N egli anni Settanta Laura, la più grande dei quattro figli di Estela de Carlotto, studiava storia all’Università Nazionale di La Plata, città in cui ancora vive la famiglia. Era un’attivista politica nella Gioventù Universitaria Peronista. Durante la dittatura, come migliaia di studenti del paese, fu sequestrata dalle forze militari e rimase per nove mesi in un campo di concentramento clandestino. Il suo compagno fu ucciso subito, lei era incinta e, dopo aver dato alla luce il suo bambino che le fu immediatamente strappato via, venne assassinata.
Nel 1980 Estela seppe da sopravvissuti, liberati dai campi illegali di detenzione, che Laura aveva partorito un maschietto e che le era stato concesso di tenerlo fra le braccia solo per poche ore. Per trentasei anni ha cercato il nipote ovunque, in Argentina e oltre confine, fino al 5 agosto del 2014 quando il tempo delle lacrime ha incontrato quello della giustizia. La Banca Nazionale dei Dati Genetici, fondata nel 1987 al fine di poter rintracciare e identificare i nipoti separati dalle famiglie naturali, le ha ridato Guido, la creatura nata dall’amore di Laura: “Ho pianto di gioia, ho abbracciato i miei figli, nipoti, la mia famiglia e le mie compagne. Mi ha illuminato la vita. Abbiamo un bellissimo rapporto. È un musicista e una persona fantastica.”
Dal giorno del sequestro della figlia, il 26 novembre del 1978, a oggi Estela è sempre stata in prima fila, figura preponderante dell’Associazione Abuelas de Plaza de Mayo, un’organizzazione unica al mondo per almeno due ragioni: l’incessante ricerca di tutti i bambini sottratti in quel periodo nefasto, restituendo la vera identità a 122 nati nelle stanze dei burocrati del dolore, dell’orrore, e la costruzione di un processo storico di verità, memoria e giustizia che non ha eguali.
L’Associazione Abuelas de Plaza de Mayo unisce l’incessante ricerca di tutti i bambini sottratti in quel periodo nefasto alla costruzione di un processo storico di verità, memoria e giustizia.
A maggio in Argentina si è assistito a un’imponente mobilitazione popolare anche nelle piazze contro una sentenza della Corte Suprema che aprirebbe le porte all’impunità per tutti gli assassini condannati, i quali potrebbero chiedere la riduzione della pena che la Corte ha già concesso a Luis Muiño. Nei giorni delle proteste a Buenos Aires c’era anche il Presidente della Repubblica Mattarella, il quale ha reso omaggio ai desaparecidos con il rituale lancio di fiori sulle acque del Rio de La Plata. Vera Vigevani Jarach, madre di Franca Jarach che, appena diciottenne, fu una fra le trentamila vittime desaparecidas della dittatura civico-militare argentina, gli ha consegnato una lettera nella quale si legge:
“Oggi, e dopo 40 anni di pacifico ma perseverante impegno, noi, Madri e Nonne della Plaza de Mayo, i familiari dei desaparecidos e tutti gli altri organismi che per i diritti umani da sempre hanno lottato, abbiamo finalmente avuto in parte giustizia con i processi e le condanne per i colpevoli di questi crimini contro l’umanità.
Oggi, però, siamo molto tristi e preoccupati per una decisione della Corte Suprema che permetterebbe a questi criminali di beneficiare di una forte riduzione delle pene, cosa che ci porterebbe al rischio di incontrarli per strada. Loro, i torturatori, gli assassini dei nostri figli.
Tutto questo non rappresenta solo una marcia indietro verso l’impunità, non solo un colpo tremendo per tutta la società argentina, ma, trattandosi di crimini contro l’umanità, è un’offesa e una minaccia per tutto il mondo».
La sentenza, definita “del 2×1” – che dopo la reazione anche del legislatore non dovrebbe avere gli effetti temuti – si inserisce in un contesto critico emerso fin dal successo elettorale del Presidente Mauricio Macri. Dalle dichiarazioni ad alcuni provvedimenti è stato da subito percepito in modo particolare l’indebolimento del sostegno politico al processo di memoria, verdad y justicia.
