S e siamo qui un motivo ci sarà: in Italia ci eravamo stancati del sistema burocratico, delle tasse e del pessimismo. Qui, invece, si respira ottimismo”. Ci troviamo in un caffè nel centro di Tirana, nel quartiere del Blloku, la zona di quella che fu la nomenklatura comunista albanese e che dal 1991, dopo la caduta del regime, si è trasformata nella zona della movida della capitale. A parlare è un giovane imprenditore pugliese che quattro mesi fa ha deciso di trasferirsi sull’altra sponda dell’Adriatico, aprendo una piccola impresa di servizi dedicata proprio agli italiani che vogliono fare business qui. Una strada intrapresa da un numero crescente di connazionali.
“Sono circa 22.000 gli italiani che vivono oggi in Albania”, spiega Irena Xhani-Ilajaj, direttrice del patronato INAC di Tirana, “anche se personalmente ritengo che questa sia una stima al ribasso”. Imprenditori, pensionati, studenti: queste le categorie più rappresentate e con cui questo Caf più spesso si ritrova a interagire. La vicinanza geografica e la diffusione della lingua italiana, parlata da due terzi della popolazione albanese, sono tra i fattori più attrattivi, ma non sono gli unici. “Le aziende qui trovano manodopera qualificata e giovane, tra cui ragazzi che si sono formati proprio in Italia, e soprattutto un sistema fiscale favorevole, con una serie di agevolazioni per le imprese: si parla di un’imposta sull’utile che varia dal 5 al 15%, l’IVA è al 20%”, afferma Alda Bakiri, segretario generale della Camera di Commercio italiana, situata nella centralissima piazza Skanderberg. È anche vero, inoltre, che gli operai albanesi a oggi non dispongono di grosse coperture sindacali, fattore che invoglia molti imprenditori a delocalizzare in Albania: “i sindacati ci sono, ma raramente tutelano i diritti del lavoratore: nelle fabbriche trovi gente malpagata, non assicurata; la manodopera costa poco e i datori di lavoro non sono sostanzialmente tenuti a garantire nulla”, spiega ancora Irena Xhani-Ilajaj. Stando ai dati dell’Istituto Albanese di Statistica, nel giro di poco più di dieci anni, dal 2000, lo stipendio medio è passato da 107 a 375 euro. Nonostante l’incremento, sono numeri ancora distanti dai salari italiani.
Le aziende italiane sono presenti in Albania in maniera continuativa dal 1992, escludendo il 1997, l’anno della guerra civile che sconvolse il paese e che bloccò temporaneamente il fenomeno. Se dagli anni Duemila si è registrato un boom per quanto riguarda l’apertura di call center italiani e, ancor più recentemente, di aziende che operano nel settore dell’IT, storici sono invece i legami italo-albanesi nel settore manifatturiero. È soprattutto il tessile uno dei settori trainanti, con marchi come Tods, Gucci o Prada che da tempo producono in Albania. “L’Italia è il nostro principale partner commerciale e politico, ci supporta anche nell’iter di ingresso nell’UE. Tuttavia, escludendo forse l’unico porto turistico albanese, quello di Durazzo, in mano agli italiani – afferma Alda Bakiri, – le imprese italiane non gestiscono i settori strategici dell’economia albanese”.
Sono circa 22.000 gli italiani che vivono oggi in Albania. Imprenditori, pensionati, studenti: queste le categorie più rappresentate e con cui il Caf di Tirana si ritrova a interagire più spesso.
