D onald Trump durante una tappa elettorale dedicata alla lotta all’antisemitismo ha espresso un’opinione discutibile sulla medal of honor, la più alta decorazione militare assegnata dal governo americano a soldati che si sono distinti sul campo. Nell’atto di consegnare a Miriam Adelson la medal of freedom, destinata ai civili, l’ex-presidente ha pensato di definire la medaglia civile superiore a quella militare. La ragione è curiosa: capita spesso che i soldati vengano premiati dopo azioni che ne hanno compromesso il fisico, quando non sono stati killed in action. La neopremiata Adelson è invece perfettamente in forma; di più, è una healthy beautiful woman. Non è la prima volta che Trump manca di rispetto all’esercito americano e ne ha dette ben peggiori di questa, se si considera che, pur non avendo nemmeno svolto il servizio di leva, ha definito loser i soldati suoi connazionali uccisi in Francia durante la Grande Guerra. Ma ad interessarci non è l’ennesima caduta di stile di Trump, quanto la pronta risposta del suo candidato VP, che nel giro di qualche ora ha cercato di salvare il salvabile.
Il senatore dell’Ohio J.D. Vance, rivolgendosi ad una giornalista che gli chiedeva conto di questo triste confronto fra medaglie, ha parlato per un minuto senza rispondere alla domanda, limitandosi a dipingere il suo eroe come amico dei militari. Vance, che era nei marines durante la guerra in Iraq, sostiene di aver assistito alla premiazione di veterani da parte di Trump, politico che gode pur sempre di un ampio consenso fra gli ex-combattenti. In fondo l’ex presidente stava solo dicendo “nice things” su mrs. Adelson, vedova dell’ebreo americano Sheldon Adelson, ricchissimo imprenditore del gamble e finanziatore del GOP, famoso soprattutto per il suo sostegno incondizionato a Netanyahu. Vance sa bene che in un momento storico in cui i repubblicani si stanno accreditando come gli unici veri amici di Israele, omaggiare la vedova Adelson funge da scudo protettivo contro le critiche. Mossa furba quella di “non pensare all’elefante”. Eppure, difficile dire che qualcuno ci sia cascato. Trump ha un problema con le gaffe (e con l’esercito), ma è innegabile che Vance abbia detto cose vere, più convincenti di una battuta sgradevole. Ma chi è J.D. Vance?
James Donald Bowman nasce nel 1984 a Middletown, Ohio, in una famiglia operaia originaria di una contea del Kentucky sita nei Monti Appalachi; cambierà il cognome in due occasioni, prima prendendo quello del terzo marito della madre, Hamel, per acquisire successivamente quello materno, Vance. Cresce in una famiglia problematica, dovendo convivere con la tossicodipendenza della madre, i modi rozzi dei nonni, e una cultura, a suo dire, contraddistinta da violenza ed eccessi: la cultura hillbilly. Gli hillbillies sono “montanari” che abitano i Monti Appalachi – da cui la dimensione culturale dell’Appalachia – catena montuosa che segue la costa orientale del Nord-America, dall’Alabama fino al Labrador. Vance è bambino quando tramonta l’era industriale nei territori dei grandi laghi, la Rust Belt, con tutti i problemi occupativi della classe operaia locale. Diventa un giovane uomo durante la guerra in Iraq, arruolandosi nei marines nel 2003, per poi conseguire un Bachelor of Arts al college statale dell’Ohio, biglietto di accesso alla prestigiosa Yale Law School in cui studia grazie a una generosa borsa di studio per studenti meritevoli a basso reddito. Yale gli apre le porte di grandi studi legali e del fondo di venture capital di Peter Thiel, co-fondatore di Paypal. Non è finita qui: a 32 anni, nel 2016, firma l’autobiografia di successo Hillbilly Elegy che Ron Howard renderà un film nel 2020, diventa senatore dell’Ohio in quota repubblicana nel 2022 e lo scorso luglio, non ancora quarantenne, è nominato candidato vicepresidente da Trump. Niente male per chi era destinato a vivere una vita terribile in una delle zone più depresse d’America: “le statistiche dicono che quelli come me avranno un futuro difficile, e nella migliore delle ipotesi riusciranno a cavarsela senza ricorrere a sussidi statali; nella peggiore moriranno per un’overdose di eroina, come è capitato soltanto l’anno scorso a decine di ragazzi della cittadina in cui sono nato” scrive in Elegia americana.
