F ino all’anno scorso, Kim Jong-un, succeduto a 26 anni a suo padre Kim Jong-il come Guida Suprema della Repubblica Popolare Democratica di Corea (quella che informalmente chiamiamo Corea del Nord) deteneva il record di capo di stato più giovane del mondo, poi strappatogli da un capitano reggente di San Marino. Oggi, a 35 anni, ha già una biografia. Una biografia non autorizzata, scritta senza consultarlo. In The Great Successor: The Divinely Perfect Destiny of Brilliant Comrade Kim Jong Un (Public Affairs, 2019) Anna Fifield, caporedattrice dell’ufficio di Pechino del Washington Post ed esperta di Corea del Nord, ha messo insieme anni di ricerche e decine di interviste a persone che in un modo o nell’altro hanno girato intorno al Grande Successore per cercare di tracciarne un ritratto realistico – tenendo presente che avere accesso al personaggio è impossibile e che si tratta quindi di arrivargli il più vicino possibile per guardarlo da lì.
Vedendolo organizzare summit con Trump e impensierire il mondo con i suoi test missilistici, l’immagine mentale che ci facciamo di Kim Jong-un è quella di un dittatore mezzo matto, di un personaggio imprevedibile, senza compartimenti stagni tra personale e politico, al tempo stesso pericoloso e grottesco. E per estensione finiamo per avere la stessa immagine anche della Corea del Nord, un Paese lontano e isolato, e che in più ci viene raccontato solo in modo parziale e filtrato dalla propaganda. Le “notizie” su Kim Jong-un che dà suo zio in pasto ai cani sono un po’ come le leggende (che storici antichi come Plinio il Vecchio riportavano come verità) su fantomatici popoli come i Cinocefali dalla testa di cane o gli Astomi privi di bocca.
In realtà, se ci avviciniamo, non è difficile intuire come questa sia una posa. Secondo Fifield, sarebbe Kim Jong-un stesso ad avere interesse che il modo in cui viene raccontata la Corea del Nord all’esterno rimanga una narrazione altalenante e poco chiara, per confondere gli osservatori. Kim Jong-un, che a noi pare buffo e lunatico, sarebbe in realtà lucido e razionale: in grado a meno di trent’anni di gestire con successo la transizione all’interno del governo e consolidare il suo potere; in grado oggi di ottenere risultati diplomatici storici – come lo storico summit di Singapore con Donald Trump o l’altrettanto storico summit dello scorso giugno con Trump e il presidente sudcoreano Moon Jae-in all’interno della zona demilitarizzata del 38esimo parallelo, confine tra le due Coree – senza fare praticamente alcuna concessione.
Ma può darsi anche che la questione sia più sottile di così. Adam Cathcart, coautore di Change and Continuity in North Korean Politics, sostiene che ci sia una doppia narrazione con cui la Corea del Nord racconta se stessa e il suo leader per il pubblico interno e internazionale. Da una parte l’immagine, costruita nei primi anni dopo l’ascesa di Kim Jong-un, di un Paese con un nuovo leader giovane, educato all’estero e smanioso di “aprire” la Corea del Nord al resto del mondo, un’immagine ancora viva nei tentativi di riavvicinamento pacifico tra le due Coree che le hanno portate a partecipare sotto una sola bandiera alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali del 2018.
Le “notizie” su Kim Jong-un che dà suo zio in pasto ai cani sono un po’ come le leggende che storici antichi come Plinio il Vecchio riportavano come verità.
È un’immagine a cui la stessa propaganda nordcoreana accenna quando parla della presunta fascinazione del mondo per il nuovo leader del Paese – come fa ad esempio un libro edito dalla Foreign Language Press del regime e intitolato Supreme Leader Kim Jong Un in The Year 2012, consultato da Fiefeld durante uno dei suoi viaggi a Pyongyang: “Dopo la morte di Kim Jong-il nel dicembre 2011, il mondo ha rivolto la sua attenzione al modo in cui Kim Jong-un, il nuovo supremo leader della Repubblica Popolare Democratica di Corea, guida il Paese. Il 2012 è stato l’anno in cui la sua abilità di leadership e la sua grande personalità sono state mostrate in pieno, e la sindrome di Kim Jong-un ha contagiato il mondo.”
