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l 15 marzo scorso, la commissione del Senato italiano che si occupa di politiche europee ha bocciato, con una risoluzione presentata dalla maggioranza di centrodestra, la bozza di regolamento UE sul riconoscimento dei genitori non biologici: una proposta che avrebbe consentito ai genitori di un minore, riconosciuti come tali da almeno uno Stato dell’Unione, di essere tutelati anche all’interno di tutti gli altri paesi membri, senza necessità di ottemperare a particolari procedure e incombenze burocratiche e includendo, sullo stesso piano, figli di coppie eterosessuali, omosessuali o avuti tramite gestazione surrogata. La bocciatura è stata anticipata, poco prima, da una circolare del ministero dell’Interno e da una precisazione della Procura di Milano tramite cui si è richiesto di interrompere drasticamente la trascrizione, e quindi il riconoscimento, dei figli avuti da coppie omogenitoriali all’interno del registro anagrafico del comune.
Politiche come questa, in uno Stato in cui, rispetto ai vicini europei, i diritti delle famiglie lgbtqia+ sono meno tutelati, riflettono il meccanismo con cui storicamente la società normocentrica, ossia la società costruita da e per le persone considerate normali, gestisce e disciplina i corpi delle persone che non incarnano il suo ideale di normalità: un meccanismo semplice che consiste nella loro piena, sistematica invisibilizzazione sociale. Queste famiglie che oggi il governo nega, tuttavia, esistono, sono tra noi e necessitano con urgenza di una forma di riconoscimento e tutela giuridica.
Se però la macchina parlamentare resta ancora una volta un passo indietro – come per l’approvazione della Legge Zan –, rifiutando di accogliere istanze che provengono dalla società civile, allora il nostro compito di ricercatorə e attivistə dev’essere quello di favorire l’ingresso di queste istanze all’interno dei luoghi tradizionalmente deputati a conservare e trasmettere il potere statale. Luoghi che ciascunə di noi può insidiare per infrangere e trasgredire il dominio dell’eteropatriarcato.
Queste famiglie che oggi il governo nega, esistono, sono tra noi e necessitano con urgenza di una forma di riconoscimento e tutela giuridica.
Abbracciando questa prospettiva, sono convinto, sulla scia delle ricerche pedagogiche radicali di secondo Novecento, che la pratica dell’insegnamento sia in grado, ancora oggi, di affermarsi all’interno dell’istituzione scolastica (statale e non) come spazio di resistenza, trasgressione ed empowerment per tutti quei soggetti che lo Stato confina ai margini, in particolare per le persone lgbtqia+.
È infatti la scuola, in quanto seconda più importante agenzia educativa dopo la famiglia (tradizionale o non), a essere luogo d’elezione in cui le nostre emozioni, i nostri desideri e affetti, se opportunamente liberati e coltivati in comunione con l’altro, possono trasformare la nostra visione del mondo. In questo senso, l’educazione istituzionale andrebbe quindi considerata non come strumento affidato a un’autorità statale e fondato su una trasmissione gerarchica e verticale del sapere, ma come spazio orizzontale per conseguire la libertà e l’emancipazione della persona – come affermavano Paulo Freire e, più avanti, bell hooks –, un luogo in cui accogliere e far convivere le diversità, dove sviluppare coscienza critica e trasmettere alle nuove generazioni competenze spendibili per la vita (le cosiddette life skills).
Qui intendo raccogliere questi principi e farli confluire all’interno di un discorso critico sulle differenze di genere, allo scopo di delineare un diverso approccio alla pedagogia e alla didattica, che assuma un punto di vista “queer” per rivoluzionare la pratica dell’insegnamento.
Il genere nella scuola italiana
Prima di intraprendere la strada per la teorizzazione di una pedagogia e una didattica queer, comincio dall’esplicitare il mio posizionamento all’interno dell’ambito che ho scelto come oggetto di indagine, ovvero la scuola italiana. Sono un individuo di sesso maschile, cisgender e attratto dalle persone del mio stesso sesso. Come moltə, ho avuto modo di frequentare le scuole pubbliche, tra il 1996 e il 2009, in una media città di provincia, subendo in alcune occasioni atti più o meno velatamente discriminatori, da parte sia del corpo docente che dei coetanei, suscitati dal mio aspetto fisico e dai miei modi considerati poco maschili. Pur non avendo mai subito violenza fisica, ho vissuto in prima persona le criticità e le contraddizioni di un sistema – quello scolastico – che, spesso solo sulla carta, promuove l’inclusività continuando tuttavia a perpetuare idee stereotipate sui ruoli maschili e femminili. Oggi coltivo il mio rapporto con l’istituzione scolastica lavorando sia come responsabile, per un gruppo editoriale, di corsi di formazione rivolti a docenti delle scuole pubbliche, sia come formatore di docenti e studentə su tematiche di genere. E vedendo in prima persona come e in che misura l’educazione alla diversità sia attualmente inclusa all’interno dei percorsi formativi avviati dalle istituzioni scolastiche, posso affermare, con cognizione di causa, che tutto ciò che riguarda l’ampio spettro di sesso e genere si basa ancora fortemente su un costrutto eterosessista e binario che permea spazi, metodi di insegnamento e perfino strumenti didattici (vedi il prezioso lavoro di ricerca condotto da Irene Biemmi sugli stereotipi di genere diffusi sui libri di testo).