“Il governo di Macri ha condotto battaglie concrete per lo svuotamento o la paralisi di organi dedicati alla ricerca di crimini contro l’umanità, ma ha anche compiuto gesti che mirano a una regressione nella battaglia culturale per la memoria” dice Estela de Carlotto. “Alcuni ministri negano che i desaparecidos siano stati trentamila, vari funzionari si mostrano vicini a familiari di condannati per delitti di lesa umanità, lasciando intendere che si tratta di vittime della “sovversione”, come se in Argentina ci fosse stata una guerra civile invece del terrorismo di Stato. Tali gesti danno la possibilità a chi nega che in Argentina ci fu un genocidio di riproporre la teoria dei due demoni, teoria che la giustizia argentina ha demolito mediante numerosi processi in tutto il Paese e nel resto del mondo.”
A maggio in Argentina si è assistito a un’imponente mobilitazione popolare nelle piazze contro una sentenza della Corte Suprema che aprirebbe le porte all’impunità per tutti gli assassini condannati.
Uno dei luoghi della tortura, l’Escuela De Mecanica de la Armada, oggi si chiama Espacio para la Memoria, Promoción y Defensa de los Derechos Humanos. C’è una statistica che raffigura il percorso compiuto nell’ultimo decennio dall’Argentina per assicurare alla giustizia i criminali resisi colpevoli di delitti durante la dittatura. Dal 1988 al 2005, dunque a trent’anni dal colpo di Stato, le condanne per crimini contro l’umanità e altre fattispecie di reato erano appena ventitré. Dal 2006 a oggi, a dieci anni dalla caduta delle leggi per l’impunità e dalla riapertura dei processi, quel numero è salito a 669 condannati e 62 assolti in seguito a 162 sentenze.
Un anno fa, al Tribunal Oral en lo Criminal Federal n°1 di Buenos Aires, è arrivato a destinazione dopo tre anni e sei mesi un processo chiave, storico. Sono state emesse condanne tra gli 8 e i 25 anni di reclusione per 15 dei 17 imputati. Reynaldo Bignone, il capo dell’ultima giunta militare argentina, è fra i condannati per l’Operacion Condor, l’associazione illecita transnazionale riconosciuta dalla sentenza, dedita all’interscambio di informazioni d’intelligence, persecuzione, sequestro, tortura, omicidio e/o sparizione di dissidenti politici nel Cono Sur.
I numeri della Procura contro i crimini di lesa umanità illustrano come la partita sia ancora tutta aperta. Attualmente sono 593 le cause penali pendenti nei tribunali federali del paese: il 29% è giunto a prima sentenza, mentre il 48% è ancora nella fase istruttoria e il 20% in corso di giudizio. Il picco delle sentenze, complessivamente cinquanta, è stato raggiunto nel biennio 2012-13. Sempre nel 2013 si è impennata la curva degli imputati condannati, trentaquattro, per violenze sessuali. Fra i 2780 imputati il 28% è ancora sotto processo, il 27% ha ricevuto invece una condanna, il 17% è deceduto. I latitanti sono 45. Il 38% degli imputati è detenuto, il 41% è libero. Fra i 1.044 detenuti, 518 godono degli arresti domiciliari, in 455 scontano la pena in carcere. La Corte di Cassazione ha revisionato il 25% del totale delle cause, confermando tutte le condanne e revocando qualche assoluzione. All’ultima tappa, la Corte Suprema di Giustizia, la percentuale scende al 17%.
“In Argentina, il processo legato ai crimini di lesa umanità è esemplare per il mondo intero” prosegue Carlotto. “Anzitutto, il processo alla Giunta Militare è stato eseguito nei tribunali civili e non militari, come chiedevano invece i repressori. Dopo il regresso avvenuto con le leggi sull’impunità, la deroga del 2003 ci ha portato nuovamente a essere in prima linea e all’avanguardia in favore della lotta per la memoria, la verità e la giustizia per i crimini contro l’umanità. Le Nazioni Unite e le Corti Internazionali citano i nostri risultati come esempio di giustizia contro i genocidi.”
Dal 2006 a oggi, a dieci anni dalla caduta delle leggi per l’impunità e dalla riapertura dei processi, il numero di condannanti per crimini durante la dittatura è cresciuto in modo esponenziale.
Il sistema politico-economico e le complicità – aperte o nascoste – intessute per molti decenni per fare in modo che tutto fosse dimenticato, sono tuttavia ancora attive. Le organizzazioni che difendono gli imputati lamentano sui giornali l’arbitrarietà dei processi, invocano il garantismo. Funzionari – non solo appartenenti alle forze militari o di sicurezza, ma collegati e denunciati per crimini riguardanti il periodo della dittatura – occupano ancora posti nella pubblica amministrazione. Suor Geneviève, tanto esile quanto tenace, mi racconta gli occhi dei carnefici. La zia, Léonie Duquet, è una delle due suore francesi desaparecidas: nel ‘77 le gettarono in mare da un elicottero, nel 2005 identificarono le ossa arrivate a riva. In un’aula di tribunale Suor Geneviève ha rincorso un segno di cedimento, uno sguardo di pentimento, ma ai loro volti e dalle parole non è mai trasparso nulla.
