G li interrogativi sulla peculiare strategia messa in atto dalle autorità britanniche per contrastare l’epidemia in corso sono stati per settimane all’ordine del giorno. Si sono grattati il capo i corrispondenti delle principali testate straniere, incerti sull’interpretazione da dare a misure decisamente minimali in confronto a quelle di pressoché qualunque altro paese – ma non meno perplessi, visti dall’interno del Regno Unito, apparivano i suoi abitanti, che per molti giorni hanno alternato l’accumulazione frenetica di derrate alimentari e generi di prima necessità alla mancanza pressoché totale di misure di sicurezza (poco social distancing, pochissime mascherine, parchi affollati, negozi aperti ed esercenti che di rado osservavano precauzioni di qualche tipo). Solamente il 21 marzo è stata decretata la chiusura di pub, ristoranti, cinema e palestre. Poi, due giorni dopo, il netto cambio di passo: in un messaggio ai cittadini Boris Johnson dichiarava il lockdown, con restrizioni simili a quelle in vigore in Italia da quasi un mese, per quanto leggermente più miti (restano numerosi coloro che continueranno a recarsi al lavoro; è consentito uscire una volta al giorno per fare attività fisica; è possibile recarsi nei supermercati con i propri familiari). Nell’arco di qualche settimana, in sostanza, il governo ha abbandonato lo stesso piano che aveva presentato inizialmente come efficace – mostrando anzi una malcelata fierezza nel sottolinearne la diversità rispetto a quelli varati in gran parte d’Europa.
I prolungati tentennamenti e l’inversione di rotta avranno certamente un impatto considerevole in termini di vite umane – e per questo motivo appaiono tanto più stupefacenti e meritevoli di una spiegazione. I retroscena giornalistici anche approfonditi che sono circolati non sembrano del tutto in grado di dissipare i dubbi: la lunga ricostruzione pubblicata da BuzzFeed, ad esempio, riconduce l’incoerenza nelle dichiarazioni e nei provvedimenti al disaccordo tra i consulenti scientifici dell’esecutivo e ai rapporti tesi fra ‘tecnici’ e decisori. Tuttavia, come notava già diversi giorni prima l’editor del Lancet, Richard Horton, “l’evidenza scientifica è la stessa da gennaio” – vale a dire dal primo studio prodotto da un’equipe di medici cinesi. Per ragioni che lo stesso Horton definisce “sconosciute” e “non completamente chiare”, alcuni degli studiosi che il governo britannico aveva inizialmente deciso di ascoltare hanno suggerito una strategia all’apparenza contraria ad ogni evidenza. Da che parte pendesse il consenso scientifico era del resto tutt’altro che difficile da comprendere: John Ashton, uno dei più noti esperti di salute pubblica e strenuo difensore del servizio sanitario nazionale (NHS), bollava come “patetico” l’approccio dell’esecutivo Johnson non più tardi del 12 marzo; il giorno successivo Anthony Costello, ex-direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, parlava di una strategia “sbagliata e pericolosa”; il 14 la British Society for Immunology indirizzava una lettera aperta alle autorità, sollevando “interrogativi significativi” rispetto alle modalità di (in)azione prescelte (mentre un testo ancora più netto raccoglieva rapidamente decine di firme da parte di importanti immunologi di vari paesi); l’indomani William Hanage, della scuola di salute pubblica di Harvard, raccontava l’incredulità dei propri colleghi di fronte alle notizie provenienti dal Regno Unito e poneva obiezioni nel merito alle principali direttrici della politica governativa.
La ragione dello scandalo si era manifestata durante la conferenza stampa del 12 marzo scorso quando Patrick Vallance, il Chief Scientific Adviser dell’esecutivo, aveva menzionato brevemente la necessità di ottenere “una qualche immunità [al virus] nella popolazione”. Poche ora più tardi, in un’intervista rilasciata a Sky News, lo stesso Vallance parlava apertamente dell’intenzione delle autorità del raggiungere nei confronti della COVID-19 l’immunità di gregge (herd immunity). Con tale espressione si intende il fenomeno che ha luogo al sopraggiungere dell’immunità ad una data malattia infettiva in una porzione della popolazione tale da fornire protezione dalla patologia anche ai soggetti che non hanno sviluppato l’immunità direttamente. Solitamente, si adopera questa nozione soltanto nell’ambito dei virus per cui è previsto un vaccino – che funge appunto da forma di immunizzazione diretta e, superata una soglia variabile da caso a caso, anche indiretta. Nel contesto del coronavirus, invece, l’idea assume implicazioni molto più radicali: di fronte all’impossibilità di ottenere una vaccinazione prima di 12-18 mesi, si tratterebbe di lasciare che il virus infetti quella parte (maggioritaria) della popolazione che sperimenterà il più delle volte sintomi lievi – fornendo così “copertura” anche alle categorie demografiche più vulnerabili. Secondo Vallance, il raggiungimento dell’immunità di gregge nel Regno Unito richiederebbe che il virus raggiunga il 60% degli abitanti.
