S ono tante le figure femminili perennemente insoddisfatte che tappezzano la letteratura europea tra Ottocento e Novecento. Donne imbrigliate in una narrazione che le descrive come capricciose, deboli, instabili, ma allo stesso tempo dotate di una smania violenta, che le rende seducenti e pericolose. Sono donne mitomani, bugiarde, malate, che fanno paura, che hanno bisogno di essere curate o, nel peggiore dei casi, rinchiuse. In una parola: donne isteriche.
Questa malattia, dalla storia ambigua e sfuggente, ha avuto per lungo tempo una sola costante, il genere. La sua etimologia, che risale ai tempi di Ippocrate, si inscrive nel corpo femminile, più precisamente nel suo utero, al quale veniva ancora associata i primi anni dell’Ottocento. Per il medico Louyer-Villermay, l’esponente maggiore della cosiddetta ‘‘teoria uterina’’ popolare attorno agli anni ‘30, l’isteria derivava dai disordini sessuali della donna e rappresentava un tipico mal de mère, da prevenire e affrontare nei modi più vari: uno dei suggerimenti più gettonati era pulire ogni mattina tutta la casa (strofinando bene il pavimento!). Ma anche andare a cavallo e fare alcuni semplici lavori manuali, per esempio cucire e ricamare, preferibilmente in campagna lontano dalla ‘‘eccitante’’ vita cittadina. Assolutamente sconsigliata era invece la lettura – soprattutto di romanzi – un’attività troppo ‘‘mentale’’ per una donna, che doveva allo stesso modo evitare di bere alcol, tè e caffè. Avventato per una giovane era inoltre passeggiare da sola, intrattenersi in lunghe conversazioni (anche se futili), ascoltare alcuni ‘‘frenetici’’ generi musicali, andare a teatro, frequentare balli, concerti e occasioni mondane ritenute troppo coinvolgenti per uno spirito fragile. In poche parole, fare tutto ciò che era prerogativa dell’uomo.
Al contrario rientravano tra le cure più in voga infusi di fiori di malva, valeriana, stricnina, etere, oppio, bagni gelati, sanguisughe, elettroshock, ma anche l’uso frequente di iniezioni nella vagina e massaggi ovarici di vario tipo. Per questo genere di medici, che credeva fermamente che i sintomi dell’isteria fossero causati dall’appetito sessuale insaziabile della femmina e dalla mancanza di sperma (il ‘‘fuoco vitale’’, indispensabile per avere un corpo sano e attivo), il rimedio più consigliato era poi il sesso coniugale, necessario per ristabilire l’ordine nella vita emotiva della propria moglie, anche contro il suo volere.
Queste sono le principali credenze condivise della comunità scientifica che si raccolgono a lungo intorno alle infinite variabili dell’isteria: comportamenti malinconici, sintomi depressivi, nervosismo e irritabilità, anoressia, dolori ovarici, convulsioni, anestesia in diverse parti del corpo, crisi epilettiche, deliri e catalessi. Sino all’entrata in scena del vero padre della malattia – e maestro di Freud – il neurologo dell’ospedale della Salpêtrière Jean-Martin Charcot. Verso il 1860 quest’uomo corpulento, ricordato come un Napoleone della scienza, avanza una nuova tesi di natura neuro-celebrale. Scandalizzando l’intero mondo medico Charcot concepisce per la prima volta la malattia come il frutto di una lesione dinamica del cervello, capace di alterare diverse funzioni dell’organismo.
Scandalizzando l’intero mondo medico Charcot concepisce per la prima volta l’isteria come il frutto di una lesione dinamica del cervello.
In questo sfarzoso cambio d’abito l’isteria, illuminata secondo un canovaccio preciso, ripartito in quattro atti (epilettoide, dei ‘‘grandi movimenti’’ o clownisme, delle ‘‘attitudini passionali’’, delirio), acquista così una nuova identità che supera la presunta origine uterina e gli oscuri richiami alla possessione demoniaca, costantemente invocati dalla chiesa cattolica. Senza però riuscire del tutto a svincolare da trattamenti e palliativi sperimentali ben lontani dalla nostra immaginazione, che continuano a investire il corpo e la mente delle malate.
