Un’intervista a Lucia Tozzi a partire dal suo ultimo libro, L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane.
Stella Succi è una storica dell'arte e ricercatrice indipendente. Ha fatto parte delle redazioni di Alfabeta2, Mousse Magazine, The Towner, Prismo e attualmente è coordinatrice del Tascabile. Fa parte di Altalena, collettivo e gruppo di ricerca interdisciplinare nel campo delle arti visive. Dal 2020 cura la ricerca drammaturgica della danzatrice e coreografa Annamaria Ajmone. È ricercatrice presso least [laboratoire écologie et art pour une société en transition].
Lucia Tozzi è una studiosa di politiche urbane e giornalista. L’intervista che segue prende spunto dalla recente pubblicazione del libro L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane, che ricostruisce le strategie di marketing cittadino, la complessa rete degli attori pubblici e privati, gli interessi economici e politici in campo e i meccanismi di cooptazione della società civile nella Milano post-Expo: un modello sempre più imitato, ma sempre meno da imitare.
Un aspetto che mi ha colpita del libro è la grande quantità di informazioni che hai recuperato e che ti hanno permesso di ricostruire il groviglio di responsabilità alla base dei processi di gentrificazione di Milano. Com’è andata la ricerca? Come hai cominciato?
Il processo di raccolta di informazioni è nato lavorando da Zero nella redazione cultura. Il mio compito non era segnalare quello che mi piaceva, ma tutte le cose che accadevano a Milano rubricate come “cultura”. E sono rimasta scioccata, perché mi sono resa conto che ormai nella categoria rientrano i fenomeni più insulsi e commerciali.
Ad esempio?
Zero è stato uno dei primi media, per dire, a trasformare i cocktail in un fenomeno culturale degno di surreali interviste sulla filosofia del rosmarino prostrato e la forma del ghiaccio, e vabbè, ma a catena si è arrivati a fare le mostre sugli shaker, noiosissimi approfondimenti sui buttafuori, rassegne in tono eccitato su dove trovare i migliori gelati fallici, inchieste sui quartieri degli influencer. A opprimermi davvero, però, era la grande quantità di eventi legati alla cosiddetta CSR (Corporate Social Responsability) o ESG (Environmental-Social-Governance), alla promozione di un’immagine sostenibile e politicamente corretta di aziende o di alcuni settori politici – tutto ciò che rientra nella sfera del socialwashing, pinkwashing e greenwashing. Ho cominciato a chiedermi “Ma perché devo parlare di Timberland che sistema quattro vasetti in un cortile?”. Così ho iniziato a sentire l’esigenza di mostrare come tutta questa fuffa finisca per passare come cultura, anche se la maggioranza delle persone non sembra rendersene conto. Se non fossi stata costretta a questo presenzialismo costante per cinque anni non me ne sarei nemmeno resa conto.
Eventi che, tra l’altro, negli ultimi anni si sono concentrati sempre di più nelle periferie.
Beppe Sala ha iniziato a lanciare i suoi piani per le periferie insieme alla Fondazione Cariplo, e in questo modo parecchi soldi sono stati allocati non a migliorare lo stato degli abitanti dei territori più marginali, ma su progetti implicati nella gentrificazione, nella “valorizzazione”. È stato lì che le mie indagini hanno iniziato a prendere una certa piega, anche perché era molto difficile capirci qualcosa: sono mondi chiusissimi, che hanno linguaggi assurdi, incomprensibili, noiosissimi con un nucleo ristretto di esperti che parlano tra loro e che cercano di campare in questo milieu. Ne sono venuta a capo leggendo il libro di Davide Caselli Esperti. Come studiarli e perché: lì, con un linguaggio più scientifico del mio, vengono date informazioni importanti che mi hanno aiutata a interpretare questi mondi e soprattutto mi hanno aperto gli occhi sul fatto che esista una critica scientifica a questa situazione, non è solo una percezione legata alla nostra insofferenza.
Oltretutto nel libro fai notare come la parola periferia abbia cominciato a scomparire per far posto al più digeribile titolo di “quartieri”.