Vance simboleggia alla perfezione l’homo novus che ha vissuto a pieno il sogno americano, con tutto il corredo di ascesa sociale e distacco dalla comunità hillbilly, composta da uomini e donne della working class bianca di montagna che nel migliore dei casi sono fuggiti dalla dura roccia appalachiana per cercare una vita dignitosa nelle città operaie, quando non sono rimasti a scavare nelle miniere. Nancy Isenberg in White Trash (tr. it Minimux Fax, 2021) ha ricostruito l’opera di razzializzazione di questo segmento sociale, degradato a falla nell’evoluzione della popolazione wasp che in larghissima parte raggiunse il picco di benessere negli anni Cinquanta e Sessanta, decenni di consolidamento del modello familiare della classe media divenuto stato dell’arte per tutto il mondo libero. Per l’appunto, white trash, spazzatura bianca, contadini che non sono mai usciti dallo stato di minorità confederata – molti abitano o hanno radici negli stati meridionali – e vivono, secondo lo stereotipo, come i neri. L’ex presidente Lyndon Johnson, un texano dall’accento pesante che seppe emanciparsi, sosteneva, come riporta Isenberg, che “se riesci a convincere il bianco più infimo che è più degno del migliore uomo nero, non si accorgerà che lo stai borseggiando…. dagli qualcuno da guardare dall’alto in basso e si svuoterà le tasche da solo”.
Vance simboleggia alla perfezione l’homo novus che ha vissuto a pieno il sogno americano.
Il Ku Klux Klan ha sempre attinto manodopera in questo gruppo, conscio che fosse proprio la distribuzione su base razziale degli spiccioli riservati agli operai a permettere ai poveri bianchi di vivere decentemente. In quella cornice i diritti civili per gli afroamericani non significavano altro che miseria per tutti. Si prenda il caso di una delle foto iconiche dell’epoca, scattata a Little Rock in Arkansas nel 1957: la quindicenne, bianca, Hazel Bryan sta urlando il suo disprezzo alla coetanea, nera, Elizabeth Eckford, una dei primi nove iscritti di colore alla Little Rock Central High School. Hazel finì presto per rappresentare i campagnoli violenti che impediscono la riconciliazione razziale negli Stati Uniti. Quello che i media liberal scelsero di non dire, dopo averla consacrata a nemico pubblico dell’America post-Jim Crow, è che Hazel è cresciuta nella cittadina rurale di Redfield, in una casa senza servizi igienici e acqua corrente, con un padre disoccupato senza diploma che la picchiava, e una madre rimasta incinta di lei a 14 anni. La famiglia Bryan riuscì a emigrare dalla campagna alla città passando dalla fame alla povertà, all’epoca della fotografia avevano perlomeno il gabinetto esterno: la giovane “sapeva abbastanza della gerarchia sociale della sua città adottiva per capire che la reputazione dei bianchi di classe operaia era basata sul sistema di segregazione”. “La permeabilità dei confini di razza avrebbe trascinato la gente come lei ancora più in basso”, scrive Isenberg. Hazel si sposerà l’anno successivo, sedicenne, per andare a vivere in un caravan; lei ed Elizabeth divennero amiche per un momento in tarda età.
Questa è solo una delle tante storie white trash che hanno segnato il Novecento americano. Cracker, squatter, trailer trash, redneck e altri epiteti utili a demonizzare persone che, secondo la vulgata, hanno scelto di vivere da sottoccupati nelle roulotte, senza cure odontoiatriche e sposati con la propria cugina. La povertà come scelta, come conseguenza di pigrizia e volontaria ottusità, un vizio recondito che porta a vivere nella sporcizia e sparare ai procioni. Persone che sono povere in quanto crudeli, o forse è vero il contrario. Credo che ognuno di noi possa citare almeno un titolo di quello che i critici definiscono rural horror – che sia Le colline hanno gli occhi (1977), La casa (1981), i più recenti Cabin Fever (2002) e La casa dei 1000 corpi (2003), o l’iconico Non aprite quella porta (1974) – i cui protagonisti sono campagnoli poveri, sporchi e ignoranti, sadici maniaci dell’accumulo che vivono in case fatiscenti e si divertono a torturare attraenti ragazzi della classe media cittadina. Il topos cinematografico nasce con Deliverance del 1972 – noto in Italia come Un tranquillo weekend di paura – che ha inaugurato una fortunata serie di titoli che rinforzarono lo stereotipo del white trash come individuo pericoloso.