L’immagine dell’isteria trasmessa i primi anni dagli allievi dell’École de la Salpêtrière è ancora quasi esclusivamente femminile. È una donna lasciva, che si muove serpentinamente, suggestionando a più riprese il mondo artistico dell’epoca. Imperversa sui palchi dei cabaret e dei teatri – nella recitazione di attrici di fama internazionale come Sara Bernhardt e Eleonora Duse – e dilaga nella cultura letteraria, tra le parole dei romanzieri più sensibili ai temi scientifici. Parole che provano a raccontare una realtà femminile sempre sfocata, in costante bilico tra una patologica fragilità fisica e mentale e un’energia sessuale esacerbata, potenzialmente fatale per l’uomo che deve essere in grado di riconoscerla, domarla e, se necessario, punirla.
La si ritrova tra i meno conosciuti ‘‘romanzi della Salpêtrière’’, scritti da personalità che frequentavano il salotto e l’ospedale di Charcot come Les Amours d’un interne di Jules Claretie o la cinica distopia di Léon Daudet Les Morticoles. Penetra nei più fortunati volumi clinici di Zola, come Thérèse Raquin o il ciclo dei Rougon-Macquart, nella Germinie Lacerteux dei fratelli Goncourt e nel personaggio epico di Emma Bovary, ufficialmente diagnosticata nel 1880 dal medico Charles Richet come ‘‘isterica leggera’’, contribuendo negli anni seguenti a renderla la protagonista di una vera e propria sindrome, intrinseca al carattere sognante e ingenuo della donna moderna (che Jules de Gaultier chiamerà per l’appunto bovarismo). A fine secolo l’isteria circola dunque liberamente nella narrativa europea, tra le spire del Decadentismo e oltre, nascondendosi in alcune nostre reminiscenze scolastiche, tra l’Amalia di Svevo in Senilità e Ippolita Sanzio nel Trionfo della Morte di D’Annunzio.
E ritorna, anche nella narrativa contemporanea, tra le mura della sua prima casa, l’ospedale parigino dove si svolge il fortunato romanzo d’esordio di Victoria Mas, Il ballo delle pazze, tradotto per e/o da Alberto Bracci Testasecca.
Il libro di Mas, figlia di una famosa cantante della musica leggera francese, è stato acclamato in Francia come un vero caso letterario, e presto diventerà un film. Il racconto affonda le radici nella storia di quella città-ospedale soprannominata la Versailles del dolore, dove venivano internate donne emarginate e spaventose, di tutte le età e classi sociali, accomunate ancora da un unico stigma: l’isteria. L’autrice condensa la narrazione nel marzo del 1885, incrociando le vicende di tre personaggi femminili diversi, tutti legati alla personalità coercitiva di Charcot, il medico dal quale dipendono le loro vite. Geneviève, la sua infermiera prediletta, una donna rigida e solitaria che crede ciecamente nella scienza e che lo accompagna nelle cure quotidiane tra i letti d’ospedale. Louise, un’adolescente povera che sogna ancora di uscire e di avere una vita normale, mentre presta il suo corpo come un’attrice per le lezioni che il neurologo mette in scena ogni settimana di fronte a una platea di alunni, scrittori e artisti curiosi. E infine Eugénie, una giovane donna di famiglia aristocratica, ambiziosa e dotata di capacità paranormali, che ha sete di sapere e di entrare in un mondo abitato solo da uomini, nel quale non è previsto che una donna parli liberamente.
A fine secolo l’isteria circola nella narrativa europea, e ritorna, anche nella narrativa contemporanea, tra le mura della sua prima casa: l’ospedale della Salpêtrière.
