I
bambini ci aspettano a Gerico”, dice Eman il primo giorno, al telefono. “Sto venendo a prendervi in taxi, ma siamo bloccati nel traffico. Dovremmo essere lì tra pochi minuti, inshallah.” Io e gli altri tre volontari siamo già sulla porta dell’albergo di Ramallah con le valige in mano. Nelle loro, più grandi, ci sono spazzolini da denti colorati, sonde, specchietti, pinze, gommini; tutto ciò che serve per una giornata di odontoiatria pediatrica. Nella mia, soltanto una reflex, un piccolo registratore e un quaderno. Mentre loro si occuperanno di offrire cure dentistiche ai bambini, il mio compito, come giornalista free lance, sarà quello di fare interviste e analizzare le abitudini alimentari dei pazienti e delle loro famiglie per capire in che misura dipendano dallo stato di occupazione militare in cui vivono.
L’aumento delle patologie del cavo orale che ci ha condotto qui dall’Italia, in supporto ai team presenti sul campo, ha infatti poco a che vedere con la scarsa educazione all’igiene dentale, ma è piuttosto il prodotto storico di una serie di concause che partono dall’espropriazione della terra – quindi la difficoltà di preservare le colture tradizionali e costruire un’economia agricola solida – e arrivano fino all’avvento del cibo spazzatura di matrice occidentale, che ha investito la Palestina così come il resto del mondo. Più che un effetto collaterale del benessere, però, in questo caso il junk food rappresenta spesso il rimedio più facile al rincaro dei generi alimentari autoctoni, vedremo perché. I danni che produce nei bambini, poi, sono i soliti che conosciamo – diabete, disfunzioni alimentari, buchi nei denti –, solo che qui non esiste un sistema sanitario che possa arginarli, né tantomeno prevenirli.
Quando muoversi fa ingrassare
Perciò eccoci qua, in piedi su Jaffa Street ad aspettare Eman mentre sorseggiamo il primo di una lunga serie di tè alla menta. Per strada i clacson suonano in ogni direzione, così frequentemente da non avere più alcun senso. Anziché un segnale di allarme, quest’incessante strombettio sembra più il gesto di insofferenza di chi sa che si troverà imbottigliato ad ogni spostamento per il resto della giornata, una specie di urlo meccanico.
Riflettiamo sul fatto che a quest’ora avremmo dovuto trovarci nella clinica di Nablus, una quarantina di chilometri a nord. La città, però, è stata chiusa a causa degli scontri tra la popolazione e le forze israeliane, motivo per cui la nostra missione è stata dirottata su Ramallah, capitale de facto del territorio palestinese e luogo solitamente sicuro. Difatti, mentre qui la situazione pare essere sotto controllo, là volano proiettili da settimane e le strade sono blindate. A breve, la radio ci annuncerà che tra i palestinesi di Nablus ci sono state altre sei vittime proprio ieri notte. Per lo più ragazzini.
“I bambini ci aspettano”, ripete Eman sbucando dal taxi. Eman è una social worker di PCRF, Palestine Children’s Relief Fund, la principale organizzazione umanitaria impegnata in Palestina per garantire il diritto alla salute dei bambini malati e feriti nel corso degli attacchi militari. Nei prossimi dieci giorni sarà lei a coordinare i nostri spostamenti tra la clinica municipale di Gerico e quella del vicino villaggio di Jeftlik, a far arrivare i piccoli pazienti e a spiegarci alcune cose fondamentali.
La prima è che muoversi nei territori occupati non è un’operazione banale. Coprire una distanza di venticinque chilometri come quella tra Ramallah e Gerico, ad esempio, può richiedere anche tre o quattro volte il tempo previsto. Questo per tutta una serie di ragioni, a partire dalla quantità di persone e di macchine che popolano il territorio palestinese spezzettato tra Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est, ormai ridotto a scampoli sovrappopolati (stiamo parlando di uno dei paesi con la più alta densità di popolazione al mondo). Entro questi confini, le auto, munite di una targa ben riconoscibile che impedisce loro di oltrepassarli, hanno il permesso di circolare solo lungo alcune strade (che si congestionano già di prima mattina), mentre non possono percorrere le strade più moderne riservate ai coloni israeliani (sempre all’interno del territorio palestinese). Spesso, inoltre, sono sottoposte a lunghi controlli o devono cambiare direzione a causa di blocchi militari che si parano improvvisamente in mezzo alla strada. Tutto ciò in un giorno normale, senza bombardamenti.
