bisogna trovare e seguire il rumore dello scorrere di un torrente fino a valle. Sono tutti insegnamenti abbastanza inutili, perché io sono una persona mite che evita le risse quanto l’avventura, ma a me sembra diano l’idea di che “ragazzo-padre” fosse Andrea.
Che cosa sono i “cromosomi traumatizzati”?
Per ragioni accademiche mi sono spesso confrontata con i trauma studies e con la teoria della trasmissione intergenerazionale del trauma in gruppi etnici e sociali storicamente sottoposti a un’esperienza disumanizzante, vale per i figli dei sopravvissuti all’Olocausto quanto per molti afrodiscendenti, con alle spalle una storia centenaria di schiavismo, discriminazione e violenza istituzionalizzata. Io non so se, fuori di metafora, ho realmente ereditato da mia madre dei cromosomi traumatizzati, una predisposizione genetica alla depressione o all’ansia, ad esempio, ma di certo la mia nascita si è irrimediabilmente legata a una diagnosi identica a una condanna a morte alla fine degli anni ‘80. In qualche modo so di aver assorbito biologicamente o psicologicamente la disperazione che deve aver provato mia madre per il suo destino. Non sarebbe potuta andare diversamente.
Tra le immagini che mi sono rimaste impresse del tuo libro c’è quella del tiramisù. Lì ho sentito la grande potenza di un ricordo apparentemente banale, ma depositato in un luogo molto profondo. Mi sono sentito nel cuore del cuore del materno, in qualche modo, almeno per come lo concepisco nella mia esperienza. Che cosa cantava tua mamma durante la preparazione del tiramisù e che cosa dice di lei il fatto che i suoi weekend erano dedicati ai dolci?
È una domanda complessa per una persona, come me, che ha messo in atto una rimozione sistematica e scrupolosa del ricordo materno. Mi pare cantasse Dalla e, qualche volta, Anna Oxa e Mango. Nessuna traccia della sua passione giovanile per i Velvet Underground, Lou Reed e David Bowie di cui trascriveva e traduceva le canzoni nel quaderno d’inglese delle superiori prima di abbandonarle al terzo anno. Il fatto che amasse stare a casa a preparare dolci dopo la settimana lavorativa, mi dice che cercava e forse aveva trovato un nido in cui poter essere una madre comune, accogliente e premurosa, non spacciata, ma forse le piaceva semplicemente tanto il tiramisù.
“Nella prima metà degli anni Novanta l’AIDS era la seconda causa di morte tra le donne venete di trent’anni”. È un dato che mi ha sconvolto. Non mi sembra ci sia consapevolezza in Italia delle dimensioni che ha avuto il fenomeno dell’AIDS. Perché, a tuo avviso, manca ed è mancata questa consapevolezza?
E, aggiungo, la prima tra gli uomini trentenni nello stesso territorio. Nel libro, affermo che si è trattato di un’ecatombe generazionale a cui nessuno ha voluto dare la dignità di una commemorazione collettiva. Sono convinta che ciò sia accaduto perché, nelle aree più colpite, la stragrande maggioranza dei malati apparteneva alla classe di esposizione dei tossicodipendenti, un gruppo sociale a cui non si può concedere nessun orgoglio perché la tossicodipendenza è contraria alla vita e forse alla società è sembrato che celebrare tossici o ex tossici fosse come celebrare la morte stessa o, almeno, che fosse in un certo grado diseducativo. Importa poco che al momento della diagnosi molti di loro si fossero disintossicati e confidassero in una nuova vita familiare “dentro i binari”, il marchio di Caino ormai gli si era impresso in fronte.
“L’AIDS ce l’ha chi se lo va a cercare”. Carlo Donat Cattin, Ministro della Salute 1986-1989. Che effetto ti ha fatto leggere una frase del genere?
È evidentemente una frase che mi provoca orrore per la sua disumanità. La mia famiglia (eccetto mia nonna, che però si adeguava alle decisioni di voto prima del nonno, poi dei suoi figli e, infine, mie) è sempre stata di sinistra, con qualche concessione da parte di mio padre ai Radicali per l’impegno profuso rispetto alla questione delle carceri (che non poteva non stargli a cuore visto che le frequentava) e della legalizzazione delle droghe leggere e depenalizzazione di quelle pesanti. In fondo, cresciuta dentro questo clima politico, sapevo di non potermi aspettare molto di meglio da un democristiano, specialmente da uno con quella faccia così lombrosianamente democristiana.