Dall’altro lato c’è il modo in cui Kim Jong-un viene presentato all’interno del Paese: come il “Grande Successore” che dà il titolo al libro di Fifield, appunto, ovvero come un leader la cui cifra è continuare quanto cominciato dai suoi predecessori applicando la loro volontà, senza apportare grandi cambiamenti. Su ciò poggia non solo la sua legittimità ma anche – afferma Cathcart – la possibilità che in Corea del Nord avvengano cambiamenti effettivi, ovvero la possibilità di una ristrutturazione interna del regime e del Paese presentata nelle vesti della continuità con chi il regime e il Paese li ha costruiti.
Il Kim Jong-un leader giovane e nuovo che vuole cambiare il Paese e il Kim Jong-un mero successore e continuatore di una tradizione sono in conflitto; tuttavia, le due narrazioni, rivolte a pubblici diversi, finiscono con l’integrarsi l’un l’altra. E così il leader che vuole cambiare le cose ottiene successi diplomatici che ne innalzano la statura interna, rafforzando indirettamente la sua immagine di leader in continuità col passato. Questo sfasamento tra due narrazioni costruite una sull’altra è una possibile lente con cui leggere l’immagine altalenante che abbiamo di Kim Jong-un, ben esemplificata dal modo in cui ne ha twittato Donald Trump: un momento è un “madman”, il “Rocket Man” che minaccia il mondo con i missili nucleari, quello dopo è qualcuno con cui Trump ha ottimi rapporti personali alla guida di un Paese con un enorme potenziale.
Che sia una strategia cosciente o il risultato di una dissonanza cognitiva, la posa del “dittatore pazzo” ci appare plausibile anche perché di chi è veramente Kim Jong-un sappiamo pochissimo. Quando è salito al potere sembrava davvero uscire fuori dal nulla: Victor Cha, ex esperto di Corea nel Consiglio di Sicurezza Nazionale dell’amministrazione Bush, ai tempi disse che “è abbastanza incredibile quante poche vere informazioni abbiamo” su di lui. La sua infanzia e adolescenza erano avvolte dal mistero, un mistero che oggi è meno fitto ma che è comunque un muro fatto di informazioni frammentarie e di seconda o terza mano contro cui anche un libro come quello di Fifield – che è o prova ad essere la prima biografia di Kim Jong-un – finisce per andare a sbattere. Ricostruire il passato di Kim Jong-un è un lavoro di ricerca quasi archeologico, con tutti i problemi e le complessità del caso, ma è anche l’unico modo per uscire dalla narrazione di Kim Jong-un costruita dalla propaganda nordcoreana a nostro uso e consumo di occidentali e provare a capire chi è davvero.
Figlio di Kim Jong-il e della sua seconda compagna Ko Young-he, una ballerina giapponese di origine nordcoreana, quella di Kim Jong-un è stata un’infanzia da Siddartha, trascorsa insieme al fratello Kim Jong-chol e alla sorella Kim Yo-jong in un compound di Pyongyang e nella località balneare di Wonsan. I tre erano completamente isolati dal mondo, non avevo amici, non vedevano mai altre persone della loro età, né avevano contatti con il fratellastro Kim Jong-nam – quello salito agli onori delle cronache mondiali nel 2017, quando è stato assassinato all’aeroporto di Kuala Lumpur, in Malesia – il quale viveva un’esistenza completamente separata.
