L uciano Bianciardi, nel 1957, scriveva nel Lavoro culturale: “Tutti sanno cos’è un libro: un certo numero di fogli di carta stampata cuciti insieme a uno dei margini, e con una copertina che reca il titolo e il nome dell’autore”. Attraverso e contro Bianciardi mi sento di dire che invece non tutti sanno che un libro è innanzitutto un certo numero di fogli impaginati con una copertina.
Tutto il nostro contesto socio-culturale da secoli, davanti a un libro, ci fa anzi sospirare che esso è molto di più che sé stesso o, meglio, che non è sé stesso come oggetto materico ma, piuttosto, veicolo dell’emancipazione personale, fuoriuscita dallo stato di minorità, simulacro della cultura alta. Basterebbe guardare le classifiche settimanali dei libri più venduti in Italia per capire che la definizione di Bianciardi – materiale, minima e denotativa – è ancora oggi corretta: un libro può essere molto ed essere investito di personalissimi risvolti morali, ma collettivamente esso è prima di tutto un oggetto derivante da un processo produttivo in più fasi e che abbisogna di molte professionalità diverse agite da forza-lavoro a vari livelli.
Questo spacchettamento – lascamente marxista – del libro in quanto oggetto-libro non è sempre gradito né sembrerebbe addirsi ai discorsi intorno alla cultura; al contrario, su questi temi spesso sembra esistere un potente diniego, utile a indirizzare le parole della classe intellettuale verso il capitale simbolico del libro. Capitale che viene capitalizzato – si perdoni il ridondante gioco di parole – in una pluralità di spazi fisici e virtuali (discussioni online, riviste, fiere, festival), rendendo sempre più profondo il solco tra struttura e sovra-struttura.
Il 18 ottobre si chiudeva il Salone del Libro 2021 a Torino e il suo direttore Nicola Lagioia si diceva molto contento per il record di accessi, dichiarando che “Il rumore di 150mila libri sfogliati insieme non si può ignorare”. Tanti giovani e giovanissimi in più e, a proposito di numeri, riporta Il Libraio che “nel comunicato finale si legge che gli accrediti professionali dell’edizione 2021 hanno visto un sensibile incremento: stampa: 1.576; blogger: 658; professionali: 2.980 (+ 150%) per un totale di 5.214 accrediti professionali (+ 53%)”. Ma chi aveva diritto all’accredito? Dal sito ufficiale del Salone la lista di professioni è questa: agenti letterari, bibliotecari, illustratori, librai, promotori e rappresentanti editoriali, scrittori, traduttori. Mancano i redattori e le redattrici, i correttori e le correttrici di bozze, manca l’attenzione ai freelance che costituiscono la linfa del lavoro redazionale italiano. Eppure essi vivono; simili a bestie mitologiche per quanto riguarda il loro statuto ontologico – “Esisteranno? E se sì, in che forma?” – questi dimenticati lavoratori dell’editoria continuano a correggere, redigere, editare, impaginare i libri che leggiamo, aspettando di capire se qualcuno ha voglia di parlare anche con e di loro.
Un libro è prima di tutto un oggetto, derivante da un processo produttivo in più fasi e che abbisogna di molte professionalità diverse agite da forza-lavoro a vari livelli.
Un mese dopo la fine del Salone a Redacta è venuta la curiosità di andare a Torino a scovarli e indire un’assemblea per conoscersi e mettere in comune le istanze sì personali ma sempre universali. Redacta è l’iniziativa sul mercato editoriale di alcuni membri di ACTA (associazione dei freelance): volendone dare una definizione sostanziale, Redacta, nello scacchiere del settore editoriale, ad oggi rappresenta lo spazio verso cui convergono tutti quelli che sentono come sempre più urgente la volontà di ribaltare tanto le logiche malsane dell’editoria quanto i discorsi eminentemente salottieri su di essa. È dove si incontra chi sa bene che un libro è, prima di tutto, “un certo numero di fogli di carta stampata cuciti insieme a uno dei margini”, e a partire da questo vuole riabilitare il discorso pubblico sui grandi rimossi: lavoro, compensi e diritti. Mentre scrivo questo ascolto “Cosplayer”, una canzone dell’ultimo album di Marracash: “Oggi che possiamo rivendicare di essere bianchi, neri, gialli, verdi / O di essere cis, gay, bi, trans o non avere un genere / Non possiamo ancora essere poveri”.