La Salpêtrière è il luogo dove si incrociano queste tre esistenze segnate dalla morale dell’epoca e dal potere scientifico che le abbaglia e insieme le tortura, costringendole a soffocare sentimenti, emozioni e bisogni. Ma è anche uno spazio protetto, una comunità femminile dove le pazienti si confidano, si proteggono, escogitano strategie per sopravvivere a un tempo – forse non del tutto finito – in cui il loro corpo e le loro menti sono proprietà dell’uomo, del padre, del marito, del medico che le ha in cura. In questa prigione Geneviève, nonostante l’iniziale diffidenza, tenta di aiutare le due giovani mettendo in discussione non solo la fiducia nei confronti degli uomini di scienza come Charcot, ma anche delle sue stesse convinzioni in merito alla natura umana.
La monotonia disperata di una vita sempre uguale si interrompe però grazie a un evento unico nel suo genere: il ballo delle pazze. Ogni anno, il giovedì sera che cade a metà della quaresima, l’ospedale apre i battenti alla Parigi mondana, consentendo a pochi eletti di scrutare da vicino la follia in tutte le sue sfumature. Un’occasione che ossessiona le internate, che per mesi cuciono e scuciono le stesse vesti, stracci usati portati dalle infermiere sulle quali si ammassano come mosche. Il ballo rappresenta il solo incontro possibile con il mondo reale e, allo stesso tempo, una festa dal potere sovversivo, in cui le donne ripongono le loro fugaci speranze di evasione. Sperano di danzare con un elegante sconosciuto, di ricevere attenzioni, d’innamorarsi o forse soltanto di trovare qualcuno che riesca a liberarle. Ma nessun uomo mantiene questa promessa e gli invitati, voyeurs eccitati dalla fantasia della donna alienata, si limitano a malapena a guardarle negli occhi, cercando invece un tic, uno spasmo, un segno di quella nevrosi di cui tutti parlano.
Nel racconto si osservano da vicino i sintomi della malattia sulla quale si ossidano disturbi psichici differenti, all’epoca ancora poco conosciuti, come depressione, epilessia, sindromi post-traumatiche, fobie. Ma anche le paure di una società in subbuglio, che la modernità mette di fronte alle sue contraddizioni, in cui le donne tentano a più riprese di conquistare uno spazio sociale, dei diritti, la libertà di esprimere un’opinione, soprattutto quando si parla del proprio corpo. Le protagoniste del romanzo sono donne costrette in un immaginario prestabilito, scritto dalla parola dell’uomo, che si divincolano tra i doveri dell’angelo del focolare e l’ideale della musa erotica, che gli artisti vanno cercando nei fumosi bistrot, tra i ciottoli dei vicoli di Pigalle, nei corridoi di un ospedale che sembra non avere via d’uscita.
L’isteria non smette dunque di affascinare ancora oggi la letteratura che si incarica di restituire voce alle storie di donne scomode, dimenticate, le cui testimonianze meritano un nuovo interesse. Sono storie incustodite, che possono emergere dalle fotografie di un ospedale sconosciuto, da una cartella clinica abbandonata nella soffitta umida di un manicomio di provincia, dal diario trovato in uno scatolone a casa di un parente lontano. Restituire una forma a questi stralci di vita non è semplice. Si può tentare di ricostruirli, disegnandogli attorno una cornice solida, come quella imbastita con astuzia ne Il ballo delle pazze. O rassegnarsi alla loro natura frammentaria, cercando di tenerne insieme i pezzi.
Questo è forse il segno più distintivo alla base di un altro racconto contemporaneo dell’isteria: Il libro di Blanche e Marie di Per Olov Enquist, pubblicato nel 2004 e tradotto in Italia da Katia De Marco per Iperborea. Lo scrittore svedese raccoglie qui l’eredità di due grandi protagoniste della scienza moderna, in una forma convulsa e introversa che delinea le vicende storiche facendone risaltare anche l’ambigua oscurità. Gli esperimenti in laboratorio e le ricerche sulle radiazioni sono il pretesto ideale per andare a fondo nella vita di Marie Curie e della sua assistente Blanche Wittman, la ‘‘regina dell’isteria’’ musa di Charcot. Emerge così la parte più scandalosa della vita della scienziata, una donna legata al nome del marito per affetto e lavoro ma innamorata di un altro uomo, il fisico Paul Langevin, con il quale inizierà una storia clandestina (che la regista Marie Noelle mette in scena in un bel film presentato nel 2016 al Toronto Film Festival). Enquist affronta però anche la parte più scomoda della storia delle isteriche della Salpêtrière, quella di alcune giovani che dopo anni di soprusi riuscirono a uscire dall’ospedale portandosi però addosso i segni indelebili delle terapie. Un esempio è il caso di Blanche, famosa per la sua bellezza, ammirata durante le crisi spettacolari da Maupassant a Strindberg, sapientemente dipinta nel 1887 da André Brouillet nel quadro Une leçon clinique à la Salpêtrière. Ma anche di Jane Avril, ex paziente dell’ospedale, diventata poi una delle più famose ballerine del Moulin Rouge soprannominata appunto ‘‘la folle’’, ritratta in svariate affiches di Toulouse-Lautrec.