“Muoversi in queste condizioni genera uno stress ingestibile”, mi dirà un paio di giorni più tardi Sama Qasem, una nutrizionista di Ramallah. Durante la sua esperienza all’interno delle principali ONG che operano in Palestina, Sama si è occupata della correlazione tra fattori psicologici e insorgenza dei disturbi alimentari. “Ogni spostamento, anche minimo, può avere una serie di complicazioni imprevedibili. L’ansia di dover fare un piccolo viaggio o di sapere che qualcuno di caro lo sta facendo – a volte si tratta semplicemente del tragitto casa-scuola o casa-lavoro – porta molti palestinesi a sviluppare atteggiamenti compulsivi verso il cibo o a sviluppare una dipendenza dagli zuccheri.” La risposta a tali impulsi, poi, è a portata di mano. Mentre passeggiamo per le strade del centro, Sama mi fa notare la quantità di negozi che vendono esclusivamente dolciumi: barrette di cioccolato, marshmallow, biscotti, caramelle di ogni genere e sorta in confezioni sgargianti, a tonnellate, in scaffali alti fino al soffitto. Le marche sono quelle che conosciamo, ben pubblicizzate nei nostri supermercati.
Il junk food rappresenta spesso il rimedio più facile al rincaro dei generi alimentari autoctoni
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“Prendi una città come questa. Le case ormai sono ammassate una sull’altra. Non c’è uno spazio verde, nessun luogo di aggregazione o dedicato allo sport”, dice Sama. “Aggiungici il fatto che ogni volta che esci di casa potresti non fare ritorno e che il cibo sano è troppo caro per essere un’opzione. Ecco che una barretta di cioccolato diventa un intrattenimento, una consolazione e un modo per riempire la pancia dei bambini nell’età in cui sono più affamati.”
Scopro così che il medesimo conflitto, protratto dal secondo dopoguerra, produce conseguenze in apparenza opposte sull’alimentazione dei giovani palestinesi del 2022: da una parte la malnutrizione, particolarmente evidente in contesti come quello di Gaza, dove oltre il 64% degli abitanti soffre di insicurezza alimentare, ossia non riesce a sfamarsi; dall’altro un incremento esponenziale dell’obesità infantile come conseguenza di uno stile di vita impossibile. Per capire cosa lega questi due fenomeni, tuttavia, è stato necessario discendere la biblica strada per Gerico e mangiare un dattero.
Vivisezione di un dattero
Gerico è una città bassa e calda. Si trova a circa duecentosessanta metri sotto il livello del mare, nella valle del fiume Giordano. Da oltre dieci secoli, chi la abita cerca refrigerio all’ombra delle sue palme, oggi famose per i frutti succosi e zuccherini, i datteri della varietà Medjoul. Per assaggiarli basta fermarsi a uno dei banchetti lungo la strada, dove è possibile acquistarne qualche manciata per pochi Shekel. Dopodiché, già al primo morso si ha la sensazione di recuperare un po’ dell’energia dissipata nell’afa. Non a caso, tradizionalmente il digiuno del Ramadan viene chiuso mangiando un dattero, sull’esempio del profeta Maometto che probabilmente ne conosceva le virtù nutrizionali.
Siamo ancora in Cisgiordania, dunque entro il confine dei territori palestinesi per come sono stati “ridisegnati” dopo la Guerra dei sei giorni del 1967. Eppure – mi informa il tassista, impegnato in sorpassi acrobatici sulla strada curvilinea che discende la valle per arrivare in città – c’è poco da restare ammirati: la maggior parte dei palmeti che vedo sfilare in lontananza appartiene alle colonie israeliane. Si tratta di insediamenti frutto dell’espulsione di massa di oltre 700.000 palestinesi dalle loro case, villaggi e città all’alba della creazione dello stato di Israele nel 1948. Da allora le colonie, illegali ai sensi del diritto internazionale, possono ospitare unicamente cittadini israeliani, mentre i legittimi proprietari, trasformati in rifugiati (in totale, oltre 5,7 milioni di palestinesi), non possono più farvi ritorno. Come abbiamo accennato, le colonie sono collegate tra loro da strade riservate esclusivamente agli israeliani, che, oltre a distruggere ettari di campi palestinesi col loro passaggio, isolano le comunità e ne limitano la crescita e l’espansione. Inoltre, tagliando e frammentando il territorio, impediscono ai palestinesi di accedere alle loro terre agricole e di viaggiare direttamente tra i villaggi e i centri urbani, limitando fortemente il movimento di persone e merci.