In questi anni, Kim Jong-un bambino viveva nel lusso tra videogiochi stranieri, cinema in casa, giardini con cascate e laghi artificiali. A sette anni andava già in giro – guidando lui – su un’automobile opportunamente modificata regalatagli dal padre. A 11 anni vestiva militare e portava una Colt .45 alla cintura. In tutto ciò aveva una mente da ingegnere: era appassionato di aerei e navi e voleva sapere come facevano gli uni a volare e le altre a stare a galla, stava sveglio tutta la notte a fare esperimenti sui suoi modellini e quando non riusciva a capire qualcosa da solo insisteva per consultare degli esperti, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Un’infanzia da Siddartha, dunque, senza conoscere la sofferenza: negli anni Novanta, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e quindi alla fine del sostegno economico che quel Paese forniva alla Repubblica Popolare Democratica di Corea, il Paese dei Kim ha subito una terribile carestia – diventata nota come gonanui haenggun o “la dura marcia” nella propaganda nordcoreana. Si stima che da 200.000 a 3 milioni di persone siano morte di fame, e il Paese ha continuato a ricevere aiuti umanitari internazionali fino al 2002. Mentre fuori dal compound avveniva tutto ciò, al suo interno la famiglia Kim si godeva pranzi luculliani con tartarughe al vapore, zuppe di pinne di squalo e riso prodotto soltanto in una specifica area del Paese e raccolto a mano chicco per chicco.
A descrivere i pranzi dei Kim è la testimonianza di Kenji Fujimoto, uno chef giapponese che per oltre un decennio ha preparato il sushi per Kim Jong-il e per i suoi figli. Tornato in Giappone nel 2001, Fujimoto si sarebbero poi stabilito di nuovo a Pyongyang nel 2016, dove gestirebbe un sushi bar: secondo fonti giapponesi al suo ritorno nel Paese sarebbe stato arrestato, ma NK News riporta che il suo ristorante sarebbe ancora aperto. Fujimoto non faceva soltanto parte del team di cuochi dei Kim: Kim Jong-un e suo fratello lo avevano preso in simpatia e il cuoco aveva finito per diventare per loro – su richiesta della madre – una figura a metà tra un babysitter e un compagno di giochi. Faceva volare per loro l’aquilone nel giardino della casa di Sinchon, fuori Pyongyang, dove vivevano; d’estate li portava a pesca a Wonsan sullo yacht di Kim Jong-il, con il piccolo Kim Jong-un che si prendeva i meriti delle catture.
Il Kim Jong-un leader giovane che vuole cambiare il Paese e il Kim Jong-un mero continuatore di una tradizione sono in conflitto; tuttavia, le due narrazioni, rivolte a pubblici diversi, finiscono con l’integrarsi l’un’ l’altra.
La seconda testimonianza chiave sul giovane Kim Jong-un è sua zia Ko Yong-suk, la sorella minore della madre, che si è presa cura di lui durante i suoi anni in collegio in Svizzera ed è poi scappata chiedendo asilo politico nell’ambasciata statunitense di Berna. Quella del collegio svizzero è l’esperienza centrale negli anni di formazione di Kim Jong-un. Dal 1993 al 2000 Kim Jong-un ha studiato prima a Gümligen e poi all’istituto Liebefeld-Steinhölzli di Köniz, entrambi paesini vicino a Berna. La notizia del suo soggiorno svizzero – sotto il falso nome di Pak-un e la falsa identità del figlio di un funzionario dell’ambasciata nordcoreana in Svizzera – è uscita prima sui giornali giapponesi ed è stata confermata ufficialmente poco prima che Kim Jong-un venisse presentato in pubblico nel 2010.
Nei suoi primi mesi all’istituto Liebefeld-Steinhölzli, Kim Jong-un aveva frequentato una classe di tedesco per studenti stranieri, dimostrandosi uno studente sveglio in grado di imparare in fretta e passando presto a frequentare una classe regolare. Un insegnate lo descrive come “ben integrato, diligente e ambizioso”. Parlava bene inglese e un tedesco basilare un po’ sgrammaticato. Le testimonianze dei suoi ex compagni di classe lo ricordano come un ragazzino che veniva considerato un tipo strano e un outsider, che andava in giro perennemente vestito con tute di acetato dell’Adidas e costose Nike Air Jordan ai piedi, che era molto timido e se ne stava sempre per i fatti suoi, non raccontava nulla della sua vita privata ed “evitava assolutamente qualsiasi contatto con le ragazze.”