Se questo vale, vale in misura maggiore in quegli ambienti dove vige la norma non scritta per cui non si parla di denaro perché è noto che i panni sporchi si lavano in casa e i discorsi sull’importanza della campagna #ioleggoperché invece si fanno in pubblico. Fare il contrario – portare allo scoperto in pubblico il tema delle condizioni lavorative – vuol dire comportarsi da guastafeste, scalfire la sacralità della cultura e del libro. Mentre notavo che alla più grande fiera italiana del libro non ci fossero accrediti per tutte le professionalità della filiera, contestualmente vedevo in programma 7 incontri sul lavoro editoriale e mi appuntavo i nomi chiamati a intervenire, i promotori degli incontri, le parole d’ordine scelte.
C’erano il Master BookTelling e il Master Professione Editoria dell’Università Cattolica insieme a Messaggerie (il più grande distributore italiano per l’editoria) per parlare di “Come la moderna distribuzione può intervenire a supporto dei diversi canali di vendita”; un paio di incontri sul self-publishing; e ancora un paio di panel sulle nuove professioni digitali legate al libro. E poi: “Editor e redattori si nasce? Consigli e strategie per trasformare la passione in professione”. L’unico evento in cui si parlasse di queste figure fondamentali e fondamentalmente escluse dall’accreditamento professionale sottolineava, ancora una volta, l’insalubre romanticizzazione del lavoro editoriale e culturale in senso più ampio.
Ho deciso di assistere a un incontro dal titolo altisonante: “L’etica del lavoro nel mondo della cultura”. Alla domanda: “Perché autori e autrici sono stati così latitanti davanti ai fatti di Grafica Veneta?” si sono sentite in risposta delle risatine imbarazzate e dei gravosi sospiri da qualcuno dei convenuti. Le risatine imbarazzate segnalano una cosa: non è questo il luogo per porre una domanda sui “fatti di Grafica Veneta”. Dovrebbe essere noto a tutti che al Salone sono di casa i discorsi sul libro come veicolo di cultura, i suoi successi, la sua capillarizzazione, le forme future che assumerà per non scomparire. Il Salone è una fiera, una kermesse, una vetrina: a Torino ci sono i libri da vendere, non i processi produttivi da analizzare. Nessuna sorpresa, quindi, che la direzione del Salone non abbia ritenuto interessante organizzare panel o altro per parlare dei gravissimi problemi della filiera e della logistica. Ironicamente, negli stessi giorni in cui l’élite culturale del paese era impegnata a Torino, il presidente di Grafica Veneta rilasciava interviste auto-assolutorie su diverse testate.
Si sente la mancanza di un discorso sulla filiera editoriale.
Ma lasciando da parte la fiera torinese e volendo allargare lo sguardo, il fatto è uno e incontrovertibile: ovunque si sente la mancanza di un discorso sulla filiera editoriale, un discorso ampio e trasversale che vada dal magazzino alla redazione. Al netto del Salone di Torino, che è alcune cose e non può esserne altre, ci si deve forse soffermare sul fatto che, mentre il fatturato continua a crescere (Dati AIE) e la retorica del valore del libro impazza, il 2021 è stato teatro di due episodi che difficilmente si possono ignorare dentro il mondo culturale e politico in senso largo.
Struttura del lavoro editoriale: CEVA Logistics e Grafica Veneta
Dire “libro” probabilmente non fa venire subito in mente la parola “magazzino”: eppure questi oggetti devono sostare da qualche parte tra il loro essere scritti, redatti, impaginati, stampati e il loro essere comprati. E questi posti sono appunto i magazzini. Il più grande in Italia è quello di Stradella – che conta una superficie di 80mila metri quadrati e può contenere più di 100 milioni di libri e giornali –: vi si trova lo stock di molte case editrici che lavorano con Messaggerie Libri, anche perché lo stabilimento è di proprietà della società C&M Books Logistics, una joint venture che nasce a marzo 2021 tra l’azienda internazionale di logistica CEVA Logistics e, per l’appunto, Messaggerie Libri – che come si ricordava prima, è attore fondamentale dell’oligopolio della distribuzione libraria in Italia.