I prolungati tentennamenti e l’inversione di rotta avranno certamente un impatto considerevole in termini di vite umane.
Al circolare di questa cifra, lo sgomento dell’opinione pubblica non poteva che risultare palpabile: prendendo per buona una stima ottimistica della mortalità della COVID-19, il conseguimento dell’immunità di gregge implicherebbe la morte di centinaia di migliaia di persone – una cifra che sfiorerebbe il mezzo milione nello scenario peggiore. Per rendersi conto dell’enormità del dato basta paragonarlo a quello dei decessi per coronavirus a livello globale (circa 21000 al 26 di marzo) o al numero delle vittime britanniche durante la seconda guerra mondiale (450.000). L’assurdità di una strategia basata sull’immunità di gregge – che postula di fatto l’impossibilità di contenere efficacemente il contagio — risulta ancora più evidente alla luce di un’ importante ricerca apparsa alla vigilia dell’annuncio di tale approccio nel Regno Unito: secondo i suoi autori, i dati provenienti dalla Cina dimostrano che “la quarantena, il social distancing e l’isolamento degli individui infetti possono contenere” la pandemia. Il 16 marzo, una lunga analisi prodotta da un gruppo di ricercatori dell’Imperial College compiva un passo ulteriore, ponendo in pratica la pietra tombale sulla plausibilità della linea tenuta sino ad allora dal governo – che, si legge neanche troppo implicitamente nel documento, avrebbe comportato un numero esorbitante di decessi e condotto il sistema sanitario al collasso.
Dopo questa breve ricostruzione è difficile non avvertire un che di grottesco, una vena da commedia dell’assurdo che fa pericolosamente assomigliare le intenzioni iniziali dell’esecutivo alla modesta proposta di Swift, in cui l’autore suggeriva sarcasticamente di risolvere il problema della sovrappopolazione in Irlanda dando i figli dei poveri letteralmente in pasto i ricchi. Com’è possibile aver intrattenuto fino a pochi giorni fa delle idee così contrarie all’evidenza scientifica e al più banale buonsenso? Una prima spiegazione sta nel tipo di “scienza” che Johnson e i suoi consiglieri hanno invocato nel proporre l’improponibile. In particolare, molto frequenti sono stati i riferimenti alla behavioural science. Se il plurale di questa espressione viene non di rado utilizzato nei paesi di lingua inglese per indicare le scienze sociali (perlomeno nella loro componente più empirica), la forma singolare si riferisce spesso ad un campo più ristretto d’indagine, coincidente all’incirca con la psicologia sociale e l’economia comportamentale (e le loro intersezioni). Dal 2010, il governo britannico è assistito da un Behavioural Insights Team che utilizza competenze di quest’ultimo tipo per cooperare alla progettazione di politiche pubbliche efficaci. Secondo quanto ricostruito dal Guardian, sarebbero proprio i rappresentanti di tale gruppo ad essere stati maggiormente a favore del ricorso all’immunità di gregge. Nello specifico, la behavioural science è stata invocata più volte sia da Vallance che dal primo ministro per affermare l’impossibilità della tenuta di misure di quarantena e lockdown nel medio-lungo periodo – i cittadini ad un certo punto diventerebbero semplicemente “affaticati” dal rimanere ritirati e dall’essere prudenti e finirebbero con il derogare sempre più alle disposizioni di sicurezza ufficiali.
