“P
erché sei venuta negli Stati Uniti?”
“Perché volevo arrivare.”
Questa è stata la risposta di una bambina non meglio specificata, una tra i tanti minori che ogni anno intraprendono la traversata dal Centro America agli U.S.A. Una tra i tanti minori a cui Valeria Luiselli ha fatto da interprete nelle immigration courts americane e di cui ci ha raccontato nel suo saggio Dimmi come va a finire (edito in Italia da La Nuova Frontiera).
La domanda è la prima del questionario, composto da altri trentanove punti, che viene sottoposto ai bambini senza documenti, gli “alien children,” – come vengono chiamati in linguaggio tecnico-legale – dopo il loro arrivo sul suolo nordamericano.
Il 2015 è stato definito l’anno della crisi europea dei migranti. Questa espressione ha iniziato a circolare dopo che cinque navi trasportanti circa duemila migranti sono affondate nel Mediterraneo. L’anno successivo, tra i minori non accompagnati che sono riusciti ad approdare sulle coste italiane, diecimila sono scomparsi mentre si trovavano sul territorio nazionale.
Nel 2014 un’altra crisi è stata dichiarata dall’altra parte dell’Atlantico. Tra l’aprile del 2014 e l’agosto del 2015, più di centomila minori non accompagnati raggiunsero il confine tra Messico e Stati Uniti. Prima che le istituzioni si allarmassero e il governo Obama creasse il priority juvenile docket, ai minori che cercavano rifugio negli Stati Uniti venivano concessi circa dodici mesi per trovare un avvocato che li sostenesse. Dopo la dichiarazione dello stato di crisi, il limite scese a solo ventuno giorni. Frontiere diverse, problemi simili. Quali che siano le cause, l’insufficienza nei provvedimenti presi per dare sollievo a chi fugge da oppressioni sembra essere sempre la stessa.
La maggior parte dei bambini che attraversano la frontiera arrivano da El Salvador, Guatemala, Honduras per scappare da abbandono, negligenza e sfruttamento, ma soprattutto per sfuggire alla violenza delle gang. L’America Centrale è controllata da due bande rivali, la Barrio 18 (o Calle 18) e la Mara Salvatrucha (abbreviata in MS-13). Entrambe sono nate a Los Angeles e hanno iniziato a svilupparsi e a prendere la forma di organizzazioni criminali transnazionali negli anni ’80. Le gang contano centinaia di migliaia di membri e le loro attività si espandono dall’Honduras al Canada.
La maggior parte dei bambini che attraversano la frontiera arrivano da El Salvador, Guatemala, Honduras per scappare da abbandono, sfruttamento e violenza delle gang.
Il viaggio intrapreso da questi bambini comincia con un coyote, l’equivalente latino americano dello scafista mediterraneo, che dietro pagamento si occupa di farli viaggiare fino a Tapachula, in Chiapas o a Tenosique, nello stato di Tabasco, città da cui parte “La Bestia”, un treno merci che attraversa il Messico fino al confine con gli USA. Al termine del viaggio, che in mancanza di posti passeggero si svolge sul tetto o negli interstizi tra i vagoni, i minori vengono lasciati a loro stessi. Il compito del coyote è concluso. I bambini sanno che l’opzione migliore è consegnarsi agli agenti anti-immigrazione: attraversare il deserto dell’Arizona o del Texas sperando di raggiungere le città in cui risiedono i loro familiari, emigrati anni prima, non è una prospettiva realistica.
Una volta catturati dalle pattuglie, i migranti vengono portati all’ICE, Immigration and Customs Enforcement, un centro di detenzione anche conosciuto come l’icebox.