La lotta contro la parola “periferia” è stata portata avanti dalla sinistra, proprio perché la destra ha sempre demonizzato le periferie. Per anni i migliori geografi e teorici hanno sostenuto che non avesse più alcun senso la stessa distinzione tra centro e periferia, idea che non condivido affatto: è uno dei motivi che a suo tempo mi spinsero a scrivere. Detto questo, un conto sono le teorie di sinistra, un altro conto è l’uso che ne viene fatto da destra. È evidente che qua a Milano si è iniziata a negare la distinzione tra centro e periferia perché c’è la volontà di trasformare tutto in centro, espellere i fastidiosi abitanti poveri e trasformare tutto in terreno valorizzato.
Chiamare le periferie “quartieri” è una pratica che si è appoggiata alle politiche delle “città da quindici minuti”, che lasciano il tempo che trovano anche all’estero e in ogni caso da noi sono state interpretate nella maniera peggiore. Pensa a quei video osceni promossi dalla giunta Sala, che spingevano anche dei naming, tipo LamBrooklyn, che per fortuna non sono passati: grazie a Dio. La questione della città da quindici minuti qui a Milano puntava sull’identità dei quartieri: marketing puro. L’idea che ogni quartiere abbia la sua identità, la sua celebrity, il suo testimonial, il suo influencer e che proprio per questo uno debba essere fiero di vivere all’Ortica è una cosa disgustosa, che sposta investimenti reali rubando soldi al welfare.
Quello che sta succedendo anche con le sconfortanti opere legali di street-art.
I servizi culturali vengono trasformati in questi “murales finto partecipati”. I bandi per la loro realizzazione sono strutturati in modo osceno: ci deve essere un intermediario (di solito un’agenzia pubblicitaria o di comunicazione); dei giovani che fanno praticamente da figuranti seguendo il lavoro e comunicando di esserne entusiasti, ma che assolutamente non devono essere pagati, neanche con un rimborso spese; e poi l’artista principale, che partecipa con un compenso bassissimo. I fondi vengono sperperati per queste operazioni, nessuno ci guadagna davvero, e alla fine risulta impossibile trovare i soldi per pagare un custode di un museo civico.
Oppure le feste dei quartieri organizzate da Zero, la mia ex rivista, per produrre identità. Penso a quella fatta in Via Sile, dove, come da un altro pianeta, arrivavano questi giovani fashion, portati dalle scuole, e c’era il cocktail e il panino Corvetto, questo tipo di brandizzazione di bassissimo livello: quelli sono soldi che vengono allocati per promuovere una festa a cui il quartiere non partecipa, perché è un’iniziativa calata dall’alto come un’astronave, e il cui obiettivo è inventare un quartiere sulla mappa per attirare fondi pubblici e privati.
Nel libro fai un invito alle associazioni e alle realtà indipendenti della città a non collaborare ai progetti di gentrificazione come quelli di cui parli nel libro. L’ho trovato un appello molto forte: che tipo di reazioni ha suscitato?
Trovo particolarmente pericoloso che vengano continuamente mutuati i linguaggi, le forme di organizzazione e i valori apparenti della sinistra per rovesciarli nel loro opposto. Nel libro cito Hannah Arendt perché in un certo senso il collaborazionismo di tutti quelli come noi è uno dei nodi centrali della depoliticizzazione in cui siamo immersi, e mi impensierisce che una parte del terzo settore abbia reagito in maniera chiusa, non dialogica. Molti in realtà pensano che abbia fatto bene a dire le cose in maniera chiara, che ci sia bisogno di squarciare il velo, anche per non lasciare isolato chi si oppone a queste forme di cooptazione delle istanze politiche. È successo però che alcuni si siano risentiti. Il loro punto è: noi facciamo i bandi, accettiamo finanziamenti e sponsorizzazioni da parte di banche e fondazioni private, persino da Eni o da Banca Intesa, ma è una posizione tattica, li usiamo per fare contestazione. C’è chi mi ha fatto notare che anche Mediterranea prende soldi dalle banche. La mia risposta è che Mediterranea ha tanti di quei finanziamenti che secondo me potrebbe serenamente evitare di prendere soldi da Banca Intesa, che finanzia armi e guerre; detto questo, un conto è prendere soldi per tamponare un’emergenza umanitaria, un altro è prenderli per fare attività artistiche in periferia. Sono due piani di urgenza completamente diversi, per cui per quanto mi riguarda è ampiamente possibile disertare, tenersi lontano da questi soldi e da questo sistema, boicottarlo. Infine, per quanto riguarda questa “contestazione dall’interno”: è lecita? Senz’altro sì, però bisogna farsi delle domande sulla genuinità di queste iniziative nell’ambito del sociale, dell’educazione e della rigenerazione urbana. Anche perché in Italia, più che in altri Paesi, le voci critiche e gli intellettuali sono compromessi, si vendono al miglior offerente per quattro spiccioli. Non voglio fare del moralismo, perché ognuno poi se la vede con la propria coscienza: è una questione prettamente politica. Descrivere questa come una lettura moralistica è il mezzo per rompere il fronte politico o attivista.
