E sistono diverse costruzioni dell’anzianità, almeno quante sono le continue riorganizzazioni della società e dei valori che la legittimano. Il volume Invecchiare. Prospettive Antropologiche (Meltemi Editore) curato da Jacopo Favi, di cui riportiamo parte dell’introduzione, fornisce coordinate introduttive per affrontare il campo di studi sui processi d’invecchiamento. Dai casi etnografici scelti, emerge la capacità degli anziani di adattarsi a nuovi rapporti di forza e a nuovi significati di rispetto e autorità, nonché il loro ruolo attivo in queste trasformazioni, invalidando lo stereotipo che vede gli anziani come meri soggetti passivi sia nella sfera privata che in quella pubblica. L’utilizzo del lavoro di cura e dei conflitti generazionali come lenti d’analisi permette non solo di comprendere i diversi e asimmetrici processi d’invecchiamento, ma anche di enucleare uno spettro di reti e relazioni che influenzano le organizzazioni sociali in modo più ampio.
La svolta neoliberista negli anni ottanta, in particolare negli Stati Uniti con Ronald Reagan e in Inghilterra con Margaret Thatcher ha significato una decisa ristrutturazione dell’apparato statale e un’esaltazione della responsabilità individuale non solo in questi paesi, ma anche in molti altri paesi occidentali, mentre il Sud globale ha fatto esperienza della svolta neoliberista in particolare attraverso l’“aggiustamento strutturale”: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale iniziarono a concedere rinegoziazioni del debito in cambio di riforme volte a deregolamentare il mercato e ridurre al minimo l’interventismo statale, tra cui “tagli alle spese dello stato sociale, leggi sul lavoro più flessibili, privatizzazioni”, scrive David Harvey in Breve storia del neoliberismo. Inoltre, prosegue, “sempre più libera dalle limitazioni poste da regolamenti e barriere che fino ad allora avevano delimitato il campo d’azione, l’attività finanziaria poteva prosperare come mai prima di allora, pressoché ovunque”.
In questo contesto, osserva Sassen, “cresce la tendenza all’informalizzazione di una serie sempre più ampia di attività, dovuta al fatto che chi gestisce un’attività caratterizzata da bassi profitti tenta di sottrarsi ai costi e ai vincoli dell’apparato di controllo dell’economia formale”. L’informalizzazione del lavoro cura in Occidente, dunque, si è concretizzata attraverso una drastica riduzione di fondi e istituti appositi e un’insistenza sempre maggiore sul trasferimento della responsabilità della cura dall’istituzione statale a quella familiare.
Carroll Estes, gerontologa sociale statunitense e autrice del seminale The Aging Enterprise, nei suoi studi sull’invecchiamento negli Stati Uniti ha individuato due dimensioni in questo processo di trasferimento: il trasferimento dei relativi servizi da sistemi istituzionali (ospedali, case di riposo) ad arene non-istituzionali (casa, comunità), facendo affidamento sul lavoro non retribuito di familiari o amici; il passaggio da procedure e assistenza medica compiute da lavoratori retribuiti in un quadro istituzionale (ospedale) alle medesime procedure compiute da lavoratori retribuiti ma in casa e/o all’interno della comunità. L’informalizzazione della cura, nel caso statunitense indagato da Estes, ha avuto diversi effetti: i più importanti sono senza dubbio la svalutazione del lavoro di cura retribuito e la cancellazione di importanti protezioni legali e ammortizzatori sociali dei lavoratori, dando la possibilità ai datori di lavoro di massimizzare incarichi e responsabilità dei domestici al minimo costo possibile.
Non è inusuale trovare assistenti sanitari più anziani dei loro clienti.
Inoltre, dato che la maggior parte del carico di lavoro di cura domestico rimane o finisce sulle spalle di donne e anziani (non retribuito) e delle cosiddette “minoranze” e migranti (retribuito), questi gruppi vedono le proprie opportunità di realizzazione ristringersi considerevolmente, come nel caso degli assistenti sanitari ghanesi negli Stati Uniti studiati da Cati Coe. L’insicurezza di quando ricevere la pensione per i lavoratori di cura retribuiti (in molti casi lo stipendio è percepito in nero e non ha quindi alcun valore ai fini pensionistici), è strettamente legata ai loro diritti di cittadinanza e mette in luce, oltre alle difficoltà relative al suo raggiungimento, il valore e la considerazione che la società dà al lavoro riproduttivo.