Vance è “uno di loro”; un soggetto che se lasciato al suo mondo, alla sua cultura, non potrà fare altro che restare a galla in un mondo fatto di sussidi governativi e pick up tamarri, sempre che riesca a raggiungere l’età adulta. La sua storia ha il potere di riattivare vecchi istinti patriottici, essendo uno dei pochi racconti di ascesa sociale negli anni della crisi dei mutui subprime, oltre che una storia ferocemente americana: il ragazzaccio di campagna redento che entra nei college di quella élite che lo ha sempre snobbato e comincia la sua scalata verso il successo. La storia di Vance è indicatrice dello stato di salute del sogno americano, vivo, nonostante gli acciacchi di lunga data dovuti a quarant’anni di immobilizzazione sociale e alla conseguente formazione di una cerchia allargata di privilegiati, alle dirette dipendenze del primo anello della catena alimentare. Secondo questa narrazione, la democrazia americana che molti intellettuali amano odiare sta male, ma è sicuramente più sana di quelle democrazie entro cui prosperano i suoi detrattori.
Vance è l’eroe che diventa americano, più specificamente l’americano target del dream del dopoguerra: un professionista bianco protestante che abita nei suburbs. La redenzione dell’individuo-Vance prende avvio nei mesi successivi all’11 settembre, e comincia, come tante storie di quelle parti – si veda Nato il quattro luglio di Oliver Stone – con la rabbia di chi ha sentito violata la propria supremazia e decide di colpire il nemico, chiunque esso sia, ovunque esso sia: “come qualunque hillbilly degno di rispetto avevo pensato di arruolarmi volontario per andare in Medio Oriente a dare una lezione ai terroristi”, scrive in Elegia Americana. Nei marines trova la strada per la moderazione, trovandosi nella circostanza di non poter rispondere alle provocazioni, sentendosi parte di una comunità che collabora, concretamente, in vista di un fine superiore: la sopravvivenza sul campo di battaglia. Lì capisce che si era sottovalutato, avendo sempre dato per scontato che le sue insicurezze fossero causate da una debolezza connaturata alla sua condizione di ragazzo cresciuto in un ambiente difficile. “Gli psicologi parlano di «rassegnazione appresa» quando una persona si convince, come avevo fatto io nella mia giovinezza, che le scelte che fa non hanno alcun effetto sulla sua vita”. “Se a casa mia avevo imparato a rassegnarmi, i Marines mi stavano insegnando la «determinazione appresa»”.
La sua storia ha il potere di riattivare vecchi istinti patriottici, essendo uno dei pochi racconti di ascesa sociale negli anni della crisi dei mutui subprime.
Le forze armate sono il primo step del debutto in società del giovane Vance; segue il college e la formazione in una scuola d’eccellenza, la Yale Law School. Nel suo storytelling i traumi familiari del passato – con il breaking point della madre che gli chiede le urine per superare un test antidroga a lavoro – non scalfiscono più il giovane che è finalmente riuscito a fuggire dalla comunità culturale e dai suoi meccanismi di assorbimento osmotico di bad practices, per accedere alla più ampia comunità professionale dei lavoratori d’America, che siano blue o white collar. Il duro lavoro come collante ideologico del conservatorismo statunitense, che rivanga oggi un passato perduto in cui working, middle e upper class condividevano ambizioni, senso del dovere e valori patriottici, e la povertà endemica era un cancro che affligge solo i pigri e i criminali. “Yale non era solo la facoltà dei miei sogni, era anche l’opzione meno cara sul tavolo” in un ateneo in cui “oltre il 95 per cento degli studenti […] appartenevano come minimo alla classe medio-alta”. Il dream per Vance è ancora lì, vivo e vegeto.
