D oveva, poteva essere un anno di svolta per il paese, e per certi versi lo è stato. L’Italia ha finalmente una legge sulle unioni civili, per quanto monca: è un piccolo passo, che per quelli del bicchiere mezzo pieno è un progresso atteso verso l’inevitabile parità di diritti fra coppie di qualsiasi genere, e per quelli del bicchiere mezzo vuoto la cristallizzazione legislativa di una discriminazione, che sarà difficile superare in un paese che nutre una profondissima diffidenza verso le leggi che mirano a stimolare il progresso sociale, più che a riconoscerlo. Perché se è vero che nelle città essere gay, lesbiche o bisessuali (ma non trans o genderqueer; quello è ancora un nodo irrisolto) è diventato normale, nella provincia italiana c’è ancora chi si nasconde con cura agli occhi del mondo. E quel qualcuno, ora, ha visto contemporaneamente riconosciuta la sua esistenza e negato il suo diritto alla genitorialità.
Perché è vero, e hanno ragione quelli del bicchiere mezzo vuoto, che l’Italia è un paese che cambia malvolentieri, dove un inno nazionale provvisorio (e assai bruttarello) è diventato ormai definitivo nella prassi, e nessuna delle forze che si sono poste come portatrici di cambiamento è riuscita a modificare se non in minima parte l’assetto della società italiana.
Non c’è riuscito il PD, il cui flusso continuo di hashtag su Twitter (#cambiaverso e #lavoltabuona sono stati sostituiti da #bastaunsì) e battage propagandistico quasi a reti unificate ha fallito nel tentativo di costruire una narrativa del cambiamento. Narrativa debole, si potrebbe dire, o forse narrativa comprensibilissima che gli italiani non hanno condiviso: sbagliano sempre, i partiti che dicono che la gente “non ha capito” cosa stavano cercando di fare. Alcuni sicuramente non capiscono, altri invece sì, e non gradiscono: il tentativo di cambiare la Costituzione con una riforma (a detta dello stesso ormai ex Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi) migliorabile e legata a doppio filo a una modifica della legge elettorale non ancora avvenuta ha dato il colpo di grazia alla stagione del giovanilismo, dei quarantenni alla riscossa e delle apparizioni nelle trasmissioni del pomeriggio. Si ritorna indietro, al quieto ed elegante grigiore del neo-nominato Paolo Gentiloni, a capo di un esecutivo composto per lo più dagli stessi nomi di quello guidato da Renzi.
Non c’è riuscito il Movimento 5 Stelle, che pur avendo conquistato la guida di Roma e Torino non è riuscito a uscire dalla fase della protesta gridata di sapore adolescenziale per passare a una fase più matura, quella della proposta politica e della formazione di una classe dirigente capace e comunicativa. La lenta débacle di Virginia Raggi, eletta in primavera, senza giunta fino all’estate, di nuovo senza giunta in capo a poche settimane e ora accerchiata dai suoi stessi compagni di partito dopo le dimissioni della sua Assessora all’Ambiente Paola Muraro per un’indagine a suo carico, l’arresto di Raffaele Marra con l’accusa di corruzione e la bocciatura del bilancio di previsione, è un simbolo della difficoltà incontrata dal Movimento nel bilanciare la natura partecipativa, “dal basso” della sua base di volontari, attivisti ed elettori con quella sostanzialmente aziendale della sua gestione. Una gestione opaca, aiutata dalla (volontaria) non costituzione del Movimento in partito politico, e viziata da una gestione della propaganda interna non proprio trasparente, come ha suggerito il reportage realizzato da Craig Silverman per Buzzfeed. Del resto, la base del Movimento non ha mai davvero manifestato un desiderio di cambiamento in senso radicale che andasse al di là della sostituzione dei “vecchi” politici con i “nuovi” cittadini. Ora che sono stati accontentati – almeno a livello locale – i risultati sono tutto meno che esaltanti.
La distorsione delle notizie si è consolidata come metodo di propaganda; la debolezza e la scarsa reputazione del giornalismo italiano hanno fatto il resto.