A inizio giugno 2021 i lavoratori insieme al sindacato di base Si Cobas hanno iniziato uno sciopero per rivendicazioni inevase da circa due anni (bloccando di fatto una grandissima parte della distribuzione libraria nella Penisola), e contestualmente sono iniziati gli scontri e i tentativi di sgombero. Ma lo stabilimento di Stradella non è nuovo a questo tipo di vicende. È del 2017, per esempio, la vicenda dei “contratti romeni”: l’Ispettorato del Lavoro, dopo un articolo-denuncia di Repubblica, trovò che nello stabilimento di Stradella 70 lavoratori erano stati assunti con contratti romeni – condizione resa possibile dal ricorso a catene potenzialmente infinite di agenzie interinali (una delle quali, in questo caso, aveva sede a Bucarest) – e pagati in (poca) valuta romena: per un mese di lavoro, il compenso era di 1400 leu, poco più di 300 euro, e zero contributi.
Dopo circa 10 giorni di sciopero, questa storia vede la vittoria di lavoratori e le lavoratrici, che hanno ottenuto in toto la ricezione delle loro richieste: la garanzia scritta dei posti di lavoro dopo l’introduzione di un macchinario che aumenterà l’automazione del magazzino; l’integrazione dell’indennità di malattia, previsto dal CCNL della logistica; l’aumento dei ticket pasti.
Il 2021 è stato teatro di due episodi che difficilmente si possono ignorare dentro il mondo culturale e politico.
Ma la vicenda più cruenta – ricostruita nei dettagli da un lungo pezzo di Senza Filtro – riguarda, appunto, lo stabilimento di Grafica Veneta, azienda con sede a Trebaseleghe (Padova) e la più importante in Italia per la stampa di libri; una vicenda che non è solo vertenza sindacale ma che nasce come inchiesta giudiziaria.
I guai di Grafica Veneta iniziano a cavallo tra maggio e giugno 2020 dopo che alcuni cittadini pakistani, dipendenti di una ditta in appalto (la trentina BM Service) che procurava personale a Grafica Veneta, furono trovati legati e feriti ai bordi di una strada provinciale. Cos’era successo? Il 25 maggio 2020, al ritorno nelle loro abitazioni, gli operai pakistani avevano trovato ad attenderli squadre di picchiatori pronti a fare il loro sporco lavoro: il casus belli scaturiva dal loro essersi rivolti al sindacato.
Solo a luglio 2021 si è scoperchiata la vastità di un sistema imperniato su caporalato, violenza e condizioni lavorative para-schiavistiche. Nello specifico, si parlava di degradanti condizioni di lavoro nei confronti dei summenzionati lavoratori di nazionalità pakistana (alcuni fra loro richiedenti asilo), ovvero una “mano d’opera utilizzata a chiamata per brevi periodi, con orari che arrivano fino a 12 ore al giorno senza pause né ferie né alcuna tutela tra quelle previste dalla normativa”, sprovvisti dei basilari DPI nel momento peggiore della pandemia da covid-19, così come senza la possibilità di verificare orari di ingresso e di uscita per eliminazione dei server. Un controllo estorsivo e panottico che si estendeva alla gestione da parte della cooperativa BM Service degli alloggi dove i lavoratori pakistani erano ammassati a decine, fino al taglieggiamento di una parte significativa dello stipendio e della tredicesima direttamente prelevata da bancomat. Si parlava di lavoratori abituati a vedersi privati dei diritti più elementari dentro i locali dell’azienda (e anche fuori).