In generale pare che fosse uno studente mediocre la cui vita ruotava intorno al basket: passava ore a fare disegni di Michael Jordan; giocava a basket al campetto dopo scuola, tornava a casa e giocava a basket alla Playstation; una volta da Berna una macchina dell’ambasciata nordcoreana l’aveva portato a Parigi per vedere un’esibizione dell’NBA al termine della quale si era fatto la foto con Kobe Bryant. I suoi amici del basket lo ricordano come un giocatore esplosivo, un playmaker nato, che odiava perdere; spesso al campetto con lui si presentavano due donne nordcoreane che lo guardavano giocare e a volte riprendevano le partite. Secondo uno dei suoi compagni di partite ciò era effettivamente strano, ma l’aveva giustificato con un gap culturale, “una cosa da coreani.”
Un paio di amici li aveva, però, e la loro testimonianza è evocativa. Uno di loro ha raccontato che una volta, tornato in Svizzera alla fine dell’estate, Pak-un gli aveva raccontato delle sue vacanze estive a Wonsan, in Corea del Nord. Un’altra volta era andato a prendere una foto di lui con Kim Jong-il e gli aveva detto che suo padre non era veramente suo padre, ma che in realtà era figlio del leader nordcoreano. I suoi amici non gli avevano creduto – poco dopo però Pak-un era dovuto tornare improvvisamente in Corea del Nord, interrompendo gli studi.
Con l’interrompersi del suo soggiorno in Europa si interrompono anche le fonti di cui disponiamo per tracciare un ritratto di Kim Jong-un come persona. Dal suo ritorno in Corea del Nord, infatti, Kim Jong-un torna ad essere avvolto dal mistero, per ricomparire soltanto quando cominciano le pratiche per la sua successione alla guida del Paese. Solo che quello che ricompare non più Kim Jong-un ma è il Yongmyong-han Dongji – il “Brillante Compagno” Kim Jong-un raccontatoci dalla propaganda nordcoreana. Nel settembre 2010 Kim Jong-un è ricomparso davanti agli occhi del mondo per venire nominato prima generale dell’esercito, poi membro del comitato centrale del Partito dei Lavoratori di Corea e infine vicepresidente della commissione militare; quindi ha cominciato ad affiancare il padre nelle occasioni ufficiali; infine, nel dicembre 2011, la televisione di stato nordcoreana ha annunciato la morte di Kim Jong-il e ha investito Kim Jong-un della successione.
Era già dai primi anni Duemila che si era cominciato a parlare di Kim Jong-un come del possibile successore del padre alla guida della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Ne aveva parlato Kenji Fujimoto in alcune interviste rilasciate al suo ritorno in Giappone; vi aveva accennato dal suo esilio a Macao Kim Jong-nam, il figlio primogenito dell’allora leader nordcoreano Kim Jong-il caduto in disgrazia dopo essere stato arrestato a Tokyo mentre cercava di entrare in Giappone con un passaporto falso per visitare Disneyland. Il secondogenito, Kim Jong-chul, sembra fosse considerato troppo effeminato; Kim Jong-un, dal canto suo – raccontava Fujimoto – era tutto suo padre: un grande amante del whiskey e delle auto di lusso, e un uomo che non accettava la sconfitta.
Secondo Cathcart, il regime nordcoreano “tende a ritornare su vecchi modelli e rivolgersi al passato per affrontare le nuove situazioni.” Questa in linea di massima è la chiave per interpretare il modo in cui è stata gestita la questione della successione all’interno del culto della personalità dei Kim. Lo stato nordcoreano ha giocato sulla somiglianza fisica tra Kim Jong-un e suo nonno Kim Il-sung per presentare il “Grande Successore” come una reincarnazione del padre della patria, sottolineando attentamente le similitudini di stile tra i due nel modo di vestire e nella gestione della loro immagine pubblica. Nel 2012, riportando la notizia del primo discorso ufficiale di Kim Jong-un, l’agenzia di stampa nordcoreana KCNA citava un veterano di guerra che riferiva di aver sentito nella voce del nuovo leader la voce di Kim Il-sung, da lui sentita in occasione di una celebrazione 59 anni prima; un altro diceva di aver rivisto in Kim Jong-un il padre Kim Jong-il. Su queste somiglianze poggia ben di più della legittimità del nuovo leader: esse lasciano anche la porta aperta a una ristrutturazione interna del regime e del Paese, un gattopardiano cambiamento travestito da continuità, presentato come un’iniziativa presa da colui che è una reincarnazione dei fondatori.