La descrizione di Luiselli sul soggiorno nel centro è forse la pagina più raccapricciante di tutto il libro:
Il nome sottolinea, inoltre, il fatto che i centri di detenzione lungo la frontiera siano come enormi frigoriferi per persone, costantemente condizionati con aria gelida come ad assicurare che la carne straniera non vada a male troppo velocemente – naturalmente dovrà incubare ogni tipo di germe mortale. I bambini sono trattati più come portatori di malattie piuttosto che bambini. Nel luglio del 2015, per esempio, la American Immigration Lawyers Association sporse denuncia dopo aver scoperto che in un centro di detenzione in Dilley, Texas, a duecentocinquanta bambini era stato somministrato per errore un vaccino contro l’epatite A in dosaggio per adulti. I bambini si ammalarono gravemente e dovettero essere portati in ospedale.
Per legge il tempo massimo che una persona può rimanere nell’icebox è di settantadue ore, ma i bambini sono spesso trattenuti più a lungo, soggetti non solo a condizioni inumane e temperature gelide, ma spesso vittime di abusi verbali e maltrattamenti fisici. Alle volte infatti non hanno un posto dove stendersi per dormire, non sono autorizzati ad usare il bagno con la frequenza di cui ne hanno bisogno e sono denutriti.
Il passo successivo nella trafila legale è quello a cui l’autrice ha assistito personalmente. Cioè quello in cui i bambini vengono sottoposti a un interrogatorio per accertare in che condizioni hanno viaggiato, le circostanze da cui scappano e le prospettive e i progetti di vita negli Stati Uniti. Sulla base delle risposte che daranno, sarà più o meno semplice per i minori trovare in tre settimane un avvocato che cerchi di far ottenere loro un permesso di residenza.
Sono pretese decisamente eccessive da avanzare verso esseri umani spaventati e traumatizzati, che si trovano nella condizione di dover rispondere con delle affermazioni che rendano il proprio caso “appetibile” per un avvocato e ripercorrere le tappe di una fuga piena di violenza e paura davanti a degli sconosciuti che non parlano la propria lingua, in un posto di cui non si conosce niente. È bene ricordare ancora una volta che sono solo bambini. Alcuni così giovani, come è il caso di due sorelle del Guatemala di sette e cinque anni, da non capire nemmeno il significato delle domande che gli vengono poste.
“
Perché sei venuta negli Stati Uniti?”
“Non lo so.”
“Come sei arrivata qui?”
“Con un uomo.”
“Un coyote?”
“No, un uomo.”
Quando però i minori sono abbastanza grandi da raccontare la loro storia, seppur frammentariamente e in maniera non consequenziale, siamo messi davanti a delle ingiustizie e a un’immensa brutalità. Cosa facciamo allora noi, adulti benestanti del mondo industrializzato, per proteggere chi ci chiede aiuto?
“Ci sono problemi con il governo della tua nazione di origine? Se sì, quali?”
“Il mio governo? Scrivici questo sul tuo quaderno: il mio governo non fa un cazzo per quelli come me, ecco il problema.”
Questa era la domanda numero trentacinque del questionario, e la risposta arriva da Manu, sedicenne dell’Honduras, la cui storia è quella che ci viene raccontata più nel dettaglio.
Manu estrae dalla tasca del pantalone un foglio piegato in quattro, reso morbido e opaco dall’usura. Lo apre e mostra una denuncia che tempo fa aveva fatto alla polizia contro le gang locali. La MS-13 cercava di reclutarlo, la Barrio 18 lo perseguitava. “Indovina cosa è successo dopo la denuncia?” chiede alla scrittrice.
È solo quando il migliore amico di Manu viene ucciso che la zia, residente negli Stati Uniti da alcuni anni, decide che non può aspettare di aver messo da parte abbastanza soldi per far venire suo nipote insieme alle figlie. Manu deve andarsene subito. Il ragazzo è stato abbattuto a colpi di pistola, all’uscita dalla scuola e senza motivo, mentre Manu scappava, correva fino ad avere la sensazione che le gambe gli si staccassero dal bacino. Adesso Manu ha ricevuto lo stato di Special Immigrant Juvenile, il passaggio precedente al poter diventare residente legale negli USA. Frequenta una scuola a Hampstead, dove la succursale newyorkese del Barrio 18, la Hampsted 18, gli ha fatto saltare gli incisivi. Della sua nuova città Manu dice che è un buco di merda come Tegucigalpa, ma almeno ha dato i natali al Wu-Tang Clan.