L’educazione andrebbe considerata non come strumento affidato a un’autorità statale e fondato su una trasmissione gerarchica e verticale del sapere, ma come spazio orizzontale per conseguire la libertà e l’emancipazione della persona.
Sul piano strettamente normativo sorprende invece constatare, stanti le condizioni attuali, come in realtà l’educazione alle differenze di genere sia già materia prevista all’interno del nostro ordinamento scolastico, sebbene la sua istituzionalizzazione sia piuttosto recente: risale infatti al 2015, con la legge 107 “La Buona Scuola” varata dal governo Renzi. Con questa legge e le successive Linee guida nazionali emanate nello stesso anno, il ministero ha definito in cosa consista l’educazione al rispetto della parità di genere ponendo particolare enfasi al tema del linguaggio inclusivo, con la condanna della presunta neutralità del maschile sovraesteso, e definendo come “violenza simbolica” la rappresentazione inadeguata del genere femminile. Una realtà, pensandoci, lontanissima da quella che oggi, a distanza di circa otto anni, viviamo con rivendicazioni come quella, recente, del “Signor Presidente” Giorgia Meloni.
L’iter procede, nel 2017, con il “Piano Nazionale per l’Educazione al Rispetto”, un documento che si pone l’obiettivo di promuovere nelle istituzioni scolastiche, attraverso il portale www.noisiamopari.it (la cui ultima attività risale a giugno 2022), una serie di buone pratiche e azioni formative volte ad assicurare la diffusione di una cultura educativa contraria a ogni forma di discriminazione e disuguaglianza. Si arriva così, nel 2021, al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Missione 4, Componente 1), che prevede una linea di investimento (la 3.1, “Nuove competenze e nuovi linguaggi”) da 1,1 miliardi di euro da destinare alle scuole – tra le altre cose – per la riduzione del divario di genere nelle materie scientifiche e nel mercato del lavoro. Tuttavia, per quanto si colga lo sforzo, più o meno focalizzato, di abbozzare diacronicamente una strategia di contrasto alle discriminazioni di genere all’interno dell’istituzione scolastica, in nessuno di questi documenti si fa esplicito riferimento a questioni centrali come l’identità di genere, le relazioni etero- e omoaffettive, gli orientamenti sessuali, i modelli di maschilità e femminilità, o a fenomeni tristemente radicati nelle nostre classi come il bullismo a sfondo omolesbotransfobico. Insomma, l’invisibilizzazione delle tematiche lgbtqia+ rimane ancora piuttosto evidente.
A questo quadro normativo incompleto e confuso fa eco una generalizzata impreparazione del corpo docente riguardo a come affrontare e includere le questioni di genere all’interno del curricolo scolastico. Chi insegna non possiede spesso gli strumenti (né è messo nella condizione di potervi accedere) per leggere correttamente il complesso spettro di tratti biologici, mentali ed emotivi che caratterizzano il genere. Il risultato è che, in assenza di un’adeguata formazione e di linee guida nazionali, si può essere ad esempio legittimati a non riconoscere la carriera alias di unə studente transgender e a commettere nei suoi confronti, chiamandolə con il nome assegnato alla nascita, una violenza psicologica inaudita.
In generale, è tendenza diffusa nel dibattito pubblico e nelle posizioni espresse da diversi rappresentanti della scena politica nazionale circoscrivere tutto ciò che riguarda la sfera della sessualità al di fuori delle mura scolastiche, come se questo elemento, di per sé essenziale nel processo di costruzione sociale dell’identità, dovesse in qualche modo turbare il benessere dell’individuo e del gruppo (l’Italia, insieme a pochissime altre nazioni in Europa, non prevede l’obbligatorietà dell’educazione sessuale all’interno del programma curricolare scolastico).