“Per sopire a dovere la gioventù, è bastato sostituire l’eroina con qualcosa di meno antisociale, cioè è bastato mettere i giovani al centro del mercato”. Ovvero?
Ci sono molte teorie del complotto sul ruolo della CIA nella diffusione dell’eroina in Italia in una stagione calda, fatta di rotture generazionali e ideologiche, di scontri armati, di omicidi e sequestri. Per forma mentis, diffido del pensiero cospirazionista perché mi sembra sempre implicare una sorta di arrendevolezza vittimista rispetto ai fatti del mondo. Ciò nonostante è inquietante pensare alle trasformazioni attraversate dalla fascia d’età giovanile tra gli anni Settanta e gli anni Duemila. Da motore della controcultura a centro gravitazionale dell’industria dell’intrattenimento, della moda e dell‘hi-tech e in mezzo questa botta devastante di droghe pesanti. Forse molti ventenni, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, hanno sentito che il loro spazio di manovra si stava riducendo, che potevano essere solo buoni o cattivi consumatori e niente di più. Ora che sono al centro del mercato, come prima lo erano le famiglie, i giovani sentono di avere un potere espressivo che, a ben vedere, è solo una delega concessa dalle strutture imprenditoriali dei social network, ovvero dai pubblicitari, e temo che questo tolga a loro (ma anche a noi “giovani adulti”) la possibilità di attribuire un senso politico alle esistenze.
Dici di comprendere “gli immaginari pieni di alternative anestetiche” delle persone più piccole di te…
Credo di aver avuto con la tv lo stesso rapporto che oggi i ragazzi hanno con i cellulari. Quando guardavo i miei cartoni animati preferiti o giocavo al Sega Mega Drive smettevo di provare qualsiasi tipo di dolore ed era fantastico. Il problema è che quando si inibisce il dolore lui poi trova il modo di insinuarsi nei momenti in cui cala l’effetto dell’anestesia, farmacologica o psicologica che sia.
Che cosa insegni a scuola? E che rapporto hai con gli studenti? Qual è la tua pedagogia, se ne hai una?
Tengo un laboratorio di audiovisivo e multimediale in un Liceo artistico. Anche questa è una domanda parecchio complessa. Quest’anno non mi sento all’altezza del mio ruolo educativo perché, tra la morte di mio padre, l’uscita del libro e un frontale con un’auto lanciata agli 80 km/h sulla mia corsia di marcia, vorrei solo distendermi e dormire per un paio di mesi. L’unica cosa che posso dire del mio “metodo” è che è radicalmente antiautoritario, forse perché il liceo mi ha terrorizzata e la paura di una nota o di un’insufficienza non mi pare sia di nessuno aiuto nell’educare i ragazzi e le ragazze tra i 16 e i 19 anni, specialmente in un ambito creativo come quello in cui opero io. Certo, a volte è doloroso e frustrante rendersi conto di non riuscire a trasmettere ai ragazzi e alle ragazze la passione per il cinema che più amo e che pretende dallo spettatore un minimo di sforzo intellettivo o di disponibilità emotiva, però ci provo.
Ci sono tanti modi per raccontare una storia. Tu hai scelto quello del memoir. È stata una scelta ponderata o naturale?
Credo fosse l’unica forma possibile per questa storia. Intendo dire che per me il memoir è un contenitore enorme in cui ho potuto mescolare la scrittura saggistica, il flusso di coscienza, la micro-narrazione e, soprattutto, il ricordo, la sua fallibilità e, persino, la sua totale assenza. Diffido sempre dei memoir che ricordano troppo, troppo facilmente, soprattutto l’infanzia. Per me era importante restituire alla scrittura la forma frammentata della mia memoria, anche a costo di risultare discontinua o confusa. Di base, ho sempre ritenuto che l’onestà dovesse essere il perno etico e politico di questo racconto.
Come ricordi i mesi e i giorni in cui hai scritto? È stato un periodo di gioia o di fatica?