In questo quadro, rivolgersi al sindacato non era un passaggio banale: nonostante impieghi 327 dipendenti, Grafica Veneta non ha tra le sue mura rappresentanza sindacale, e negli anni sia CISL che CGIL hanno più volte riportato l’impossibilità di far eleggere una RSU (Rappresentanza Sindacale Unitaria). La vicenda si è formalmente conclusa circa un mese fa con la decisione del Tribunale di Padova di accogliere l’istanza di definizione del procedimento con una pena pecuniaria (poco più di 46mila euro) commutata a Giorgio Bertan e Giampaolo Pinton, rispettivamente Amministratore delegato e Responsabile della sicurezza di Grafica Veneta all’epoca dei fatti, e con la devoluzione di 220.000 euro, da parte del Presidente Fabio Franceschi, a guisa di risarcimento alle vittime.
Si è scoperchiata la vastità di un sistema imperniato su caporalato, violenza econdizioni lavorative para-schiavistiche.
“Ma quali sfruttatori, noi siamo dei truffati”, tuona dalle pagine del Gazzettino proprio Fabio Franceschi in un’intervista pubblicata il 15 ottobre, tutta spesa a enfatizzare la necessaria terziarizzazione di un’azienda così grande: una foglia di fico come un’altra per ribadire che loro di Grafica Veneta non sapevano proprio nulla del generalizzato clima di violenza. Linea di difesa che, comunque, cambia completamente nel giro di pochi giorni: in un’altra intervista a La Stampa, al richiamo della giornalista sulle vessazioni subite dai lavoratori, Franceschi risponde in tutta scioltezza: “Sicuramente qualcosa ci sarà, perché quella gente è molto violenta. (…) Comunque non entro nel merito dei pestaggi. Ma, visto come si sono comportati, è difficile fidarsi sul resto”. Come dichiara Aldo Marturano, Segretario Generale CGIL di Padova, non solo il patron di Grafica Veneta non si è scusato ma ha pure “assunto posizioni auto-assolutorie in palese contraddizione con l’atteggiamento processuale e ha pronunciato parole indegne per un importante protagonista del sistema economico di un paese civile, ma anche per semplice cittadino di una Repubblica democratica”.
Nel parlare di stato di salute della filiera, molto dipende da come questo tipo di vicende vengono lette: perché, mentre potrebbe essere profittevole per qualcuno pensare che queste si diano come contingenze seppur terribili – le esternalità negative di un settore che tutto sommato vede di anno in anno consolidarsi e/o crescere il proprio fatturato – la disarmante verità è che queste sono dinamiche cronicizzate del settore editoriale. È, quello dei libri, un sistema che prevede di stampare, confezionare e distribuire 10.000 copie per venderne molte meno, e che obbliga piccole e grandi case editrici al turnover schizofrenico di novità per stare a galla; è, quello dei libri, un sistema in cui l’unico guadagno sicuro è nelle mani dei distributori. Il fatto che le condizioni nei magazzini e negli stabilimenti di stampa siano disumane per velocità richiesta nelle mansioni, orari interminabili, costo del lavoro sempre più compresso non è una contingenza: è proprio il modo con cui e per cui il settore continua a sopravvivere. È l’eterna lotta tra capitale e lavoro. E la volontà di vedere questi eventi come incidenti è, al fondo, solo la cattiva volontà di chi vorrebbe mettere la polvere sotto il tappeto, e la sporca realtà del lavoro sotto silenzio.
Sovrastruttura → Struttura, Struttura → Sovrastruttura
A seguito dei fatti di Stradella e di Trebaseleghe, non molte voci si sono levate dal mondo culturale nostrano; è pure probabile, poi, che tra gli addetti ai lavori se ne sia parlato e che dentro le stanze delle belles-lettres ci sia stato un lavorìo concettuale. A livello di uscita pubblica, però, le occorrenze non sono numerose, partendo dal presupposto che, essendo rispettivamente Stradella il più grande magazzino editoriale in Italia e Grafica Veneta lo stabilimento che stampa più di 200 milioni di libri all’anno, lo sciopero della prima e l’inchiesta giudiziaria della seconda dovrebbero – panglossianamente parlando – riguardare tutti quelli che, a vario titolo, lavorano nella filiera.