Esistono, nondimeno, numerose ragioni per ritenere questo approccio behaviouristico fuorviante nel caso dell’attuale pandemia. In primo luogo, la behavioural science ha uno statuto epistemico fragile – i suoi risultati sono notoriamente non facili da replicare e sussitono dubbi sulla parzialità ideologica di alcune sue branche nei confronti di specifiche posizioni politiche. In seconda battuta, come notano fra l’altro le ricercatrici e i ricercatori dell’Imperial College, la scala del fenomeno da fronteggiare in questo momento è inedita nella storia recente ed è perciò impossibile fare affidamento su studi (o simulazioni) del comportamento della popolazione svolti in contesti giocoforza molto diversi. Terzo, c’è un’evidente incoerenza fra la sfiducia nella capacità delle persone di conformarsi alle direttive ed il rifiuto di adottare misure più facili da imporre forzatamente (come il divieto di eventi e raduni e la chiusura obbligatoria delle attività commerciali e produttive non essenziali). Infine – e siamo qui ad un punto nodale – l’utilizzo di una metodologia behaviouristica nel formulare proposte politiche è pesantemente influenzato da assunzioni valoriali. È emblematica, in questo senso, una ricerca sul caso italiano pubblicata il 25 marzo e coordinata dal politologo behaviorista Gary King.
Esistono numerose ragioni per ritenere l’approccio behaviouristico fuorviante nel caso dell’attuale pandemia.
Nel notare i livelli di ansia estremamente elevati riportati dai partecipanti allo studio, gli autori ammettono – prudentemente – che essi potrebbero avere effetti opposti nel caso del perdurare delle misure di lockdown: l’ansia crescente potrebbe condurre ad una prudenza ancora maggiore, ma anche spingere a più frequenti violazioni dei dettami delle autorità (in linea con l’ipotesi di “affaticamento” emersa nel Regno Unito). In una breve sezione dedicata alle raccomandazioni per i decisori pubblici, lo studio non si lancia però in ipotesi apocalittiche sul fatto che il declinare del benessere mentale della popolazione possa rendere vano il contrasto alla diffusione del virus. Piuttosto – e con condivisibile pragmatismo – i ricercatori sollecitano ad adoperarsi per rendere la quarantena meno impattante sulle condizioni psichiche delle persone (ad esempio tramite la distribuzione di tablet per le videochat a chi ne è sprovvisto, l’organizzazione di programmi di lettura o classi online eccetera). Queste considerazioni, è bene notare, non sono derivate statisticamente dai dati – le possibili implicazioni dell’ansia (peraltro definita in modo molto più generico di come avverrebbe in uno studio clinico) sono chiaramente lasciate ad osservazioni di mero buon senso, mentre le proposte di azione, per quanto coerenti con i dati, non sono certo le uniche che da essi sarebbero potute scaturire. L’equipe di Harvard, in sostanza, mostra quell’equilibrio politico che nel contesto britannico è mancato. Dovremo allora domandarci: al servizio di quali idee politiche è stata mobilitata la behavioural science nel caso britannico?
A detta della stampa inglese, le due figure di vertice maggiormente favorevoli all’approccio iniziale contro la pandemia sarebbero state Johnson e il suo più stretto consigliere, Dominic Cummings – il quale avrebbe dichiarato: “se questo significa che alcuni pensionati moriranno, pazienza”. L’affermazione, prontamente smentita da Downing Street, si combina con altri episodi recenti che hanno visto coinvolto Cummings. A febbraio, un consulente governativo assunto su suo suggerimento, Andrew Sabinsky, era stato costretto a dimettersi dopo che alcune sue precedenti prese di posizione – riguardanti fra l’altro una supposta minore intelligenza delle persone nere e la necessità del ricorso alla contraccezione obbligatoria per le donne delle classi più basse – erano diventate note alla stampa. Lo stesso Cummings è conosciuto da tempo per il suo sostegno a tesi eugenetiche – che non manca di difendere facendo riferimento ad una serie di falsità pseudoscientifiche completamente confutate da decenni: ad esempio ritiene, contro il parere unanime della comunità accademica, che il DNA sia responsabile di significative differenze d’intelligenza tra le persone, e che queste debbano venire assunte come politicamente rilevanti – le posizioni sociali di vertice, ad esempio, dovrebbero essere principalmente ricoperte da coloro che registrano un QI più alto. Queste improbabili esternazioni, al pari di altre analoghe formulate da Johnson quando era sindaco di Londra, sono finora state prevalentemente derubricate come stranezze o semplici provocazioni di due personaggi la cui (non sempre volontaria) clownerie è risaputa. Tuttavia, se gli uomini più potenti del paese hanno provato a difendere per settimane una politica di contrasto alla COVID-19 fondata sull’assunto che la popolazione sarebbe tendenzialmente volubile e poco degna di fiducia, le loro bizzarre e lungamente reiterate opinioni sulla distribuzione dell’intelligenza appaiono all’improvviso potenzialmente rilevanti. A questo deve aggiungersi la natura quantomeno spregiudicata delle politiche sostenute dai due in materia di sanità pubblica: i tagli e le privatizzazioni degli ultimi anni hanno reso il Regno Unito significativamente più vulnerabile alle pandemie, mentre si avvertono ancora gli effetti della riforma voluta dai conservatori nel 2012, che fece registrare un incremento di 23000 decessi nell’arco di dodici mesi.