A Yale conosce Usha, futura compagna, oltre ad Amy Chua e David Frum, mentori in differenti momenti. I “consigli preziosi” erogati dai due sembrano ovvietà a chiunque provenga da una situazione di stabilità: si va dal tentare due strade professionali diverse in una situazione di incertezza (il famoso piano B) all’indossare una cravatta a un colloquio di lavoro in uno studio prestigioso. Vance rimarca insistentemente il concetto dello zotico che pur non avendo mai visto un coltellino da burro, o un uomo in completo con scarpe e cintura abbinate, ha talento sufficiente per sfondare nel mondo dell’avvocatura d’élite. Discipline e education; esercito e università, non a caso collegate – si veda l’ampio programma di schooling per i veterani – maestre di vita in mancanza di un nucleo familiare in grado di offrire quei rudimenti di “governo di sé” garantito dalle famiglie funzionali. In sintesi, se vuoi puoi; anche il più rozzo dei montanari può ascendere all’Olimpo se accetta di farsi guidare da costanza e sacrificio.
C’è qualcosa di tipico in questo tratto dei ragazzi del sud che fanno carriera nel mondo conservatore dopo aver brillato in settori speculativi; d’altronde, sembra che Ron DeSantis si sia presentato il primo giorno di college, anche lui a Yale, in pantaloncini. L’intero libro è costellato di riflessioni sull’irredimibilità di certe culture, accompagnate da divagazioni psicologiche prive di fonti che dovrebbero rendere senso di come l’unica cosa che si possa fare con certi stili di vita antiquati è buttare il bambino con l’acqua sporca. Nel 2016 Vance pubblicò un pezzo sull’Atlantic in cui definiva Trump cultural heroin, concentrandosi sull’effetto palliativo di un miliardario che soffia sul fuoco della rabbia sociale nelle periferie deindustrializzate, pur non avendo sensibilità e competenze per risolvere i decennali problemi che affliggono la classe operaia. “Il messaggio della destra va sempre più in questa direzione: «Se sei un perdente, non è colpa tua; è colpa del governo»”. Riedizione post-crisi del fortunato slogan reaganiano per cui government is not the solution to our problem, government is the problem.
Trump, secondo Vance, non avrebbe colto che il vero problema è la cultura di provenienza: “Non molto tempo fa, un’insegnante che lavora con giovani a rischio nella mia città natale mi ha detto: ‘ci viene chiesto di essere dei pastori per questi ragazzi, ma loro sono stati cresciuti dai lupi’. E questi lupi sono qui fra noi – non vengono dal Messico, né tantomeno vagano per i corridoi di Washington o Wall Street – ma esattamente qui, nelle comunità e nelle famiglie dell’America profonda.” Pur avendo lontanamente colto il punto – l’immigrazione apporta più benefici che svantaggi al sistema sociale americano – Vance ritorna sulla predisposizione genetica di certi individui pericolosi: il lupo è per natura predatore. Come fu per neri, ebrei, italiani, portoricani e irlandesi, esiste un elemento razzializzante che rende accettabile una lettura lombrosiana presentata sotto mentite spoglie, grazie all’uso poco cauto del termine “cultura”, a sintetizzare la totalità degli atteggiamenti di un certo gruppo antropologico. Le roulotte malsane e il rachitismo infantile sono un’evidente conseguenza dell’assenza di alternative degne per gli white trash: eppure, l’attaccamento alle proprie radici diventa l’elemento che discerne chi vorrebbe crescere i figli nei suburbs, e accetta il cursus honorum à la Vance, da chi invece sceglie di rimanere povero e stupido. Perché? Perché è più semplice così.
In sintesi, se vuoi puoi: anche il più rozzo dei montanari può ascendere all’Olimpo se accetta di farsi guidare da costanza e sacrificio.
Lavorando come cassiere in un supermercato di Middletown Vance si scopre “sociologo dilettante”:
Ho capito […] come la gente truffava il sistema del welfare. Acquistavano due casse di bibite con i buoni e poi le rivendevano a prezzo scontato per mettersi in tasca un po’ di soldi. Facevano ordini separati, perciò pagavano la roba da mangiare con i buoni, e birra, vino e sigarette con i contanti. […] Non riuscivo proprio a capire come mai la nostra vita fosse così difficile mentre quelli che vivevano di sussidi pubblici si godevano gingilli che io non mi sognavo nemmeno.