Gran parte delle monoculture intensive di palma da dattero della Valle, dunque, sorge su terreni palestinesi requisiti ad uso degli insediamenti, che ogni anno esportano prodotti agricoli per centinaia di milioni di dollari a beneficio esclusivo del mercato israeliano, nonostante tale ricchezza, come nel caso dei datteri, sia generata per oltre la metà dallo sfruttamento di terre e manodopera palestinesi. Oltretutto, la generica etichetta “Made in Israel”, ancora largamente utilizzata anche per i prodotti provenienti delle colonie ed esportati in Europa (nonostante quanto stabilito dall’UE), rende ancora più difficile un consumo etico e consapevole.
Penuria idrica
Ma continuiamo a osservare il nostro dattero. Il problema non si ferma al solo sfruttamento della terra. Per alimentare le colture intensive, gli insediamenti illegali sfruttano le risorse idriche del territorio, sulle quali, sempre a partire dal ’67 e dopo vari accordi e disaccordi, Israele esercita un monopolio quasi totale, che si estende anche all’accesso all’acqua per uso domestico. Il risultato è che il consumo medio di acqua da parte di Israele è quattro volte superiore a quello dei palestinesi dei Territori occupati. Questo per non parlare di Gaza, dove la dipendenza dalla falda costiera come unica fonte di acqua rimasta accessibile ha portato a un pompaggio eccessivo che ha reso imbevibile oltre il 97% dell’acqua prelevata e che, già al 2018, esponeva 3 persone su 4 al rischio di contrarre malattie dall’acqua; situazione per altro destinata ad aggravarsi quando le conseguenze del cambiamento climatico previste si abbatteranno su un’area già arida e soggetta a riscaldamento, nonché priva dei mezzi necessari alla sussistenza. A causa dei blocchi aerei, navali e terresti imposti da Israele, infatti, circa il 75% della popolazione dipende interamente dagli aiuti umanitari.
Com’è facile immaginare, la disparità nell’accesso alle risorse idriche, oltre a indebolire drasticamente l’economia palestinese, un tempo basata essenzialmente sull’agricoltura, rappresenta un salto quantico in termini di alimentazione, salute e igiene, sebbene si verifichi a una distanza di pochi chilometri nella realtà delle cose. A volte di pochi metri.
La disparità nell’accesso alle risorse idriche, oltre a indebolire drasticamente l’economia palestinese, un tempo basata essenzialmente sull’agricoltura, rappresenta un salto quantico in termini di alimentazione, salute e igiene
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In Palestina, d’altronde, l’enormità del paradosso si rivela anche nelle cose più piccole. Un dattero, per l’appunto. Questo frutto bruno e brillante che fa capolino sulle tavole natalizie e che, da solo, riassume alcune delle principali conseguenze dell’occupazione israeliana: la costruzione di insediamenti illegali a fronte di sgomberi e demolizioni, l’espropriazione di risorse naturali, una politica idrica discriminatoria che fa lievitare i prezzi e rende impossibile qualunque forma di competitività per il mercato agricolo interno.
Per fronteggiare la penuria idrica, molti palestinesi devono rivolgersi alle autocisterne dei fornitori privati, con costi altissimi e poco (o nessun) controllo sulla qualità dell’acqua, oppure bere l’acqua immagazzinata nelle cisterne di plastica poste sui tetti. Acqua, s’intende, usata non solo per irrigare, ma anche per dissetarsi, lavarsi e miscelare il latte in polvere. Con la metà della popolazione composta da bambini, Gaza è un caso esemplare delle conseguenze di questa scelta obbligata. A causa del ripetuto bombardamento di infrastrutture idriche e fognarie e di una falda acquifera in pessime condizioni, il latte in polvere, di cui si nutre il 40% dei neonati, è realizzato con acqua impura, il che aumenta i rischi di varie malattie collegate all’acqua, tra cui la diarrea infantile, uno dei fattori di mortalità più rilevanti nei primi anni di vita.
A parlare, purtroppo, sono i numeri. Uno su tutti, quello legato alla mortalità infantile sotto i cinque anni: 16,5 ogni mille nati vivi in Palestina, 3,6 in Israele. Un abisso lungo il quale non corrono secoli, ma un muro di cemento costellato di telecamere. Oggi.