In un libro apparso lo scorso anno, due docenti dell’università di Oxford — Danny Dorling e Sally Tomlinson – hanno sostenuto per la prima volta la presenza di un nesso esplicito tra l’orientamento politico di Cummings e Johnson e la tradizione del darwinismo sociale – di cui le affermazioni di stampo eugenetico non sono che una possibile manifestazione. Per quanto si tratti di una suggestione intrigante, essa resta soltanto abbozzata nella loro trattazione, nella quale non è chiaro come idee apparentemente cadute nel dimenticatoio da quasi un secolo possano riproporsi nella vita di uno stato liberaldemocratico. È opinione di chi scrive che l’intuizione di questi autori, per quanto a prima vista iperbolica, sia sostanzialmente corretta e costituisca un fattore in assenza del quale resterebbe impossibile comprendere pienamente quanto avvenuto nel contesto della pandemia. Tuttavia, ciò che manca a Dorling e Tomlison è una parabola plausibile dei corsi e ricorsi del darwinismo sociale, che proverò ora ad abbozzare.
Per darwinismo sociale si intende l’estensione allo studio delle società umane dei principi della lotta per l’esistenza e della selezione naturale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento – l’effettivo ruolo giocato da Darwin in tale processo resta materia dibattuta dagli studiosi, ma non è rilevante ai nostri fini. Se nell’immaginario collettivo il darwinismo sociale è perlopiù associato al razzismo del Terzo Reich, è importante realizzare che non si tratta di una tradizionale ideologia di estrema destra – ma di una visione del mondo nata e sviluppatasi nell’alveo della tradizione liberale. Al liberalismo inglese e americano sono ascrivibili, sottolineava Domenico Losurdo, i suoi principali precursori – da Malthus a Townsend allo stesso Franklin -, così come liberali erano coloro che ne assicurarono la diffusione, primo fra tutti Herbert Spencer (il cui accento sulla competizione come principale motore della vita sociale ne fa, secondo l’interpretazione di Pierre Dardot e Christian Laval, un poco apprezzato precursore delle concezioni neoliberali). Tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo il darwinismo sociale, prendendo sempre più la forma non tanto di una specifica teoria politica ma – seguendo la tesi canonica di Mike Hawkins – quella di una assai più generale Weltanschauung, acquista enorme popolarità, assumendo le declinazioni più eterogenee (dall’anarchismo di Kropotkin alle tesi di figure che ispirarono i nazisti come Heinrich von Treitschke).
Il darwinismo sociale è una visione del mondo nata e sviluppatasi nell’alveo della tradizione liberale.
Uno dei motivi che resero attraente il darwinismo nelle sue varie declinazioni fu l’ingresso quasi contemporaneo delle categorie biologiche di specie e popolazione all’interno della sfera politica, nell’ambito di quella che Michel Foucault definì la presa in carico della vita da parte del potere. Il vecchio diritto sovrano di far morire e lasciar vivere venne quindi attraversato e modificato dal potere di far vivere e lasciar morire. Questa nuova biopolitica assumeva ad oggetto le questioni della natalità, della longevità e della mortalità, servendosi per la prima volta di un’articolata misurazione statistica di tali fenomeni. Tramite una serie di nuovi strumenti e apparati (la nascita di un ‘welfare’ ancora molto rudimentale, per esempio) lo stato assunse così il compito di intervenire per potenziare la vita della popolazione e controllarne i rischi. È all’interno di questa cornice che il ricorso alla nozione di specie (non di rado abbinata a quella di razza) guadagnò un ruolo strategico fondamentale nel separare ciò che doveva vivere da ciò che doveva essere lasciato morire – solo in forza di una simile distinzione, infatti, la specie poteva evolversi e rafforzarsi, riprodurre i suoi elementi più forti e lasciar perire quelli deboli, in un discorso la cui possibile connotazione classista è almeno altrettanto evidente di quella razzista. L’avvento della biopolitica facilitò al tempo stesso una graduale virata all’interno del campo del darwinismo sociale, messa a fuoco già da Richard Hofstadter: da un darwinismo legato quasi esclusivamente ad una visione individualistica degli attori economici nel contesto del “libero” mercato si passò ad uno progressivamente aperto a declinazioni collettivistiche e razzializzanti.