Ce ne sono altre 101.999 di storie come questa, che anzi magari non sono finite altrettanto bene, ma con una “rimozione del bambino alieno.” Come se fosse una macchina parcheggiata in divieto di sosta.
Il libro di Valeria Luiselli è uscito il 5 ottobre 2017 in America, esattamente un mese dopo che Donald Trump ha abrogato il decreto DACA, Deferred Action for Childhood Arrivals, pensato per impedire la deportazione immediata dei minori arrivati negli Stati Uniti in maniera illegale. Chissà cosa avrebbe scritto l’autrice, se avesse avuto modo di redigere una postfazione. Il DACA è stato introdotto dalla legislazione Obama nel 2012 a seguito dei numerosi fallimenti della proposta di legge nota come DREAM Act (Development, Relief and Education for Alien Minors) avanzata nel 2001, che non è mai riuscita a superare la prova del Congresso degli Stati Uniti.
Il DACA è un provvedimento politico che permette agli immigrati illegali che rispettano i criteri per la candidatura di evitare l’espulsione e ottenere permessi di lavoro per un periodo di due anni, rinnovabile in seguito a buona condotta. Come per il DREAM Act, da cui differisce per poche questioni, le persone che possono beneficiarne devono possedere alcuni requisiti, come essere arrivati negli USA prima di aver compiuto sedici anni di età e prima del 2007. Da quello stesso anno devono anche aver vissuto in loco in maniera continuativa, aver concluso una scuola superiore o fatto il militare negli Stati Uniti ed essere incensurati. Le persone che rispondono ai requisiti sono stimate intorno a un milione e settecentomila.
I bambini vengono sottoposti a un interrogatorio per accertare in che condizioni hanno viaggiato, le circostanze da cui scappano e le prospettive e i progetti di vita negli Stati Uniti.
Nel 2013 i Repubblicani denunciarono il DACA come abuso di potere esecutivo da parte del Presidente. Quindici Stati americani intentarono una causa per bloccare il decreto. Come risposta, nel 2014 Obama ha cercato di espandere il bacino di persone che potevano fare richiesta di tutela a tutti coloro che fossero arrivati prima del 2010 e di eliminare il limite di età di 31 anni per fare domanda. La proposta, tuttavia, non è passata.
Bisogna dire che per legge negli Stati Uniti chiunque, residente legale o meno, ha diritto a un’educazione primaria e secondaria gratuita, così come chiunque nasca nel territorio statunitense, ne acquisisce la cittadinanza automaticamente e senza condizione tramite lo ius soli.
Nonostante ciò, impedire che un giovane che ha passato la maggior parte della sua esistenza negli Stati Uniti, che ha studiato in scuole locali, che ha contribuito alla vita sociale e potrebbe contribuire – legalmente – alla vita economica del paese ottenga lo status di cittadino non ha altra matrice che quella razzista. Come ha dichiarato Obama all’indomani dell’abrogazione, la scelta di Trump “non è necessaria dal punto di vista legale, è un’azione politica e una questione morale.” E ancora, “prendere di mira questi giovani è sbagliato – perché loro non hanno fatto niente di sbagliato. È controproducente – perché vogliono mettere in piedi nuovi business, lavorare nei nostri laboratori, prestare servizio nel nostro esercito, contribuire in altre maniere alla nazione che amiamo.”
Negare ad americani di fatto di diventare americani anche sulla carta “è semplicemente crudele”.
È un’angheria gratuita che renderà ancora più difficile ai bambini rispondere a quella fatidica prima domanda del questionario. E renderà, al contrario, molto più facile per noi e per gli americani rispondere quando ci chiederemo che cosa abbiamo fatto per aiutare. Poco, troppo poco.