Una questione di sicurezza lunga 700 chilometri
A impedire lo sviluppo agricolo, dunque il mantenimento delle colture e della dieta tradizionale, contribuisce anche il cosiddetto “Security Fence” iniziato nel 2002, una barriera di separazione di oltre 700 chilometri eretta da Israele per isolare i Territori Occupati. Il tracciato del muro, che coincide solo per il 15% con la linea verde (il confine di demarcazione sancito dall’armistizio del 1949), si spinge infatti all’interno della Cisgiordania, inglobando, oltre a una quota di colonie israeliane, una serie di pozzi in precedenza utilizzati dalla popolazione palestinese, quindi sottraendo alla regione ulteriori risorse idriche.
Sempre a causa del muro, inoltre, i contadini che devono raggiungere i propri terreni agricoli hanno bisogno di ottenere un permesso come “visitatori” da parte delle autorità israeliane, operazione affatto semplice, che, insieme alle esasperati file dei checkpoint e all’orario limitato dei permessi, è un altro fattore che incide in maniera drammatica sulla produttività agricola della zona (ultimamente, il cinema si sta impegnando a raccontare le kafkiane difficoltà imposte dal muro; tra i tentativi più riusciti ci sono senz’altro il corto di Farah Nabulsi, The Present, e il film 200 metri di Ameen Nayfeh).
La frammentazione territoriale e il muro, insomma, costituiscono un altro degli elementi cruciali per la sovranità alimentare del popolo palestinese. Basti pensare che in Palestina le ferrovie non esistono e porti e aeroporti sono stati bombardati o resi inutilizzabili. Le enclave palestinesi in Cisgiordania, separate da Gaza, non hanno alcun accesso al mondo esterno, quindi al commercio in senso ampio. Se a questo sommiamo il fatto che le strade non funzionano e il territorio è delimitato da chilometri di muro invalicabile, l’esito è piuttosto evidente: non solo l’agricoltura è stritolata dalla confisca di terra e di acqua, ma, anche quando è consentita, i suoi prodotti non possono circolare. Il risultato? I prezzi salgono, le scelte si riducono, il demone del cibo “nuovo” cresce di statura.
Sala d’attesa
Arrivati alla clinica di Gerico il cerchio si chiude. Davanti alla porta dell’ambulatorio i bambini ingannano l’attesa pescando cioccolatini confezionati da un sacchetto di plastica che passa di mano in mano. Nei prossimi giorni parleremo, disegneremo e proveremo a scacciare insieme la paura del dentista, ma per ora nell’aria si respirano solo timidezza e tensione: per alcuni, anche adolescenti, è la prima volta in uno studio odontoiatrico.
L’agricoltura è stritolata dalla confisca di terra e di acqua, e, anche quando è consentita, i suoi prodotti non possono circolare: i prezzi salgono, le scelte si riducono, il cibo “nuovo” cresce.
Dentro la stanza, dietro la porta chiusa, c’è movimento. I due dentisti, Alberto e Gionata, infilano il camice, organizzano gli strumenti, puliscono i piani. È un posto diverso da quelli a cui siamo abituati, ci sono meno macchinari e meno spazio, ma non importa, è ora di cominciare. Ave, l’assistente odontoiatrica che coordina il team italiano, chiede a Eman quanti pazienti ci saranno stamattina. Eman dice che non è sicura: la città di Gerico è in sciopero per solidarietà ai palestinesi di Nablus, che oggi piangono altri morti, quelli di cui abbiamo sentito alla radio. I negozi sono sbarrati, le scuole chiuse. Non si esce volentieri.
Piano piano, però, i bambini arrivano. Da soli, con la mamma, col papà, con una schiera di fratelli e sorelle. A volte arriva una donna con un bambino solo. Indugia un po’, poi chiede se può portare anche gli altri figli, le nipoti, i compagni di classe. Inizia una lunga giornata di lavoro e di caldo appiccicoso. Io resto in sala d’attesa con i bambini e tento di imparare da loro le prime parole in arabo: cielo, faccia, scuola, correre. A quanto pare, la mia pronuncia sgangherata è un buon antidoto contro l’ansia. Mentre cerco di pronunciare correttamente sukkar, zucchero, una giovane donna in camice bianco compare sulla porta di un altro ambulatorio che affaccia sulla sala. Ride, mi dice in italiano che così non va bene, prova a correggermi. Alcuni dei bambini la salutano per nome, sono suoi pazienti o l’hanno conosciuta accompagnando da lei uno dei loro genitori. È Hanin Rjoub, la nutrizionista della clinica. Ha studiato in Italia e ne ricorda bene la lingua. Qui a Gerico si occupa di mettere a punto piani di alimentazione per pazienti affetti da malattie “non trasmissibili” come cancro, malattie cardiache e obesità, ossia patologie causate dallo stile di vita e da fattori genetici e ambientali. Malattie che, ad oggi, causano quasi il 70% delle morti nel mondo, per lo più nei Paesi a basso e medio reddito come quello in cui ci troviamo.