La situazione mutò irreversibilmente con i due conflitti mondiali. Al termine del primo un’esplicita difesa del darwinismo sociale negli Stati Uniti sembrava, nelle parole di Hofstander, “troppo simile alla propaganda tedesca”, mentre il secondo avrebbe portato in molti paesi una tanto consolatoria quanto ingannevole equazione tra nazismo e darwinismo. Paradossalmente, l’uscita nel 1944 ed il successo del libro di Hofstander – in cui le radici liberali estremamente profonde del darwinismo sociale statunitense venivano portate alla luce – finirono per contribuire a un’operazione di frettolosa presa di distanze, di rapido imbiancamento dei vecchi sepolcri. Quella Weltanschauung che per un breve periodo aveva influito significativamente sulla politica di una buona parte del mondo pareva destinata a scomparire – ma non lo fece.
Nella seconda metà del ventesimo secolo un’interpretazione social-darwinista del concetto di evoluzione iniziò a svilupparsi in due contesti distinti e che fino ad anni recenti sarebbero apparsi lontanissimi. La prima direttrice parte da un esponente della prima generazione di darwinisti americani: William Graham Sumner. Nelle sue lezioni di economia a Yale, Sumner parlava della società come di un organismo che deve raggiungere un punto di equilibrio, inteso come una sorta di compromesso corporativo tra le varie classi. Un suo studente, Irving Fisher, fu il primo a matematizzare questa nozione social-darwinista di equilibrio – rendendola così impiegabile nella teoria economica per come la conosciamo oggi. Fisher ebbe una carriera brillante e una vita avventurosa, che lo condussero fra l’altro a diventare uno degli esponenti più noti della scuola economica neoclassica e un aperto sostenitore dell’eugenetica (elementi questi che egli intendeva come legati a doppio filo). Nella sua storia del mito della razionalità dei mercati Justin Fox riporta come tematiche dalle chiare tinte social-darwiniste sarebbero ricomparse alla metà del secolo all’interno della nascente teoria economica neoliberale. In due articoli che avrebbero fatto storia, Armen Alchian e Milton Friedman si servivano di una versione estremamente semplificata della teoria dell’evoluzione per risolvere l’annoso dibattito intorno alla massimizzazione del profitto come criterio-guida per le azioni delle imprese nel mercato. Negli anni immediatamente precedenti, infatti, economisti come Lester e Machlup si erano scontrati riguardo al fatto che gli imprenditori fossero o meno coscienti di stare seguendo un criterio di massimizzazione al momento di compiere le loro scelte. Alchian e Friedman proponevano, con diversi livelli di radicalità, di aggirare completamente l’interrogativo: cosa le imprese sappiano o ignorino è irrilevante, perché la competizione fra di loro porterà alla sopravvivenza del più adatto – cioè di chi massimizza il profitto. Come nota Philip Mirowski, questa soluzione riposava in ultima analisi su un ricorso puramente strumentale alla biologia: i due economisti ignoravano il dibattito biologico degli ultimi cinquant’anni e anche la loro rilettura della teoria darwinista ne metteva tra parentesi degli aspetti centrali. L’obiettivo era piuttosto trasformare una certa nozione di evoluzione nell’ipotesi che i mercati siano intrinsecamente razionali proprio perché basati su una meccanica evolutiva. La efficient markets hypothesis, malgrado sia ormai stata ampiamente confutata, continua ancora, come una sorta di zombie, ad aggirarsi per i dibattiti accademici e – soprattutto – a influenzare le scelte di politica economica.
