“L
ügenpresse, halt die Fresse!” (“Stampa bugiarda, tappati la bocca!”). Così si urla alle manifestazioni della nuova destra tedesca, ai rally cittadini di Pegida (i cosiddetti Patrioti Europei contro l’Islamizzazione dell’Occidente) e ai meeting elettorali di Alternative für Deutschland (AfD), il partito che ha appena conquistato il 14,1% dei voti alle elezioni regionali di Berlino.
Parola composta da “Lügen” (bugie) e “Presse” (stampa), Lügenpresse è un termine che aleggia sulla cultura tedesca da più di 180 anni, riemergendo ogni volta che la Germania si lacera in fazioni e diventa inquieta, perplessa, rabbiosa.
Oggi, dopo decenni, la accuse contro la Lügenpresse sono tornate, andando a strutturare l’avanzata di un nuovo populismo nazionalista, tanto che lo scorso giugno la Cancelliera Angela Merkel ha affermato che l’attuale rapporto dei tedeschi con l’informazione “deve renderci tutti inquieti”.
Poche settimane fa, la televisione pubblica ARD ha affrontato di petto la questione, raccogliendo dati emblematici. Più di 6 tedeschi su 10 ritengono i loro media “poco o nulla affidabili”. Questo non significa che il 60% dei cittadini stia urlando “Lügenpresse, halt die Fresse!” nelle strade, ma la percentuale conferma che le campagne populiste hanno parzialmente attecchito anche nella Germania più moderata.
Quasi due secoli di caccia al “bugiardo”
La prima volta in cui compare il termine Lügenpresse siamo a Vienna. È nel 1835 che la Wiener Zeitung scrive di “stampa bugiarda” parigina. Ed è a Parigi che tanti giornali in lingua tedesca immagineranno, per decenni, la capitale reale e morale della Lügenpresse. Da Parigi partirebbero le macchinazioni di “ebrei”, “massoni”, “marxisti” e altri prototipi di nemici che hanno ossessionato per oltre un secolo il nazionalismo tedesco. Le accuse alla Lügenpresse infatti, presenteranno spesso anche un carattere antisemita, come quando, nel 1848, il teologo cattolico Beda Weber accuserà la “jüdische Lügenpresse” (“stampa bugiarda ebraica”) di essere complice dei moti rivoluzionari in Germania.
È solo con la prima guerra mondiale però che il termine diventa decisamente popolare. Durante tutto il conflitto intellettuali e scrittori tedeschi raccontano sui giornali come la Germania venga ingiustamente infangata da una congiura della stampa internazionale: è in quel periodo che esce Die Lügenpresse, un libro del traduttore Reinhold Anton.
Passano vent’anni e con il regime hitleriano il nemico, da esterno, diventa anche – e soprattutto – interno. Saranno infatti i nazisti della NSDAP a trasformare la Lügenpresse in un elemento imprescindibile del proprio vocabolario di politica interna. Di Lügenpresse parlerà Goebbels, indicandola come “rossa” ed “ebraica”, mentre Adolf Hitler utilizzerà il termine per descrivere la “stampa bugiarda dei marxisti”. Dopo questo massiccio uso nazista quindi, parlare di “stampa bugiarda” in Germania non potrà mai più essere una scelta innocente.
Se all’inizio degli anni 2000 sono i militanti della NPD, storico partito post-nazista, e alcuni gruppi dell’estrema destra extra-parlamentare a ripescare per primi il termine dal periodo più buio della storia nazionale, è solo nel 2014 che avviene la vera svolta politica. Con l’emergere di Pegida e Alternative für Deutschland, Lügenpresse torna a infatti essere una parola d’ordine populista, dato che entrambe queste forze non possono essere analizzate con il semplice paradigma del post-nazismo: si tratta piuttosto di formazioni portatrici di un populismo nazional-conservatore che sceglie, strategicamente, di attingere dal vocabolario-tabù della destra radicale.
Si criticano forme di propaganda, ma solo per accoglierne altre, decisamente più ostili alla libertà di espressione.