Sul piano strettamente normativo sorprende constatare, stanti le condizioni attuali, come in realtà l’educazione alle differenze di genere sia già materia prevista all’interno del nostro ordinamento scolastico.
Se a questo aggiungiamo che aggressioni, più o meno gravi, e violenze psicologiche a sfondo omolesbotransfobico sono all’ordine del giorno all’interno delle nostre classi, è evidente che l’intera struttura su cui si regge la promessa di inclusività della scuola italiana resta ancora un miraggio. Per questa ragione, queerizzare la pratica dell’insegnamento, riattualizzando la lezione deə pedagogistə radicali di secondo Novecento attraverso i più recenti studi sul genere, può tracciare la via alternativa per una più concreta convivenza delle differenze che estrometta dal contesto-scuola categorie ed etichette di qualsiasi genere.
I corpi oppressi e la diffusione delle teorie queer
Ma iniziamo dalle basi: come si definisce una pedagogia queer? Definire “queer” un approccio pedagogico presuppone innanzitutto l’accoglienza di un contesto di ricerche filosofiche e studi di genere noti sotto l’etichetta di “Teoria Queer”. Introdotto in ambito accademico da Teresa de Lauretis, il termine “queer”, diffuso per la prima volta in accezione positiva dai gruppi attivisti statunitensi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, assume oggi una connotazione politica che si traduce nella volontà di liberare i corpi dai costrutti socioculturali di sesso e genere con cui la società normocentrica assegna a maschi e femmine ruoli, comportamenti e aspettative sociali. Il queer rifiuta l’universalismo delle categorie identitarie confutando l’idea tradizionale che in natura esista una distinzione biologica e genetica tra soli due sessi (dimorfismo sessuale), che agli esseri umani siano riconducibili due soli generi, opposti e distinti tra loro (binarismo di genere), e che le differenze comportamentali tra uomini e donne siano innate e dettate biologicamente dalla differenza sessuale (essenzialismo di genere). Gli studi queer riconoscono piuttosto il genere come un costrutto culturale che instaura rapporti di potere e di squilibrio tra individui traducendosi in un sistema di oppressione che limita le libertà dei corpi negando, in molti casi, il diritto all’autodeterminazione della persona. È il caso, per esempio, delle persone intersessuali, costrette alla nascita a subire interventi chirurgici di riassegnazione sessuale solo previo consenso dei genitori (in Europa, non è ancora stata sviluppata una legislazione unitaria e omogenea a tale proposito).
La società patriarcale e normocentrica in cui viviamo definisce infatti come condizioni naturali e normali dell’essere umano la piena corrispondenza tra sesso biologico e identità di genere (cisessualità) e l’attrazione sessuale e romantica nei confronti del sesso opposto (eterosessualità). Ciò che non rientra nei confini di questo stretto perimetro viene invece collocato dialetticamente nella sfera della devianza e, nei casi più estremi, della patologia.
Queerizzare la pratica dell’insegnamento può tracciare la via alternativa per una più concreta convivenza delle differenze che estrometta dal contesto-scuola categorie ed etichette
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Insieme alle persone lgbtqia+, le teorie queer includono, nel loro discorso sui rapporti di oppressione che si instaurano socialmente e culturalmente, diversi altri corpi, che condividono anch’essi una condizione di subalternità e marginalizzazione, dovuta non soltanto a questioni di genere ma a fattori quali colore della pelle, disabilità, peso, età, condizioni socioeconomiche di svantaggio e altri marcatori simili che, insieme, costruiscono l’identità sociale dell’individuo.
Oltre a essere cisgender ed eterosessuale, il soggetto egemone della nostra società è infatti anche bianco, adulto, di classe media e abile. Come scrive Lorenzo Gasparrini: Chi non nasce uomo bianco etero sperimenta bene cosa una società – chiamata patriarcale per coerenza storica – chiede di diverso rispetto a sé e secondo le direttrici di poteri che ineriscono la forma del proprio corpo, il colore della propria pelle, il ruolo sociale che la cultura locale esige dal genere di appartenenza e dal valore dato all’orientamento sessuale.