Ogni due settimane ricevevo un piccolo assegno e prendevo nota della ritenuta fiscale. Altrettanto spesso la nostra vicina tossicodipendente acquistava bistecche con l’osso, che io non potevo permettermi ma che lo zio Sam mi costringeva ad acquistare per qualcun altro.
Il welfare – termine che negli USA indica le declinazioni dell’assistenzialismo – è causa di decadimento sociale ed economico; le culture che perseverano nei propri tratti più nocivi sono agevolate dal governo che risolve loro il problema dell’adattamento ai cambiamenti sociali, dandogli quanto basta per sopravvivere. Al pari di quegli studiosi che fecero ricerche sulle comunità afroamericane, come Murray e Moynihan, Vance ritiene che certi tratti culturali sarebbero obsoleti, inabili a reggere il passo delle sfide di una civiltà che non è più contadina, né tantomeno operaia o, volendo, impiegatizia.
Nel 2019 due studiosi appalachiani, Anthony Harkins e Meredith McCarroll, hanno raccolto i contributi di studiosi del territorio in un volume intitolato Appalachian Reckoning: A Region Responds to Hillbilly Elegy, pubblicato dalla West Virginia University Press. In un saggio, il sociologo Dwight Billings fa notare che l’opera di Vance presenta tutta quella serie di stereotipi sugli appalachiani contro cui i ricercatori come lui lottano da anni. Ciò che colpisce Billings è che “Vance vede l’Appalachia attraverso la lente distorta della sua esperienza in una famiglia disfunzionale”; per quanto l’ambiente circostante condizioni quello domestico, dunque lo sviluppo individuale, le singole esperienze di vita non necessariamente riflettono la limitata gamma di possibilità a cui un gruppo sociale è predestinato. La regola del determinismo sociale era probabilmente valida tempo addietro: se un secolo fa gli irlandesi potevano diventare solamente poliziotti o gangster, oggi persone con antiche discendenze scozzesi-irlandesi possono entrare nei legal team della Silicon Valley. Come Vance, per l’appunto.
Le singole esperienze di vita non necessariamente riflettono la limitata gamma di possibilità a cui un gruppo sociale è predestinato.
Sembra che il candidato VP veda nella sua persona un caso di eccezionalismo: raro esemplare di hillbilly che segue il dream, rinunciando a quel cumulo di banalizzazioni della complessità individuale, familiare e comunitaria che comporrebbero l’identità di un gruppo. Il nostro si racconta come la versione micro di quanto sono, in macro, gli Stati Uniti dello storytelling rivitalizzato da Trump, un unicuum di virtù nella storia delle nazioni. Non è un caso, secondo Billings, se il libro è stato preso per guida al fenomeno della trumpizzazione dell’Appalachia proprio da chi non ha mai messo un piede in quella regione o da chi, come Larry Summers, non conosce i problemi della classe operaia. Il saggio di Billings è reperibile nella traduzione italiana all’interno del numero monografico Poor Whites/White Trash della rivista di letteratura e cultura statunitense Àcoma, prova di un interesse per questi temi anche nel nostro paese, vista l’urgenza di molti scienziati sociali di capire quanto succede nelle campagne dell’impero. Territori colpiti dal dilagare degli antidolorifici e dai correlati decessi per overdose, vera e propria epidemia che Vance nel suo testo non menziona quasi mai. La storia è stata raccontata da due giornalisti, Barry Meier in Painkiller e Beth Macy in Dopesick, da cui derivano le due omonime serie tv prodotte da Netflix e Disney.
A testimoniare la laicità intellettuale dei due curatori di Appalachian Reckoning, ogni punto di vista è ben accetto, anche una difesa dello scrittore-senatore. Kelli Hansel Haywood scrive in In defense of J. D. Vance che gli stereotipi tratti dalla sua esperienza personale sono molto simili a quanto riportato dalle statistiche sull’Appalachia. Ma ciò che ci interessa qui è come Vance racconta la sua Appalachia, più di ciò che dice sul territorio. Haywood scrive: “smettiamola di nasconderci dietro una foglia di fico e di criticare un uomo per il suo libro che è perlopiù una raccolta di memorie, solo in piccola parte analisi del territorio e, ancor meno, polemica politica”. Vero. Quello di Vance ha il vantaggio di essere un romanzo autobiografico; il suo autore non è tenuto a presentare dati validati. Il manoscritto non ha passato un processo di peer-review, e lui è abbastanza furbo da sapere che potrebbe sostenere, a ragione, di non essere tenuto a sottoporlo a referaggio prima di inviarlo all’editore.