L’isteria non smette di affascinare la letteratura che si incarica di restituire voce alle storie di donne scomode, dimenticate.
È grazie all’entourage parigino di medici appassionati d’arte e letteratura che alla fine dell’Ottocento la malattia inizia ad annidarsi tra le pieghe delle rappresentazioni figurative, in un dialogo serrato tra i movimenti artistici più disparati e i paradigmi ordinati dalla fucina del sapere scientifico, in particolare nei suoi sviluppi psico-fisiologici. La forma sfuggente dell’isteria diventa in questo modo un’iconografia vera e propria, che migra dalla fotografia ospedaliera analizzata da Didi-Huberman un paio d’anni prima della morte di Foucault, alla scultura verista, sino alla pittura del Simbolismo e ai collage surrealisti di Max Ernst.
Eppure, nonostante il corpo nevrotico resti prerogativa della rappresentazione di quegli idoli femminili impagliati nello spirito misogino dell’epoca, Charcot ha aperto uno squarcio. Ha provato ad andare oltre lo spirito del suo tempo, esasperato dai lati oscuri del Positivismo e dalle derive sessiste e razziste del Darwinismo sociale e dalla criminologia lombrosiana.
Negli ultimi anni il neurologo proverà infatti a dimostrare che l’isteria, una malattia che colpisce violentemente il corpo, viene in realtà da un luogo profondo, pressoché sconosciuto, abitato da idee fisse e traumi che abbiamo dimenticato. Un luogo nel quale ora anche il maschio scopre di potersi perdere: l’inconscio. In questo spazio grigio e inquieto dove si insinuerà Freud, apparirà magicamente anche il corpo maschile. Da principio il corpo di un uomo lontano dal maschio virile che la società borghese esige. Un uomo visto come succube delle passioni libidinose, debole e effemminato, un ‘‘invertito’’ che ostenta senza remore i suoi peccati. Poi un uomo irrequieto e fragile di fronte alla propria immagine, come quello rappresentato negli acquerelli di Schiele – la cui conoscenza delle teorie della Salpêtrière è testimoniata nelle lettere con il ginecologo von Graff – e in alcune opere figurative della Secessione viennese, che frequentava il milieu medico interessato alle nuove scienze della mente. O ancora un uomo ansioso, dal temperamento artistico, un flâneur incapace di gestire le emozioni e gli imprevisti della vita quotidiana. Poeti e scrittori tormentati come Baudelaire, ritenuto a posteriori un isterico grave, o Maupassant, che aveva osato ironizzare sulla popolarità di questa nevrosi, affermando che forse tutti gli uomini geniali – persino Danton e Napoleone – avrebbero potuto essere diagnosticati come isterici ai tempi di Charcot.
L’isteria perderà infine nel corso del Novecento la sua iconografia madre, femminile, per sfrangiarsi nel racconto straziante della violenza, della povertà, della libertà negata, che insegue anche l’uomo comune. Troverà un nuovo spazio di ascolto, in cui le parole sconnesse di disturbi differenti porteranno ad altre forme e ad altre cure. Eppure, ancora oggi, se sei una donna e hai una giornata storta, in cui fatichi a stare in equilibrio tra le cose che ti succedono, può capitare di sentirsi rivolgere la domanda semiseria: “ma che cos’hai? Sei isterica?”