Molti zuccheri, poca sostanza
Hanin mi fa accomodare nel suo studio. È la prima volta, da quando sono qui che, sedendomi di fronte a qualcuno, non mi viene offerta una tazza di tè. “Inibisce l’assunzione del ferro”, dice. “E qui ne assumiamo già troppo poco.” Così ne approfitta per dirmi che l’anemia è uno dei problemi di cui si occupa più spesso: colpisce specialmente le donne in stato di gravidanza e i bambini in età prescolare e, in questo contesto, dipende prevalentemente da un’alimentazione povera di ferro o dalla carenza di altri micronutrienti. “Mi capita continuamente di trovarmi di fronte madri stremate dalla stanchezza, oppure che lamentano il fatto che il figlio non riesce a concentrarsi a scuola. A volte capita che mi dicano entrambe le cose: che sono stanche e hanno figli distratti, due sintomi della stessa malattia.”
In Palestina l’anemia è diventata un problema di salute pubblica, raggiungendo picchi allarmanti nel caso di Gaza, dove colpisce più della metà delle donne in stato di gravidanza e dei bambini al di sotto dei due anni. Si tratta di una patologia che può avere conseguenze in fase gestazionale (nascite premature, aumento della mortalità materna) e che compromette lo sviluppo fisico e cognitivo dei bambini, anche in modo molto grave.
“Ma i deficit alimentari non sono un problema limitato a Gaza”, specifica Hanin. “Se in quel caso abbiamo bambini anemici e sottopeso, in Cisgiordania spesso abbiamo bambini anemici e sovrappeso. Giusto per rendere l’idea, non ho mai avuto così tanti casi di fegato grasso come negli ultimi anni.” Questa disfunzione, che consiste nell’accumulo eccessivo di grasso all’interno delle cellule del fegato, è spesso causata da diabete, obesità, una dieta eccessivamente ricca di zuccheri e (non a caso) anemia. Un quadro complesso da gestire in un bambino, a cui spesso si aggiungono la carenza di vitamine A, D ed E, che svolgono un ruolo chiave nella vista, nella salute delle ossa e nella funzione immunitaria.
Il fegato grasso, infatti, è solo una delle possibili conseguenze di una dieta a base di zuccheri e povera di vitamine e nutrienti. Come evidenzia l’ultima ricerca dell’OMS sull’impatto del marketing alimentare sui bambini, i cibi che contengono alti livelli di grassi, zuccheri o sale sono i più dannosi per la salute, a partire da “bevande zuccherate, cioccolato e dolciumi, snack salati, prodotti da forno e merendine”; una descrizione piuttosto dettagliata della dieta di molti bambini palestinesi. Al 2019, la prevalenza dell’obesità tra i bambini palestinesi era aumentata dal 3 al 6% in 5 anni rispetto all’aumento mondiale dall’1 al 7% in 41 anni: un tempo straordinariamente breve. I bambini obesi, oltretutto, hanno maggiori probabilità di diventare adulti obesi, il che aumenta il rischio di diabete di tipo II e di malattie cardiovascolari.
“Io mi occupo di malattie che dipendono dallo stile di vita e so che lo stile di vita dipende dalle possibilità economiche di un paese”
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“Una soluzione?” mi chiede Hanin alla fine, aggrottando le sopracciglia. “Se tralasciamo per un momento lo stress a cui sono esposti questi bambini, ce ne sarebbe una valida per entrambi i problemi. Cibo sufficiente e nutriente, prodotto localmente e a prezzi accessibili, come carne, uova, latte, frutta e verdura.” A questo punto passa dall’inglese all’italiano, forse per farmisi più vicina. “Io mi occupo di malattie che dipendono dallo stile di vita e so che lo stile di vita dipende dalle possibilità economiche di un paese. Il simbolo del nostro paese è l’ulivo, ricordi? Eppure, in molte delle nostre case troverai olio di semi di girasole. La famosa dieta mediterranea è la cosa più naturale qui, proprio come da voi. Solo che noi non possiamo permettercela.”