La efficient markets hypothesis, malgrado sia stata ampiamente confutata, continua a influenzare le scelte di politica economica.
La natura eminentemente teorica della riappropriazione neoliberale del repertorio concettuale social-darwinista non deve trarre in inganno – le sue implicazioni concrete nei decenni successivi sarebbero state enormi. Se infatti si assume che il mercato sia un ambiente nel quale i più adatti sopravvivono e i meno adatti sono destinati a essere eliminati dalla competizione, viene da chiedersi perché non affidarsi ad esso in un numero crescente di ambiti – perché non privatizzare lo stato sociale, o rendere maggiormente rispondenti a criteri evolutivi il rapporto tra domanda ed offerta di lavoro, riducendo le tutele degli occupati? Ancora una volta, è l’opera di Michel Foucault che ci permette di cogliere la profondità della trasformazione. In Nascita della Biopolitica, il filosofo francese colloca il passaggio dal liberalismo classico al neoliberalismo nello spostamento da un modello basato sul commercio ad uno fondato sull’impresa: agiranno ora come imprese non soltanto le aziende, ma anche gli individui stessi, ridefiniti come “imprenditori di se stessi”, portatori di un capitale umano della cui valorizzazione sono responsabili. In pagine di grande attualità, Foucault rifletteva sulle potenziali implicazioni biologiche del paradigma del capitale umano: se una parte del rendimento di quest’ultimo deriva da fattori innati, ad esempio genetici, allora la logica competitiva del darwinismo sociale penetrerà sempre più a fondo – per avere dei figli con elevato capitale umano dovremo sceglierci dei partner con un certo capitale genetico, mentre per fare ciò dovremo a nostra volta essere abbastanza “appetibili” ai loro occhi, dunque ottenere un certo status socio-economico, e così via.
Dal lato apparentemente opposto dell’economia neoliberale si colloca la ripresa del social-darwinismo da parte della sociobiologia – cioè, nella definizione di uno dei suoi fondatori, “lo studio sistematico della base biologica di ogni comportamento sociale”. Il pluridecennale dibattito accademico sulle implicazioni politiche di questa disciplina non ha visto dei chiari vincitori – se i suoi detrattori puntano alle (per loro inevitabili) implicazioni razziste ed eugenetiche della sociobiologia, i sostenitori respingono con forza tali accuse, sottolineando come possano darsi interpretazioni politicamente inclusive e democratiche dell’evidenza sociobiologica. Al di là della posizione che si assume rispetto a tale discussione, tuttavia, risulta evidente che i sociobiologi muovono in almeno un senso in direzione opposta da economisti come Friedman: invece che sposare un assunto che minimizza di fatto il bisogno di ricorrere ad osservazioni empiriche (non importa cosa pensino gli imprenditori, ma come il mercato seleziona gli imprenditori migliori), Wilson e colleghi le hanno moltiplicate in numero e complessità – spostando la competizione dal livello degli individui o dei gruppi di individui a quello dei singoli geni. Tenendo conto anche dello scarsissimo interesse di molti teorici neoliberali per la biologia contemporanea (con la parziale eccezione di Hayek), sarebbe stato legittimo ipotizzare l’inesistenza di intersezioni tra questi due eredi di alcune concezioni social-darwiniste – fino a che quanto accaduto nel Regno Unito ci ha dimostrato il contrario.
Il diminutivo con cui il Behavioural Insights Team che supporta il governo britannico viene spesso individuato è “Nudging Unit”. Il nudge, o spinta gentile, è una nozione chiave della behavioural science – in sostanza, si tratta di lasciare agli individui libertà di scelta tra una serie di alternative, fornendo però loro una piccola spinta in direzione di quella che si ritiene la migliore (ad esempio per la collettività). A prima vista, il programma di ricerca degli studiosi di nudging sembra l’esatto opposto del dogmatismo neoliberale: invece di pretendere che esistano attori economici pienamente razionali e sempre in grado di scegliere il risultato migliore per conto proprio, si tratta di accumulare una grande quantità di dati psicologici su come gli essere umani si comportano davvero – per poi progettare un repertorio di “spinte” che siano efficaci a correggere le loro non sempre perfette decisioni. Tuttavia, come illustrato da John McMahon, del nudging si possono fare anche usi perversi – potremmo ad esempio spingere delle persone che sappiamo non essere perfettamente razionali ad agire proprio come se fossero gli attori economici del tutto razionali ed egoisti di una certa teoria economica. Ad un livello ancora più sofisticato, potremmo utilizzare l’evidenza raccolta sulla parziale irrazionalità della popolazione per limitare il numero di scelte tra cui abbia senso orientare gli individui: non importa quanto sarà forte il nostro nudge, non riusciremo mai a far restare le persone in quarantena per mesi. Possiamo soltanto sperare che, nell’impossibilità di spingere tutti a fare la scelta razionale, gli individui migliori agiranno comunque da par loro.