Da quando ha preso il suo posto all’interno del sistema politico nordcoreano siamo costretti a guardare Kim Jong-un da più lontano: soprattutto, è la Corea del Nord in controllo della narrazione sul suo leader. Può anche decidere di non farci vedere niente, come nel decennio tra la fine degli studi in Svizzera e l’ascesa al potere, quando Kim Jong-un è rimasto nascosto dietro alla cortina di ferro del Paese e sappiamo soltanto che ha studiato all’Università Kim Il-sung di Pyongyang. Farne un ritratto diventa allora riprendere il ritratto che ne fa la propaganda di Stato, e guardare Kim Jong-un vuol dire guardare i suoi atti politici, dal modo in cui ha consolidato il potere al modo in cui ha cercato di rivitalizzare l’economia del Paese aprendo spazi all’iniziativa privata.
Leggendo una biografia di Kim Jong-un non riusciamo a capire chi sia Kim Jong-un, ma solo che non è quello che pensiamo che sia.
Per il resto di Kim Jong-un come persona si dice poco: l’unico accenno ci viene dalla testimonianza dell’ex cestista statunitense Dennis Rodman. Pare che Kim Jong-un fosse un fan di Rodman; sicuramente aveva una passione per i Chicago Bulls, in cui Rodman ha giocato negli anni Novanta. Nel 2013, Rodman è stato per la prima volta in Corea del Nord dove, seduto in tribuna accanto a Kim Jong-un, ha assistito a una partita tra una rappresentativa nordcoreana e alcuni membri degli Harlem Globetrotters.
È stato l’inizio di una strana amicizia – una specie di “diplomazia del basket”, riedizione della “diplomazia del ping pong” tra Stati Uniti e Cina maoista negli anni Settanta – che ha portato Rodman in Corea del Nord diverse volte: è stato a Wonsan a bere Long Island a bordo piscina e fare gare di moto d’acqua, ha conosciuto la famiglia di Kim Jong-un e portato regali alla figlioletta del leader nordcoreano, ha partecipato ai festeggiamenti per il compleanno di Kim Jong-un cantandogli “Happy Birthday” davanti a uno stadio. Dalla testimonianza di Rodman si riesce comunque a cogliere poco o niente di nuovo su Kim Jong-un: la loro amicizia “basata sul basket, non sulla politica” è rimasta abbastanza superficiale, o forse in questo modo è stata raccontata, ed è durata troppo poco. In seguito i rapporti fra i due si sono raffreddati, anche se Rodman ha fatto comunque parte – seppure in modo non ufficiale – della delegazione che nel 2018 è stata a Singapore per lo storico summit tra Kim Jong-un e Donald Trump.
È strano: leggendo una biografia di Kim Jong-un non riusciamo a capire chi sia Kim Jong-un, ma solo che non è quello che pensiamo che sia. In parte è sicuramente per via dello iato che esiste tra l’immagine onnipresente e insistita che ci arriva dalla propaganda e i brevi squarci in cui vediamo dettagli della persona reale – da una parte le immagini di parate, saluti militari, divise verde oliva; dall’altra le testimonianze su un ragazzino perennemente in tuta che fugge le ragazze. In parte probabilmente è perché finisce sempre così quando si cerca di farsi un’idea di qualcuno partendo da un collage di esperienze personali di chi ci ha avuto a che fare per più o meno tempo.
Per noi che lo osserviamo da Occidente, Kim Jong-un sarà sempre il dittatore che riceviamo dalla propaganda. Per i suoi compagni di scuola sarà sempre il ragazzino timido e fissato col basket. Per Dennis Rodman, l’amico che andava a trovare a Pyongyang. Per Fujimoto il ragazzino privilegiato che, a 18 anni, un giorno si era bloccato e dal nulla gli aveva fatto una domanda: “Noi siamo qui a giocare a basket, ad andare a cavallo, ad andare in modo d’acqua, a divertirci insieme. Ma come sono le vite delle persone normali?”