Il patronato INAC è quasi introvabile, privo di insegne, al primo piano di un edificio sprovvisto di numeri civici nel centro della capitale. Ce lo indica una sarta che lavora nella stessa via: “seguite i piedi” ci dice, indicando una scala su cui ogni tre scalini sono incollate delle orme azzurre a indicare il percorso, lascito di uno studio dentistico attivo nel condominio. In ufficio ci accolgono i ragazzi italiani del Servizio Civile, che vi lavorano da qualche mese. L’ufficio è pieno di opuscoli che reclamizzano i servizi offerti gratuitamente, quali sostegno per richiedere i permessi di soggiorno e domande di detassazione della pensione per gli italiani o richieste di riscatto dei contributi per gli albanesi che hanno lavorato in Italia. Spiccano anche un paio di copie della rivista bilingue Miqësia – L’amicizia, dalla cui copertina ci sorridono Madre Teresa, Papa Francesco e la nazionale di calcio albanese.
“Le pratiche che statisticamente gestiamo più spesso sono i permessi di soggiorno, in primis per gli studenti”, spiega ancora Irena Xhani-Ilajaj. “Abbiamo una convenzione diretta con l’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio”. Questo ateneo è una sorta di exclave italiana a Tirana: convenzionato con le università di Tor Vergata, Bari e Firenze, ospita oltre 2.000 studenti in un campus di 70.000 mq. Qui si studia esattamente come se si fosse in Italia, i titoli sono equipollenti. L’ateneo offre corsi di laurea in Medicina, Odontoiatria, Farmacia, Architettura, Infermieristica, Fisioterapia, Economia aziendale, Scienze politiche, Studi europei e, oltre alle specializzazioni dell’area medica, anche due dottorati in Statistica e Sanità pubblica.
Nell’editoriale della rivista bilingue di ateneo Pontes, il rettore Bruno Giardina scrive: “Siamo, e lo dico senza falsa modestia, un esempio unico di struttura universitaria in cui studenti albanesi, studenti italiani, professori italiani, professori albanesi si incontrano, si mescolano dando origine a un processo formativo con caratteristiche specifiche, peculiari e difficilmente imitabili”. È anche in programma la costruzione di un nuovo ospedale universitario, in collaborazione con l’ospedale Poliambulanza di Brescia, struttura che renderà l’ateneo “una delle più grandi università dei Balcani”, sostiene il professore Ernesto Alicicco. Ma perché gli studenti italiani dovrebbero preferire questo costoso ateneo di Tirana (fino a 4.000 Euro all’anno di retta) a quelli della madrepatria? “Molti di loro scelgono di accedere a Medicina superando il test presso questo ateneo per poi, dopo i primi anni, far domanda di trasferimento a Tor Vergata”, ci confida la direttrice, “quelli che invece vi conseguono la laurea, spesso risultano essere figli di primari o notai, che rientrati presto in Italia trovano subito un posto ambito”.
A Tirana incontriamo anche Carlo Bollino, editore del canale d’informazione Report Tv e del quotidiano Shqiptarja. Bollino è giornalista da oltre 35 anni e in Albania lavora dal febbraio del 1993, quando la Gazzetta del Mezzogiorno di Bari lo inviò a rilevare e dirigere un quotidiano albanese, Gazeta Shqiptare: “si trattava di rieditare una vecchia testata già pubblicata dalla società editrice barese tra il 1927 e il 1939, poi chiusa in seguito agli eventi della storia”, ci spiega. Bollino è rimasto direttore della testata, nonché del canale News24, del portale Balkanweb e della radio Rash, fino al 2007; quindi, l’Ansa gli propose un posto come capo ufficio in Medio Oriente e successivamente assunse la direzione della Gazzetta del Mezzogiorno. Tuttavia, racconta, “dopo qualche anno, nel 2011, l’editore italiano decise di cedere l’intero gruppo albanese che avevo fondato, non riuscendo a rinunciare a una importante offerta economica: a comprarlo fu un editore legato al governo albanese dell’epoca che per anni avevamo avversato come giornalisti. È stata questa la molla che mi ha spinto a lasciare la direzione della Gazzetta del Mezzogiorno e tornare in Albania, questa volta a capo di un mio piccolo gruppo editoriale nel quale ho investito gran parte dei miei risparmi”.