Le accuse rivolte all’informazione in Germania sono identiche a quelle che circolano altrove in Europa. I media sarebbero un unico grande apparato di propaganda delle élite economiche e finanziarie, il cui scopo è manipolare costantemente il racconto dei fatti, applicando una retorica favorevole all’immigrazione e all’islamizzazione, facendo propaganda per le teorie gender e l’atlantismo anti-russo.
Il lavoro dei media non è analizzato e criticato nelle sue innumerevoli sfumature e nei suoi fisiologici posizionamenti, bensì rifiutato in toto, con un atto fideistico di negazione. La presunta Lügenpresse è schiacciata in un contenitore unico: da chiudere, sigillare e buttare via. Per i sostenitori di questa retorica basta non credere alla grande, compatta e omogenea bugia della stampa ed ecco che tutto diventa immediatamente semplice e comprensibile.
Ovviamente, questo significa che l’informazione nazional-populista che si oppone al presunto sistema possa rivendicare, invece, il valore di grande e omogenea verità. Chi urla “Lügenpresse!”, infatti, presenta spesso un’incredibile fedeltà emotiva, totalmente acritica, verso una galassia eterogenea di blog, magazine e pagine social della propria area di riferimento. Media paralleli che sono supinamente accettati come depositari di un’ideale di verità che, di fatto, è totalitario e potenzialmente repressivo. Si criticano forme di propaganda, ma solo per accoglierne altre, decisamente più ostili alla libertà di espressione.
Fuoco di Colonia
Come si è passati, però, dagli slogan dei gruppuscoli estremisti a una sfiducia più generale nei media? Com’è accaduto che le campagne contro la Lügenpresse sono state introiettate, anche solo inconsciamente e parzialmente, da settori non più trascurabili della società?
Tentiamo una ricostruzione a partire dal 31 agosto 2015, quando di fronte all’enorme flusso di rifugiati e migranti in arrivo dal Medio Oriente, Angela Merkel ha pronunciato il suo celebre “Wir schaffen das” (“Ce la facciamo”, ad accogliere tutti, si intende). Subito, e istintivamente, i maggiori giornali nazionali hanno salutato con favore la Willkommenspolitik (politica dell’accoglienza) del Governo, presentandola non come un semplice tema politico, ma come un imperativo etico e di diritto costituzionale.
Durante l’autunno 2015, per settimane, l’entusiasmo dei media ha suggerito l’idea di una Germania divenuta l’America del nuovo millennio, con la consacrazione assoluta della stessa Cancelliera Merkel, a dicembre eletta persona dell’anno dal Time per la sua gestione della crisi dei migranti.
Poi, come un fulmine a ciel sereno, è arrivata la notte di San Silvestro a Colonia.
Non si insisterà mai abbastanza su come questo singolo evento sia stato uno spartiacque nella Germania contemporanea, condizionandone immediatamente la politica e, ancora di più, una parte dell’immaginario collettivo.
I fatti sono noti: durante i festeggiamenti del nuovo anno a Colonia si sono verificate molestie e aggressioni sessuali di gruppo ai danni di centinaia di donne. Le violenze sono state perpetuate da una folla che la Polizei ha ufficialmente e insistentemente dichiarato essere stata costituita da uomini di “origine nord-africana o araba”.
Poco importa se si sia trattato di immigrati presenti in Germania da più anni o di nuovi arrivati: molto velocemente, per tanti tedeschi, i colpevoli sono diventati subito i “rifugiati della Merkel”.
I fatti hanno presto assunto un peso più ampio di quello della singola e gravissima vicenda criminale. Ancora oggi, non basta che le statistiche dimostrino che i rifugiati non delinquono più di altri: la notte di Colonia è andata molto più in profondità, toccando corde e paure quasi primordiali. Per una parte di tedeschi, Colonia è stata la disturbante prova di una radicale incompatibilità culturale tra la Germania e i nuovi arrivati.