Lo scientismo attuale si rivela nel ritorno in voga dell’eugenetica e nel crescente disinteresse per l’evidenza scientifica da parte di chi rappresenta grandi interessi economici.
Siamo tornati, chi legge lo avrà notato, a Cummings e Johnson. In queste due figure emblematiche si fondono convinzioni risalenti al vecchio darwinismo sociale degli Spencer e dei Sumner (siamo diversamente intelligenti a causa dei nostri geni ed è giusto che chi è più intelligente ottenga più ricchezza e potere); una stretta fedeltà a dogmi neoliberali vecchi e nuovi (solo il meccanismo evolutivo dei mercati può dirci quale sia l’opzione migliore e le persone sono imprenditrici di loro stesse); un’attenzione tanto inedita quanto strumentale al focus empirico della sociobiologia, riletto tramite la lente di una behavioural science piegata in direzione dei propri pregiudizi (i dati dimostrano che molti agiscono irrazionalmente, e guarda caso non si tratta delle élite). Ne viene fuori una versione fortemente politicizzata di quello che proprio in questi giorni Taleb e Bar-Yam hanno chiamato scientismo, “qualcosa che ha gli attributi cosmetici della scienza ma manca del suo rigore”. Questo singolare miscuglio non è, ovviamente, una speciale invenzione di Johnson e Cummings, ma segue tutta una serie di tendenze che solo in anni recenti abbiamo iniziato a riconoscere: un’alleanza sempre più stretta tra neoliberismo e neoconservatorismo; il ritorno in voga di retoriche eugenetiche nel dibattito pubblico; il crescente disinteresse dei grandi portatori di interessi economici per l’evidenza scientifica. In modo ancora più importante, un tale patchwork ideologico non richiede neppure il cinismo dell’intenzionalità: il primo ministro e il suo consigliere potrebbero essere stati in totale buona fede nel ritenere che la cosa migliore per il paese fosse lasciar morire quasi mezzo milione di persone – quelle meno “adatte”, incapaci di fare la scelta giusta, non dotate di un capitale (economico, e quindi umano) sufficiente da potersi garantire isolamento e assistenza sanitaria privata. Questo, purtroppo, non rende l’idea meno orribile.
Non c’è nulla di invincibile in tale ritorno a sorpresa del social-darwinismo – l’inversione di marcia a cui il governo britannico è stato costretto ne è la prova –, ma sembra altrettanto chiaro che esso è ancora, piuttosto letteralmente, capace di “lasciar morire”. I mesi che abbiano davanti ci offrono un’opportunità rara per mettere a fuoco le caratteristiche e le debolezze del nuovo darwinismo sociale, ma ci pongono anche davanti al compito non semplice di liberare il nostro lessico dai suoi termini. La competizione che lo ossessiona è, nel contesto attuale come in molti altri, prigioniera di una certa idea di scarsità: non ci sono risorse sufficienti a salvare tutti, e quando ci sono dovremo pagarle con lacrime e sangue nel prossimo futuro – di qui la necessità di premiare i più competitivi. In un senso, la scarsità (di mascherine, posti letto, medici, eccetera) è davvero quello con cui ci stiamo confrontando. In un altro, essa non è inevitabile proprio perché riposa su un’altra scarsità, quella economica, che è invece spesso fittizia – le banche centrali che si lanciano in colossali iniezioni di liquidità e i falchi dell’austerity che improvvisamente ammettono che il debito pubblico non è un problema insormontabile ne sono la dimostrazione. Aveva in parte ragione Bataille: l’economia, più che con la gestione delle risorse scarse, ha oggi a che fare con quella – molto più difficile – dell’eccesso, del surplus. Speriamo che ne avanzi anche per chi non è tra i “più adatti”.