“Uno degli effetti della dittatura è la scarsa informazione che ancora oggi esiste in virtù del patto di silenzio tra i carnefici e i loro complici” sottolinea Carlotto. “Finalmente è stata fatta giustizia, ma durante i processi, i repressori non hanno mai raccontato ciò che è stato fatto ai nostri figli e figlie, né quale sia stato il loro destino. Non ci dicono neppure dove siano i nostri nipoti: per questo la ferita non si rimargina e la riconciliazione è una pura menzogna. Noi continuiamo a pretendere verità per cercare di capire ciò che è accaduto ai nostri figli, giustizia per riparare al male che il terrorismo di Stato ha portato nelle nostre vite, nelle vite di tutto il popolo argentino; e memoria affinché non si ripeta mai più un genocidio in Argentina. Nonostante le grandi difficoltà, mercoledì 10 maggio, la collettività ha dimostrato di avere memoria e di rifiutare con fermezza il terrorismo di Stato nel Paese.”
Come spiega anche Vera Vigevani, non è possibile perdonare chi non ha mai chiesto perdono, la riconciliazione risulta impossibile: “Sullo stesso numero delle vittime si fa del negazionismo. Macri ha questa attitudine riduzionista. Come per la Shoah sussistono i negazionismi, e i numeri ne sono un elemento”. Nei processi i repressori, i responsabili di un genocidio ideologico e politico rivendicano sovente la difesa dell’interesse nazionale.
Non si può colmare l’assenza. Molte madri se ne stanno andando senza sapere la verità, ma con la consapevolezza che la lotta non riguarda solo il passato. Le Abuelas come altre organizzazioni oggi sono in prima fila nella denuncia della dilagante violenza sulle donne. E non è casuale il collegamento con una delle eredità più odiose della dittatura.
Uno degli effetti della dittatura è la scarsa informazione che ancora oggi esiste in virtù del patto di silenzio tra i carnefici e i loro complici.
A maggio 2014 la Procura contro i crimini di lesa umanità ha iniziato uno studio sui casi di violenza sessuale perpetrati dal terrorismo di Stato, esposti in cause penali per crimini contro l’umanità ed è stato creato un registro delle vittime. Attualmente nel registro sono indicati 460 casi in tutte le regioni del Paese, dei quali 250 sono in corso di indagine, 62 sono già stati accertati. In molti casi giudiziari, per svariati motivi, non si è proceduto alla richiesta di ampliamento dell’accusa durante il dibattimento. Per la prima volta c’è stata una condanna per un caso di aborto forzato emessa dal Tribunale Federale di La Rioja nell’ultima sentenza in merito alla Megacausa Menéndez La Rioja.
Dentro alla storia di questa lotta ormai quarantennale c’è un’eredità preziosa, il Banco Nazionale dei Dati Genetici, dove la scienza assomiglia alla giustizia. Banco che dipende dal Ministero della Scienza e della tecnologia e lavora attraverso la Commissione Nazionale per il Diritto all’Identità (Conadis) e l’Unità specializzata per i casi di appropriazione dei nascituri durante il terrorismo di Stato. Si è formata una nuova generazione di genetisti e antropologi forensi, che ormai fa scuola su scala transnazionale. A trent’anni dalla creazione hanno messo insieme un tesoro, materiale genetico e campioni biologici di 365 gruppi familiari delle persone sequestrate e desaparecide tra il 1976 e il 1983, che finora ha permesso l’identificazione di 122 persone nate in stato di cattività o sequestrate insieme ai genitori.
“Continueremo sempre su questa strada fino a che l’ultimo dei nostri nipoti conosca la verità sulla propria origine – conclude Carlotto –. Ci impegniamo, dunque, per i nostri nipoti e per le future generazioni. Abbiamo costruito il diritto all’identità e ora lo proteggiamo per tutti i bambini del mondo”.
(Ha collaborato Maria Pina Iannuzzi, occupandosi della traduzione dallo spagnolo della conversazione con Estela de Carlotto).