Attualmente quindi, Bollino è un imprenditore della comunicazione albanese, dalle idee ben chiare: “diventare editore per me è stata una scelta quasi obbligata per ricreare un polo informativo libero, e soprattutto che non fosse più in vendita per nessuno”. Oltre al giornalismo, la sua passione per la storia lo ha portato a divenire curatore del museo Bunk’Art, oggi uno dei luoghi più visitati a Tirana e il primo luogo dedicato alla memoria dei martiri del comunismo albanese. “Bunk’Art nasce per colmare un vuoto che sin dal mio primo giorno in Albania avevo percepito” ci dice. “Sebbene il paese uscisse da 45 anni di durissima dittatura comunista, non si trovavano tracce storiche di quel passato”. In un gigantesco bunker di 106 stanze, Bollino è riuscito nell’intento di raccontare il passato comunista del paese. Aggiunge: “non è stato facile superare i pregiudizi politici di quella parte pur minoritaria dell’opinione pubblica che riteneva inappropriato rivedere rigurgiti nostalgici in qualunque forma di rievocazione storica. Eppure nei primi quaranta giorni di apertura, Bunk’Art è stato visitato da 70.000 albanesi. Direi: missione compiuta”.
Gli italiani che emigrano oggi in Albania sembrano non volersi integrare nel tessuto sociale albanese, ma scelgono questo paese soprattutto come luogo di soggiorno temporaneo.
La storia di Carlo Bollino è una testimonianza di passione e cura nei confronti di questo paese di adozione, che si distingue di molto dalle altre. Gli italiani che emigrano oggi in Albania sembrano infatti non volersi integrare nel tessuto sociale albanese, ma scelgono questo paese soprattutto come luogo di soggiorno temporaneo: “si dicono ‘in Italia ora c’è crisi, vengo qui e non pago le tasse’, non hanno interesse a lasciare qualcosa alla società, guardano ai loro conti”, sostiene Irena Xhani-Ilajaj. “Pare che non abbiano voglia di lasciare radici in Albania”.
Tuttavia, come sottolinea anche Bollino, per anni l’Albania nell’immaginario europeo e italiano ha incarnato un “paese da black list; per l’opinione pubblica italiana ‘albanese’ era sinonimo di clandestino, di rapinatore o di prostituta”. Sono state la crisi e le condizioni economiche allettanti a far scoprire la repubblica adriatica agli italiani: “negli ultimi anni da generatore di crisi l’Albania è diventata generatore di idee, di ottimismo e di speranza anche per molti italiani, che stretti nella crisi economica e nella morsa della nostra burocrazia, si stanno trasferendo per cercare in Albania nuove occasioni”, continua Bollino.
Di certo questi nuovi immigrati italiani non trovano in Albania quello che ha trovato Irena Xhani-Ilajaj quando è giunta a Brindisi da Valona nel 1991: “qui, ci tengo a dirlo, gli italiani sono visti più che bene, sono sinonimo di qualità. Non vivono quella discriminazione che abbiamo vissuto noi, quella che almeno ho vissuto io, non sono indicati come minaccia in quanto immigrati, in quanto diversi”. Dopo anni di lavori degradanti, Irena è riuscita a laurearsi e realizzarsi nel mondo del sociale, dove ha sempre lavorato. A Tirana è rientrata nel 2015, dopo 25 anni in Italia. L’accoglienza albanese è forse un riflesso automatico di un popolo che ha conosciuto una grande emigrazione: “fortunatamente noi albanesi abbiamo la memoria un po’ più lunga di voi italiani”, scherza amaramente. E conclude: “certe discriminazioni fanno male, molto male a chi le riceve. Quando qui vedo che trattano da ospiti d’onore i cittadini italiani, io mi commuovo. Deve essere sempre così, perché chi lascia la famiglia, la casa, chi lascia tutto, già si porta dietro della sofferenza. Perché fargli entrare altro veleno in corpo?”
*Errata corrige: una versione precedente di questo articolo riportava una cifra errata della retta dell’Università Cattolica Nostra Signora del Buon Consiglio.