In questo senso, gli studi e il movimento queer lottano oggi per l’emancipazione di tutti i corpi da qualsiasi forma di oppressione. Lavorare alla definizione di una pedagogia queer significa pertanto cominciare a sensibilizzare docenti e studentə sull’impatto che sesso e genere hanno avuto – e hanno tuttora – nell’evoluzione della nostra società e nella definizione di una disparità storica a vantaggio esclusivo del soggetto maschile cisgender. Significa inoltre instaurare un’alleanza scuola-famiglia per introdurre l’educazione sessuale e affettiva nel curricolo scolastico allo scopo di affrontare due aspetti essenziali nella costruzione dell’identità personale: il genere e l’orientamento sessuale. Infine, significa decostruire in classe bias e stereotipi su cui si fondano le discriminazioni di natura sessista, razzista, di classe o dovute all’aspetto fisico, per favorire la creazione di un buon clima di convivenza, accettazione e pari opportunità.
L’insegnamento come spazio da queerizzare
Ritengo che il presupposto imprescindibile affinché ciò si realizzi risieda innanzitutto nella necessità di abbattere la barriera tra chi educa e chi viene educato. La tradizionale visione gerarchica che vuole l’insegnante come custode e dispensatore autoritario del sapere andrebbe infatti superata in favore di una prospettiva egualitaria e orizzontale in cui l’insegnante assuma, all’interno del gruppo classe, i ruoli di coordinatore, motivatore e facilitatore. L’insegnamento va quindi ripensato come processo bidirezionale in cui chi educa viene a sua volta educato, mentre chi è educato a sua volta educa. Come nota bell hooks in Insegnare a trasgredire, lo strumento in grado di innescare questo processo è la condivisione, che avviene sempre attraverso il dialogo e lo scambio di esperienze:Quando l’educazione è la pratica della libertà, gli studenti non sono i soli a cui viene chiesto di condividere, di confessare. La pedagogia impegnata non cerca soltanto di fornire strumenti di crescita personale agli studenti, poiché l’aula in cui si impiega un modello olistico di apprendimento diventa anche un luogo in cui chi insegna cresce e acquisisce competenze nel corso del processo. […] Se ci si aspetta che gli studenti condividano narrazioni confessionali senza voler condividere le proprie si esercita il potere in modo potenzialmente coercitivo.
Ripensare al processo di insegnamento-apprendimento in ottica queer significa quindi introdurre un modello educativo attivo, dialogico e partecipativo, che infonda nellə studentə un atteggiamento di ascolto critico, reciprocità e valorizzazione dell’altro. Dismettere l’autorità. Aprirsi all’ascolto attivo. Abbandonare la lezione frontale. Sviluppare agency. Costruire comunità. L’insegnamento – scrive Manuel López Pereyra in Queer Epistemologies in Education – va ripensato come “spazio di resistenza, potenziamento e trasgressione, che può trasformare la nostra società”. In questo senso, la pedagogia queer raccoglie oggi e fa sue le lezioni di pedagogia radicale che nel secolo scorso hanno decostruito e riplasmato i nostri modelli educativi, ponendosi tuttavia quale obiettivo essenziale la critica al binarismo di genere e, più in senso lato, al pensiero dicotomico, ossia la tendenza a rappresentare la realtà attraverso l’utilizzo di categorie binarie e tra loro opposte. Se infatti da un lato queste “scorciatoie” del pensiero semplificano la complessità, dall’altro, eliminando ogni sfumatura, restituiscono una visione distorta e parziale della realtà, sulla base della quale sedimentiamo i nostri pregiudizi. La lotta contro il binarismo coincide pertanto con la lotta agli stereotipi di genere che ci opprimono in società. Abbracciando questa prospettiva, López Pereyra conclude quindi che:
Insegnare in modo queer si riferisce alla possibilità di trasgredire e trasformare gli spazi sociali e culturali che sono normalizzati dalle rappresentazioni egemoniche eteronormative che perpetuano gli stereotipi di genere e permettono l’esclusione e la discriminazione contro i gruppi minoritari.
Come trasformare queste considerazioni in prassi? Il compito è tutt’altro che semplice, poiché coinvolge simultaneamente le diverse dimensioni della programmazione didattica e dell’organizzazione degli spazi di apprendimento. Né possiamo concepirlo come un processo immediato da azionare verticalmente sui nostri alunni e sulle loro famiglie senza una preventiva e reiterata azione di sensibilizzazione sulle tematiche di genere (a questo proposito può essere senz’altro utile il coinvolgimento di organizzazioni che già lavorano in questo ambito).
Ripensare al processo di insegnamento-apprendimento in ottica queer significa introdurre un modello educativo che infonda nellə studentə un atteggiamento di ascolto critico, reciprocità e valorizzazione dell’altro.