Non essendo una ricerca scientifica la sua, ma un cumulo di opinioni maturate osservando il mondo, otto anni dopo Vance negherà sé stesso senza particolari remore. Nel discorso di accettazione della nomina a VP, Middletown diventa “una cittadina dove la gente parla francamente e costruisce con le proprie mani, un posto dove i cittadini amano il proprio Dio, la propria famiglia, la propria comunità e il proprio paese con tutto il cuore”; un luogo che “è stato a lungo tenuto in disparte, e oggi dimenticato dalla classe dirigente di Washington”. Segue una rassegna delle pessime scelte di Joe Biden durante le amministrazioni Clinton (NAFTA e China Trade Bill) e Bush (la guerra in Iraq). Queste e altre decisioni hanno, semplicemente, creato dei mostri: “in cittadine piccole come quella in cui sono cresciuto in Ohio, o anche cittadine analoghe in Pennsylvania, Michigan, o negli altri stati di questa nazione, i posti di lavoro sono stati delocalizzati e i nostri figli mandati in guerra (jobs were sent overseas and our children were sent to war)” In sintesi: “Joed Biden ha rovinato tutto, e la mia comunità sta pagando il prezzo più alto”. Nel 2016 Vance si definiva neo-con e sosteneva che olio di gomito e libero mercato fossero le soluzioni per innovare territori arretrati; otto anni dopo l’élite di DC diventa la responsabile di deindustrializzazione, guerre ed epidemie. Quella stessa élite con cui ha condiviso le aule di Yale e gli uffici della Silicon Valley, cosa che vede bene di omettere nei suoi discorsi.
Tom Nichols, staff writer dell’Atlantic, conservatore cresciuto in una famiglia operaia al pari di Vance, dedica al candidato VP un articolo, “Hillbilly Excuses”, sottotitolato “J. D. Vance champions the narrative he once attacked”. Secondo Nichols un messaggio del calibro di jobs were sent overseas and our children were sent to war sembra “un’espressione che avremmo potuto sentire nel 1972, pronunciata da un hippy in divisa militare scolorita che manifesta contro Nixon, davanti alla Casa Bianca”. Uno slogan tipico dell’ala dura del Partito Democratico degli anni Settanta, che vedeva certe comunità come incapaci di autodeterminazione e dunque bisognose di protezione. Ma la questione qui è diversa: l’inversione di tendenza di Vance segue la lunga radicalizzazione del GOP cominciata, forse, con Fox News e Rush Limbaugh una trentina di anni fa, e velocizzata da quasi un decennio di trumpismo. È legittimo cambiare opinione, ma come specifica Nichols, “può chiederci di credergli quando sostiene di aver cambiato opinione, il che è legittimo – ma non può più chiederci di prenderlo sul serio (he can never ask again anyone to take him seriously)”.
Nel 2016 Vance si definiva neo-con e sosteneva che olio di gomito e libero mercato fossero le soluzioni per innovare territori arretrati; otto anni dopo l’élite di DC diventa la responsabile di deindustrializzazione, guerre ed epidemie.
Riguardando il cv di Vance non si può non riconoscergli una serie di meriti professionali ma anche, e forse soprattutto, letterari, fra cui quello di aver scritto un romanzo potente, che racconta con un linguaggio accattivante una storia di vita condita da interessanti riflessioni sull’America profonda, capace di stimolare la morbosità del lettore istruito della classe media – non a caso, è stato incensato dal New York Times. Ma un romanziere scrive fiction, per l’appunto, e dovrebbe essere cosciente delle conseguenze derivanti dalla politicizzazione di quelle fiction; allearsi con Trump, che del cospirazionismo centrato ossessivamente sul noi-contro-loro ha fatto la cifra della sua politica, significa non prendersi cura di cosa potrebbe produrre la propria narrazione. Possiamo pur leggerlo e apprezzarne lo stile, ma he can never again ask anyone to take him seriously.