Temo di non potermi definire una persona gioiosa, anche se spero di essere meno pesante di quanto forse emerge nel libro (di certo sono più severa con me stessa nella scrittura che nella vita), mentre la fatica è una costante nella mia vita e lo è stata inevitabilmente anche in quel periodo.
Il Veneto è una terra particolarmente ricca di scrittori. C’è una ragione particolare secondo te?
Ammetto, con parecchia vergogna, che ho frequentato pochissimo la letteratura veneta, forse per mantenere strettamente soggettivo e incontaminato il mio rapporto con questo territorio, che non so mai se amo o odio. Comunque intendo rimediare a questa ignoranza perché, ora più che mai, ho bisogno di confrontarmi con le tante voci letterarie locali. Insomma, potrei sparare solo una ragione legata alla mia esigenza di scrivere del Veneto e in quanto veneta. È un’esigenza simile a quella che porta tantissimi veneti a legare a doppio filo la socialità al consumo di alcol. È come se fossimo così chiusi nelle nostre vite, nel lavoro e nella famiglia, così tendenzialmente introversi e di poche parole da aver bisogno di una valvola di sfogo artificiale. Ad alcuni basta diventare chiacchieroni ed espansivi nel gruppo più o meno vasto dei compagni del bar, per altri invece è vitale esprimersi pubblicamente, buttare fuori ciò che è costantemente taciuto o rimosso.
Sembra il titolo di un film giallo anni Settanta: La paura ferisce come un coltello arrugginito. È un titolo complicato, difficile da memorizzare. Che ti ha detto l’editore?
Il titolo è una traduzione imprecisa del nome del mio blog, cioè “Fear tastes like a rusty knife” che, a sua volta, era una citazione di un passaggio che avevo letto tra i diari o le lettere di John Cheever. Per me è una frase che riassume il senso che vorrei attribuire alla vita (e che curiosamente è lo stesso di un maschio alcolizzato e omosessuale represso): “Fear tastes like a rusty knife and do not let her into your house. Courage tastes of blood. Stand up straight. Admire the world. Relish the love of a gentle woman.” La paura è un coltello arrugginito perché può entrare nella tua carne anche a una minima profondità e infettare tutto il tuo corpo col tetano, il coraggio sa di sangue perché assomiglia all’estrazione di un dente malato. Ammirare il mondo e assaporare l’amore di una donna gentile mi sembrano le due cose più sagge da fare in questa vita. La responsabilità del titolo (che non è piaciuto a nessuno) è integralmente mia, tanto che l’editor mi ha fatto intendere che, se ci sarà una prossima volta, punteremo su qualcosa di più semplice e “alla moda”.
“Devo provare a scrivere qualcosa su mia madre”. Così inizia il libro. Ti è servito? È stato utile?
Sì, per me è stato un processo curativo, almeno nella misura in cui sono riuscita a portare fuori di me il mio “fantasma materno”, esternalizzando quell’assenza che prima sentivo inseparabile dalla mia identità. Non ho squarciato nessun velo sul mio passato rimosso, ma sono riuscita ad averne meno paura. Soprattutto, ho imparato a concepire il lutto come una pratica del ricordo, anziché come un buco nero che cancella i legami. Mi piacerebbe che i lettori riuscissero a sentire questa evoluzione attraverso le pagine del libro.
So che stai lavorando a un nuovo libro. Con fatica o con piacere? E di che si tratta, se ti va di raccontare?
In questo caso, fortunatamente, sia con fatica sia con uno strano e nuovo piacere, forse perché si tratta di un romanzo. Non ci ho ancora pensato a fondo, ma l’impressione è che la fiction mi permetta di estrarre pezzi del mio vissuto senza dovermici sprofondare dentro e trovo che questo sia davvero liberatorio dopo il primo libro. Credo di poter “rivelare” che, anche in questo caso, è una storia radicata nella provincia veneta, perché mi piace parlare solo di ciò che conosco. Se in La paura ferisce come un coltello arrugginito il mio modello dichiarato era la scrittura di Christa Wolf, in questo caso provo a confrontarmi con un altro dei miei grandi idoli, Flannery O’Connor. Come lei vorrei tentare di raccontare “dell’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo”.