Non ci sono riusciti i populisti italiani, prima di tutti Matteo Salvini, il cui indirizzo però è profondamente conservatore, di opposizione a tutto quello che è cambiamento e novità, anzi: di ritorno, reiterato ed esplicitato, a una supposta tradizione italiana di radice cristiana, eteronormativa e patriarcale, un Eden di famiglie nucleari eterosessuali felici e non contaminate dall’invasione straniera. Un’invasione non confermata dai numeri – gli sbarchi nel 2016 non sono aumentati rispetto al 2015, come illustra il progetto OpenMigration, e gli stranieri in Italia sono intorno all’8,2%, una delle percentuali più basse d’Europa – e che non ha portato affatto a un’“islamizzazione” della Penisola, dove i residenti di religione musulmana sono circa il 2,6%, le moschee ufficiali sono rare (solo quattro in tutta Italia) e prosperano invece i luoghi di culto fai-da-te, presenti in ogni quartiere in cui viva una percentuale significativa di praticanti. La propaganda leghista è sospettata di essere dietro l’increscioso incidente di Goro e Gorino, nel ferrarese, dove gli abitanti hanno eretto delle barricate per respingere un gruppo di donne (circa una dozzina) e i loro bambini. Un incidente che ha fatto discutere, com’era naturale, e ha costretto molte persone a prendere una posizione: “cercare di capire” si è rivelata essere una risposta inadeguata a questo tipo di situazioni.
A proposito di informazioni parziali, fuorvianti e gonfiate a scopo di propaganda: il 2016 è stato l’anno in cui la bufala ha preso il nome di “post-verità” e ha smesso di essere esclusivo dominio delle zie scarsamente addestrate all’uso di Facebook. La distorsione delle notizie si è consolidata come metodo di propaganda; la debolezza e la scarsa reputazione del giornalismo italiano hanno fatto il resto. Privi di punti di riferimento autorevoli, gli italiani si sono affidati a chiunque gli raccontasse la realtà come se la volevano sentir raccontare: ma se prima questo avveniva nei bar, ora avviene su siti che hanno l’aspetto e il linguaggio della fonte autorevole, e una potenza di diffusione centinaia di migliaia di volte superiore. A poco servono gli articoli che si preoccupano di verificare le informazioni e ricostruire i contesti in modo da attribuire alle informazioni vere il giusto peso e smascherare quelle false: sulla questione dei “35 euro agli immigrati” ne sono uscite decine, ma una frase fatta che vada incontro a un’idea conservatrice e banale del mondo fa più strada di un testo lungo che dia spazio all’approfondimento.
Conservatrice era anche la campagna del “Fertility Day”, iniziativa a sostegno della fertilità e della salute riproduttiva promossa dalla ministra Beatrice Lorenzin che ha finito per ricordare gli appelli a dare figli alla patria del ventennio fascista: riprovazione verso le donne che rimandano la gravidanza e verso chi (per scelta o caso) ha avuto un solo figlio, fertilità rappresentata come bene comune e non come attinente la sfera intima e personale dell’individuo, e un manifesto programmatico che a tratti pareva rimpiangere i bei tempi in cui le donne non venivano sospinte verso ruoli “maschili”. Si è alzato un polverone che ha portato al richiamo della campagna. Beatrice Lorenzin è tuttora Ministro della Salute.
È stato l’anno del terremoto che ha raso al suolo buona parte del patrimonio storico-artistico del Centro Italia: abbiamo perso – temporaneamente, si spera – Amatrice, Arquata del Tronto, la basilica di Norcia. Nell’Italia che del non cambiare niente ha fatto anche un punto di forza e che della conservazione delle sue bellezze ha fatto una scienza (ancora inesatta, purtroppo), quella del terremoto è una ferita lacero-contusa di proporzioni enormi. Abbiamo perso Dario Fo, lucido e vivo fino all’ultimo, e che fino all’ultimo ha partecipato al dibattito politico e civile del paese. E mentre altrove cadevano le bombe, miliardari molestatori vincevano le elezioni pur avendo perso il voto popolare e paesi uscivano dall’Unione Europea senza avere una strategia di ritiro, gli italiani si sono rifugiati nel caro vecchio solito andare.