Dare visibilità, nei programmi di studio, alle figure lgbtqia+ che hanno cambiato la storia; familiarizzare con il lessico delle diversità e impostare attività didattiche interdisciplinari sui temi dell’identità e dell’alterità o finalizzate a decostruire gli stereotipi maschili e femminili: gli esempi per queerizzare la pratica dell’insegnamento possono essere tanti e di varia natura, ma uno strumento che ritengo utile per imparare a comprendere quanto la nostra pratica didattica sia effettivamente ricettiva alle questioni di genere è dato dai quattro framework che Cammie Kim Lin propone all’interno di Queering Education: Pedagogy, Curriculum, Policy.
Il primo è anche, purtroppo, il più diffuso, ed è il framework “omofobico/eterosessista”. L’educatore che, consapevolmente o meno, opera all’interno di questo framework accoglie come valido l’assunto sociale sul binarismo sessuale e di genere, considendo normale la sola identità cisgender eterosessuale, e comprendendo invece tutte le altre come devianti. All’interno del suo programma di studi fa uso di testi che veicolano una concezione essenzialista dei ruoli di genere rinforzando pregiudizi e stereotipi in difesa dell’eteronormatività. Non problematizza in classe questioni come il sesso, l’identità di genere o l’orientamento sessuale, e non intraprende azioni per disincentivare commenti o comportamenti a sfondo omolesbotransfobico.
Il secondo è il framework “della tolleranza e della visibilità”, che riconosce invece l’esistenza di identità gay, lesbiche e (a volte) trans. Chi rientra in questo framework affronta le questioni di genere in maniera episodica, inibendo le espressioni di odio e promuovendo la cultura della diversità come fonte di ricchezza. Un approccio tiepido che, focalizzando la sua attenzione sulla promozione della diversità piuttosto che sulla messa in crisi e la decostruzione della norma, non è in grado di sfidare l’eteronormatività su cui poggia la nostra cultura.
Chi opera all’interno del terzo framework (o framework “della giustizia sociale”) fa un passo avanti, proponendo una visione anti-omofobica e anti-eterosessista che intende inibire, a scuola, aggressioni e discriminazioni a sfondo omolesbotransfobico. Questo approccio, che include la decostruzione degli stereotipi maschili e femminili, la visibilità queer e l’analisi delle ingiustizie che la comunità LGBTQIA+ è costretta a subire, si traduce in una didattica inclusiva per tuttə lə studentə e sanzionatoria nei confronti delle discriminazioni di genere.
Un approccio che rifiuta completamente la concezione dogmatica di “normalità”, mette in discussione la legittimità stessa di categorizzare le identità attraverso una visione eteronormata e binaria.
In modo più radicale, il quarto e ultimo framework – quello appunto “queer” – propone invece un approccio anti-eteronormativo che rifiuta completamente la concezione dogmatica di “normalità”. Più che focalizzarsi sul fatto che le persone LGBTQIA+ dovrebbero essere trattate allo stesso modo di quelle eterosessuali, questo framework mette in discussione la legittimità stessa di categorizzare le identità attraverso una visione eteronormata e binaria. In questa prospettiva, l’omolesbotransfobia, prima ancora di essere sbagliata perché ingiusta, è sbagliata perché si fonda su presupposti inconsistenti ed errati. Chi opera all’interno di questo framework mette in risalto i meccanismi attraverso i quali la società limita la libertà dei corpi demonizzando il piacere e tentando di inibire il desiderio, decostruisce la concezione dell’identità come fissa e biologicamente segnata da un destino ineluttabile, e utilizza un linguaggio inclusivo e rispettoso di ogni diversità.
Naturalmente quest’ultimo framework, che intendo accogliere come punto di arrivo ideale verso il quale ciascuno di noi dovrebbe tendere, non può limitarsi, per essere realmente efficace e inclusivo, ad affrontare le sole questioni di genere, ma deve accogliere intersezionalmente anche elementi come la razza, la classe sociale, le disabilità e tutte quelle categorie biologiche, sociali e culturali che vengono fagocitate all’interno del medesimo dispositivo di oppressione e che, intersecandosi, generano molteplici forme di discriminazione. La pedagogia e la didattica queer devono tradursi infatti in una pedagogia e una didattica per tuttə lə alunnə. “Il queer è il rifiuto assoluto del regime del Normale” recita la zine del 2014 di Mary Nardini Gang. La Normalità definisce come fisse e immutabili le identità deə nostrə alunnə. Spetta a noi il compito di rovesciare questo paradigma e accogliere, all’interno dei nostri modelli pedagogici e curricoli scolastici, tutto ciò che sia in grado di sfidare le nozioni statiche dell’identità.