Su Stradella, ad esempio, lo scrittore Gabriele Dadati ha scritto un bell’articolo sull’esperienza di un pomeriggio di giugno passato con i lavoratori e le lavoratrici in sciopero nel magazzino in provincia di Pavia. Per gli episodi ben più feroci di Grafica Veneta di voci se ne sono alzate di più, a partire da Maurizio Maggiani – che in un impietoso “Je (m’)accuse” su Repubblica ha scritto: “E posso anche vantarmi di vendere la mia opera d’ingegno e non le mie mani, ma nella catena niente mi autorizza a distinguermi da un altro lavoratore, niente mi autorizza a stare sopra, o distinto, o ignaro” – così come Christian Raimo, Loredana Lipperini, Paolo di Paolo, senza dimenticare l’appello lanciato da Massimo Carlotto e firmato da qualche intellettuale, qualche casa editrice, qualche realtà associativa. Non proprio una moltitudine.
Quand’è che la classe intellettuale farà massa critica e si metterà programmaticamente a parlare di lavoro culturale?
A latere della debole presa di posizione collettiva sulle due vicende di quest’anno, c’è poi un discorso più ampio da fare su quanto la maggior parte della classe intellettuale sembri allergica a parlare di lavoro editoriale. Proprio Christian Raimo in un articolo di qualche mese fa – precedente ai fatti di Stradella e di Grafica Veneta e “aggiornato” tramite un post Facebook – fa una dotta ricostruzione del dibattito pubblico di oggi e di ieri sui rapporti tra letteratura e politica: alcuni (pochi) letterati diventano politici, molti politici invece vogliono scrivere libri. Ma in questo incrociarsi di interessi, si avverte tuttavia un buco nero: quand’è che la classe intellettuale farà massa critica e si metterà programmaticamente a parlare di lavoro culturale?
Ben venga che Michela Murgia parli di questioni di genere, ben venga che Roberto Saviano difenda gli immigrati dalla feroce retorica di estrema destra, ma esattamente quale cortocircuito porta a saltare a piè pari la dimensione materiale (il lavoro) della sfera immateriale per eccellenza (la cultura)? C’è forse un tema di agenda-setting – ovvero, oggi come oggi, considerare il discorso politico sul lavoro meno seducente di altri – o forse, sotto questi silenzi, si rintraccia l’antica paura di uscire dai giri giusti, di farsi terra bruciata intorno?
Sembra più facile imbestialirsi per il rider di Deliveroo o per l’operaia di Saga Coffee sull’Appennino Bolognese, è forse più esotico ribadire che i magazzinieri Amazon devono poter lavorare a ritmi umani: tutti i lavori sono uguali, ma alcuni sembrano più lavori di altri. Però il pane-welfare, compensi dignitosi, la fine dell’oltranzismo stagista, etc. – lo vogliamo anche noi che lavoriamo con la sacra triade Libri-Cultura-Parole e, cosa più importante, vogliamo ribaltare la retorica della romanticizzazione e ribadire una ovvietà avanguardistica: anche questo è un lavoro.
In un’ottica di rovesciamento dialettico, che è anche il quarto e finale movimento di questa sinfonia, troviamo che le necessità di ampiezza e varietà del fronte dei lavoratori nonché di disseminazione di un discorso pubblico, costante e trasversale ai settori sul lavoro sembrano averlo capito molto bene le persone che animano il Collettivo di Fabbrica – Lavoratori GKN Firenze, ad esempio: nella sera del 12 ottobre, infatti, gli operai, in presidio permanente dentro la fabbrica, hanno indetto un’assemblea per giornalisti e lavoratori dell’informazione:
Vi abbiamo chiesto “come state”, perché magari mentre provate a farci raccontare la nostra storia, la vostra situazione lavorativa è silenziosamente uguale o peggiore della nostra.
Perché nel vostro settore si annida un grado di sfruttamento – fatto di precarietà, stage, partite iva, service esterni in appalto – potenzialmente uguale o superiore a quello delle nostre fabbriche.Se la sovrastruttura del discorso sull’editoria non si interessa, a livello sistemico, di interrogare le condizioni materiali della sua struttura, quest’ultima dovrà farlo autonomamente.