Il silenzio prolungato dei media è stato colpevolmente assordante, tanto che la televisione pubblica ZDF ha dovuto presentare delle scuse ufficiali per le proprie mancanze. Più in generale, l’informazione si è dimostrata impreparata, disorientata ed evasiva.
In quanto al ruolo dell’informazione in quel gennaio 2016, a nessuno è sfuggito che ci siano voluti ben quattro giorni perché la verità su Colonia emergesse su scala nazionale, e che questo sia solo avvenuto sotto la pressione di un’ondata di rabbiose testimonianze sui social network. Il silenzio prolungato dei media è stato colpevolmente assordante, tanto che la televisione pubblica ZDF ha dovuto presentare delle scuse ufficiali per le proprie mancanze. Più in generale, l’informazione si è dimostrata impreparata, disorientata ed evasiva.
Si può dire che, dopo la notte di San Silvestro, una parte del paese abbia definitivamente messo in dubbio i maggiori organi di stampa e le più importanti reti televisive. Da quel giorno, inoltre, il tema dell’immigrazione è diventato il vero cavallo di Troia con cui le forze populiste hanno cercato di far penetrare nella società civile la teoria della Lügenpresse. Per chi urlava da tempo contro i “media del sistema”, Colonia si è subito trasformata in un caso incredibilmente emblematico, la conferma degli elementi del teorema accusatorio.
Autocritica
Una cosa è certa: l’intera narrazione della crisi dei rifugiati è stata e rimane una delle prove più complicate per l’informazione tedesca contemporanea. Colpisce che professionisti così esperti non abbiano saputo, inizialmente, prevedere l’eterogeneo, complesso e molteplice impatto di un fenomeno enorme come l’arrivo, in poco più di un anno, di oltre 1 milione di persone. Lasciando da parte i complottismi, la sensazione è che ai media sia a lungo mancato un linguaggio che sapesse descrivere concretamente le più recenti immigrazioni in Germania e i processi di integrazione delle comunità già presenti nel paese. Realtà che, per troppo tempo, sono state affrontate con paradigmi approssimativi, spesso facilmente attaccabili dalla retorica populista.
Oggi però, tra i grandi protagonisti dell’informazione, sembra essere arrivato il momento dell’autocritica costruttiva, non certo per legittimare la propaganda di chi urla “Lügenpresse!”, ma per cercare di ritrovare un contatto con quella parte di tedeschi che, pur avendo perso fiducia nei media, non vogliono nemmeno seguire il fondamentalismo ideologico.
Tra chi fa più apertamente autocritica c’è oggi Giovanni di Lorenzo, storico direttore italo-tedesco di Die Zeit che ha ammesso di come i media si siano comportati, nella vicenda dei rifugiati, più da “attori” che da “osservatori”, scegliendo un approccio troppo apertamente educativo verso i lettori e il pubblico.
Pensare di poter orientare la società civile di fronte a fatti epocali ed eccezionali è una tentazione talvolta comprensibile, ma che rischia di rivelarsi offensiva o essere percepita come poco trasparente, soprattutto se viene saltato il passaggio cruciale di un’aperta discussione degli eventi. Questo vale certamente per un tema come quello dell’immigrazione e della decisione di Angela Merkel di aprire le frontiere nazionali nel 2015.
Ne è dimostrazione il fatto che, oggi, proprio quella scelta è diventata la pietra angolare dell’intero dibattito politico tedesco, monopolizzando la scena oltre ogni precedente previsione. Un dibattito a cui sono legati, indissolubilmente, temi divenuti ormai quotidiani: le modalità pratiche di integrazione sociale ed economica di rifugiati e migranti, il ruolo delle comunità e delle culture islamiche in Germania e il virulento emergere di un populismo xenofobo.
Piaccia o meno, l’informazione tedesca dovrà confrontarsi sempre di più con questo scenario interconnesso e carico di urgenze. Il solo modo per farlo sarà applicare una coraggiosa, attenta e determinata indipendenza. Non per affermare una verità, ma per continuare a cercarla.