Cosa significa a livello sociale il differimento della pensione da parte dei lavoratori domestici? Il continuo aumento di persone considerate anziane che svolgono un lavoro di cura retribuito segnala, tanto per cominciare, una disuguaglianza all’interno della categoria, troppo spesso vista come omogenea. Malgrado le legislazioni considerino tutti gli anziani allo stesso modo, ci troviamo in una situazione dove uno specifico gruppo rimanda (di fatto rinunciando) il proprio pensionamento per permettere a un altro gruppo di godere di maggiore libertà durante il proprio, come nel caso dei baby boomers statunitensi che assumono badanti e assistenti per la cura dei propri genitori e della casa. Per paradosso, non è inusuale trovare assistenti sanitari più anziani dei loro clienti. I bassi salari degli assistenti ghanesi a casa o nelle case di riposo riducono al minimo le loro possibilità di avere il tipo di cura che forniscono ad altri anziani. Anche se questi preferirebbero comunque che il lavoro di cura rimanesse all’interno della rete familiare, non possono usufruirne perché i propri familiari negli Stati Uniti sono loro stessi lavoratori migranti e dunque difficilmente disponibili (considerata l’estrema precarietà dei propri lavori) ad offrire lavoro di cura non retribuito.
Nel caso degli assistenti sanitari ghanesi presentato da Coe, la relazione tra le cattive condizioni salariali e il processo d’invecchiamento porta non solo a ritardare il più possibile il momento del pensionamento, ma a vedere nella migrazione di ritorno l’opportunità migliore per una buona vecchiaia. Qualsiasi sia la scelta (rimanere negli Stati Uniti o tornare in Ghana), osserva Coe, questa viene vissuta comunque in maniera angosciosa, in quanto anche se molti intervistati costruiscono e si affidano a una narrazione romantica del proprio paese d’origine e del rispetto nei confronti degli anziani, sono altrettanto convinti che, per assicurarsi un ritorno onorevole, devono avere dei risparmi da utilizzare come capitale economico e simbolico.
Il peculiare sviluppo nei paesi occidentali ha costruito lo scarso valore del lavoro di cura retribuito (dato che la svalutazione di quello non retribuito, quasi sempre eseguito da una donna del nucleo familiare, ha radici molto più profonde), favorendo l’ingresso in esso dei migranti: essi infatti, con la loro condizione di vulnerabilità (politica, economica e sociale) e quindi di flessibilità, compensano la rigidità e l’inadeguatezza delle istituzioni pubbliche e sanitarie. Infatti, osserva Rivas,alle immigrate vengono spesso assegnati ruoli che richiedono invisibilità, perché esse appartengono già a una categoria socialmente invisibile. Inoltre, quando le mansioni di accudimento vengono considerate naturali ed essenziali, il lavoro che comportano viene di fatto cancellato.
L’incontro tra lavoro di cura e migrazione ha prodotto, in maniera tutt’altro che neutra, un settore economico razzializzato e genderizzato. Si tratta di un vero e proprio processo di estrazione di capitale umano dai paesi più poveri e il suo trasferimento a quelli più ricchi. Questi processi estrattivi esportano nei paesi più poveri i problemi sociali creati dai sottoinvestimenti dei paesi ricchi nei servizi di assistenza pubblica, e producono, come osserva Yeates, una carenza di personale qualificato che acuisce le problematiche di accesso ai servizi sanitari e della loro efficienza nei paesi di origine più poveri, creando squilibri e faticose rinegoziazioni della solidarietà familiare in quei nuclei che vedono andarsene uno dei propri membri.
Il trasferimento del lavoro di cura ai “lavoratori domestici” è interessante perché mostra le disuguaglianze tra le condizioni in cui il lavoratore e il datore di lavoro invecchiano. L’occupazione dei primi permette ai secondi di trovare nell’invecchiamento svariate opportunità (potendo esaltare tutti i vantaggi dell’invecchiamento produttivo) proprio mentre riducono progressivamente le loro, a causa di attività fisicamente logoranti e alle incertezze legate al pensionamento. La giornalista e scrittrice statunitense Barbara Ehrenreich, nella sua penetrante inchiesta sui lavori-spazzatura negli Stati Uniti, racconta perfettamente questa dinamica:
mentre pulisco un salotto dopo l’altro, mi chiedo se la signora sarà mai portata a riflettere sul fatto che ciascuno degli oggetti e oggettini attraverso i quali esprime la sua personalità unica e irripetibile, visto dall’altra parte, è soltanto un ostacolo in più tra un essere umano assetato e un bicchiere d’acqua.