Ci voltiamo insieme verso la porta aperta sulla sala d’attesa, dove i bambini, che ormai hanno fatto amicizia tra loro, continuano a scambiarsi caramelle mentre aspettano il loro turno dal dentista. “Possiamo anche togliergli quella roba”, dice Hanin. “Ma in cambio che cosa gli offriamo?”
Causali convergenti
Nel suo romanzo più famoso, Carlo Emilio Gadda, parlando di un delitto, usa una frase che si presta bene a descrivere quanto abbiamo visto fin qui. “Le inopinate catastrofi”, scrive, “non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti.” Ecco, se percorriamo a ritroso il nostro percorso, vediamo come ogni elemento che abbiamo inserito nel quadro della sovranità alimentare sia una delle causali convergenti verso la depressione ciclonica in cui il popolo palestinese è stato spinto.
La perdita di terra data dall’occupazione israeliana, l’accesso limitato ai mercati, la distruzione di risorse agricole chiave (comprese quelle idriche), la separazione degli agricoltori dai loro campi dovuta al muro continuano ad allontanare i contadini palestinesi delle campagne e quindi dalla possibilità̀ di sostentarsi con alimenti autoctoni naturalmente ricchi di nutrienti. A rimpiazzarli, sempre più spesso, c’è il cibo d’importazione, economico e gonfiato di zuccheri, che fa capolino ad ogni angolo e compromette la salute dei bambini, a partire dai problemi del cavo orale di cui ci siamo occupati in questi dieci giorni. D’altra parte, la perdita di competitività del mercato agricolo, tradizionalmente a capo dell’economia palestinese, ha spinto molte famiglie a lasciare i propri appezzamenti e a cercare lavoro in Israele, oppure a spostare la propria manodopera nelle colonie israeliane, in un circolo vizioso che amplifica la portata del problema.
Alle cause di questa “insicurezza alimentare” – che in ultima analisi, lo abbiamo visto, si traduce in un’elevata mortalità infantile – bisogna infine aggiungere la mancanza di accesso ai servizi sanitari di base, gli elevati livelli di stress e l’esposizione alla violenza; una serie di concause antiche quanto il conflitto israelo-palestinese, che le crescenti restrizioni imposte dalle autorità israeliane stanno portando a conseguenze estreme (soprattutto per le categorie più vulnerabili dal punto di vista fisico e sociale), rendendo più che mai necessario l’intervento di organizzazioni come PCRF, in grado di fornire cure mediche e dentistiche di alto livello.
La perdita di competitività del mercato agricolo ha spinto molte famiglie a lasciare i propri appezzamenti e a cercare lavoro in Israele, oppure a spostare la propria manodopera nelle colonie israeliane
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Certo, non saremo noi a risolvere il problema, ma alla fine di questa missione avremo offerto prestazioni gratuite a più di cento bambini; alla fine dell’anno l’intera organizzazione ne avrà curati circa millequattrocento.
Hanin ha detto che in Palestina l’ulivo è il simbolo della terra. Continuare a coltivarla, per il popolo palestinese, è un mezzo per resistere all’occupazione e allo sradicamento della propria cultura, che passa anche dalla propria cucina (dai suoi piatti tradizionali meravigliosamente vari e colorati, saporiti, sani!); così, per PCRF, continuare a venire in Palestina è un modo per sostenere il diritto ad esistere ed abitare la propria terra, ad essere sani e a ricevere cure. Un ulivo alla volta, una piccola persona alla volta.
Cento per cento palestinese
Verso l’ora di pranzo un impiegato della clinica di Gerico mi raggiunge in sala d’attesa. Vuol sapere se ho fame. Dal nostro arrivo sono passate solo poche ore, eppure ho già riempito varie pagine del mio quaderno. Allungo lo sguardo verso il piatto che mi porge con grande interesse, ma dopo quel che mi ha detto stamattina il tassista non riesco più a guardare i datteri con gli stessi occhi.
L’uomo forse capisce cosa penso, non lo so. Fatto sta che ne pesca uno e me lo porge. “Cento per cento palestinesi”, dice. Sorridiamo tutti e due. Per i giorni che mi attendono avrò bisogno di raccogliere le forze. Meglio mangiare un dattero, purché sia cento per cento palestinese.