P iù che Donald J. Trump ha vinto lo zeitgeist, lo spirito del tempo. Ha vinto lo spirito di un tempo infame che aveva già pervaso le urne in precedenza a tutte le latitudini del mondo occidentale: con la Brexit in Gran Bretagna, con Le Pen in Francia, a casa nostra con i Cinque Stelle, in misura minore in Spagna con Podemos, e poi in Ungheria, Polonia, Austria, Grecia. Ha vinto lo spirito del tempo, che non è quello del merito, cioè di chi entra nel merito, e certo non è neanche quello di chi sa di che parla, ma è di chi la spara più grossa, nel modo più greve e per una durata più estesa.
Si dice anche sia il tempo della gente comune, ma non è così: più che altro è il tempo di gente arrabbiata – anche a ragione – che non trova nulla di meglio da fare che aderire alla speranza potenzialmente più sovversiva, all’ipotesi più scabrosa, allo slogan più altisonante – e questo sì, è stata l’unica cosa che Trump ha avuto di davvero formidabile: quel “Make America Great Again” si capiva avrebbe funzionato come detonatore irrefrenabile di classi medie tradite, di maschi bianchi terrorizzati, di pistoleri da giardino e negoziatori di trattati internazionali via Facebook.
Gente comune e disinformata, dicono, ma anche questo è un errore fondamentale. Dal giorno successivo al voto sulla Brexit, il 23 giugno, tutti i commentatori si sono sbilanciati in divertenti parodie del britannico medio, con la pinta e la panza, intento a googlare “Che cos’è l’Unione Europea” e “Che cosa significa uscire dall’Unione Europea”. Michael Moore, l’invincibile partigiano della retorica stanca, ha ripreso il cliché nel recente Michael Moore in Trumpland, one-man show registrato a Wilmington, Ohio, ai principi del mese scorso e distribuito nei cinema americani dopo solo una decina di giorni, il 19 ottobre. “Non fate come gli inglesi, che dopo aver votato per il Leave hanno firmato una petizione per rivotare”, diceva Moore alla platea, “se votate Trump voterete per l’ultimo Presidente degli Stati Uniti”.
In Ohio ovviamente Trump ha vinto con il più ampio margine che un repubblicano abbia fatto registrare dai tempi di Bush (padre). È colpa di Michael Moore? Ovviamente no, ma non è nemmeno colpa di una generica “disinformazione”. Semmai è vero il contrario: mai i cittadini del mondo occidentale sono stati più informati di ora e mai come ora stanno inanellando una scelta apparentemente irrazionale via l’altra. Il paradigma reale è questo, bisogna che lo si accetti anche se non piace. Non è colpa della disinformazione, è colpa di chi crede alla disinformazione.
L’attuale è anche il tempo più situazionista dell’era moderna, del “vediamo che succede”, del “tanto è uguale”, e insieme di un perverso meccanismo di richiesta di centralità, che più che una richiesta è avvertita come un diritto, un supposto diritto risarcitorio di tutte le angherie subite nella vita, delle paure più infondate e delle attese più irrazionali, e il cui prezzo si deve per forza scontare nel segreto dell’urna, possibilmente con un ghigno malefico ad accompagnare il momento del riscatto.
È un tempo infame, si diceva, e non c’è altro modo di definirlo: mentre gli elettori americani mandano a casa il candidato probabilmente più preparato della Storia delle presidenziali Usa e fanno trionfare quello certamente meno preparato, chi ha responsabilità e cervello deve preoccuparsi enormemente e correre ai ripari. Questo tempo, questa ondata di pressappochismo politico, è la più grande sfida che le società occidentali dovranno affrontare da oggi in avanti. Come tutte le ondate sovra-rappresentate, godrà di un momentum destinato a scemare ai primi, inevitabili, insuccessi. Ai primi fiaschi, quando non ai primi disastri. Ma sarà duro a morire perché non si tratta di sola protesta ma si fonda su qualcosa di molto più solido: lo spirito del tempo, appunto. Il nostro spirito, nel nostro tempo.
La cultura predominante oggi, piaccia o non piaccia, è questa: l’estrema democratizzazione di accessi e opinioni – cosa ottima in sé, ovvio – ha generato un clamoroso big bang relativista dove tutto si tiene (e anzi prolifera fino alla cabina elettorale), dove chi dovrebbe ascoltare parla e chi dovrebbe parlare spesso si accontenta di accompagnare il consenso e indirizzarlo a proprio consumo. Uno scherzetto che, siamo d’accordo, sta funzionando più che bene, ma che finiremo per pagare tutti, e pesantemente.
I padri della democrazia occidentale, gli ateniesi del V secolo a.C. ai quali spesso i movimenti politici populisti si rifanno per trovare una sponda teorica alle loro teorie bislacche sulla democrazia diretta, in realtà avevano previsto tutt’altro. I diritti civili e politici, l’iscrizione al demo, avveniva dopo votazione a scrutinio segreto degli appartenenti al registro, i demoti, e soltanto una volta ottenuto il risultato affermativo i giovani avevano diritto di entrare all’Assemblea. Da sempre democrazia è sinonimo di una qualche forma di controllo all’ingresso. Nella Repubblica, la principale preoccupazione espressa da Platone è quella di fissare la scelta, l’educazione e lo statuto dei governanti perché niente è peggio per la città che essere governata da uomini che credono di sapere e non sanno: i cosiddetti “falsi saggi”.
L’enormità della vittoria di Trump non risiede tanto – o soltanto – nell’incredibile profilo del personaggio, quanto nel suo significato più intrinseco. Asfaltando Hillary Clinton, Trump non ha soltanto sconfitto un avversario politico ma ha distrutto il primo livello dei sistemi di contrappeso della più grande democrazia del mondo, quelli, appunto, d’ingresso. Quali siano è presto detto: prima di tutto il suo genos, la sua unità politica di riferimento, e cioè il Partito Repubblicano, che è il vero responsabile dell’accaduto. I partiti non sono tornelli da supermarket con l’insegna “ingresso libero” appesa sopra, sono libere associazioni di persone con comuni finalità politiche. Ripeto: “comuni finalità politiche”. Quale funzione rivesta un progetto politico buttato a gambe all’aria da un outsider estraneo a qualsiasi progetto comune non è una domanda a cui sia molto complicato rispondere.
In secondo luogo la quasi totalità dei media mainstream che hanno scherzato col fuoco creando il mostro prima e pensando di poterlo mettere a tacere a piacimento una volta che il gioco si fosse fatto serio. Non è andata così, perché Trump si è spinto ben oltre sradicando alla base anche il terzo contrappeso d’ingresso al gioco democratico, quello del senso comune, dell’accettabilità sociale, infine della ragione.
Da ultimo, bullandosi con quell’ennesimo registro vuoto mentre concedeva fittiziamente alle tre di mattina della notte americana l’onore delle armi a Hillary Clinton, ancora una volta senza dire una singola cosa nel merito se non inutili “We will do a great job”, “We will build bridges”, “We will make great deals”, in un victory speech che è parso accettabile soltanto ai divoratori compulsivi di premiazioni di Oscar, è finalmente apparso evidente l’ultimo dei problemi che abbiamo osservato nei mesi della campagna del candidato Trump e il primo di quelli che arriveranno copiosi durante gli anni di governo del presidente Trump. Forse non fa più tanto ridere, eh.