Questa continua cooptazione oltre a rendere spesso inefficace l’influenza delle associazioni scopre il fianco alla privatizzazione – sto pensando agli spazi privati “a uso pubblico” di cui parli nel libro e che stanno proliferando in città.
Continuando a proiettare un immaginario alternativo come se fosse un Luna Park del diritto alla città, questo specie di Luna Park che promuove l’autogestione ludica e della cura diffusa, in realtà stiamo facendo un enorme regalo ai nostri nemici, a quelli che ci stanno togliendo tutti i diritti, uno dopo l’altro: la scuola, la sanità, lo sport e gli spazi pubblici non controllati. Ci sono cose per cui vale la pena essere un po’ più generosi e lottare per il pubblico. Se le cave di Cabassi negli anni Sessanta non sono diventate dei palazzoni è perché c’è gente che ha lottato perché diventasse un parco pubblico e perché dopo l’Expo rimanesse tale, e ora è davvero pubblico, di tutti: non è un giardinetto autogestito. Anche se questo implica delle complessità, davvero tutti possono andarci. A differenza del parco BAM, dove se vieni riconosciuto come un ospite non gradito, un po’ troppo alternativo, vieni gentilmente invitato dalla sorveglianza ad andartene.
Cosa pensi delle recenti proteste degli studenti rispetto al caro affitti?
Sono favorevole alle manifestazioni studentesche sul diritto ad avere affitti calmierati. È fondamentale che gli studenti protestino, nella consapevolezza, però, che non esistono solo loro e che storicamente la comunità studentesca è stata parte del problema; anche io sono stata fuori sede a Bologna, ed eravamo noi fuori sede a respingere gli abitanti verso l’esterno della città. Non dico che gli studenti siano tutti ricchi, ma costituiscono il 20% della popolazione ed evidentemente non sarà quel 20% il quintile più povero: una parte di chi arriva a studiare all’università appartiene a famiglie che possono comprare casa facendo alzare i prezzi. Poi ci sono quelli che vanno sul mercato degli affitti e che si possono permettere stanze o studentati costosissimi e contribuiscono al rialzo degli affitti. Infine, c’è una quota minoritaria costretta a vivere in condizioni abitative disumane. È importante, dunque, che non si cada nella trappola istituzionale per avallare la costruzione di studentati finanziati dal PNRR, che poi nella realtà sono o in compartecipazione pubblico-privata o addirittura solo privati e che quindi non risolveranno il problema dei prezzi. Dobbiamo batterci affinché i fondi del PNRR vengano spesi per studentati esclusivamente pubblici, con prezzi davvero calmierati. E soprattutto per adottare politiche generali contro la rendita urbana.
Spostarsi per ragioni di studio è un fenomeno che è cresciuto enormemente negli ultimi anni, insieme all’idea che l’attrattività di una città per gli studenti sia un fenomeno naturale e bello, positivo di per sé.
Non è così. Gli studenti fuorisede sono sempre esistiti, ma fino a qualche anno fa erano meglio distribuiti. Le riforme contraddittorie degli ultimi anni hanno da una parte prodotto piccole università in luoghi che non ne avevano bisogno; dall’altra, grazie all’autonomia e ai sistemi di ranking sul modello statunitense, i finanziamenti maggiori paradossalmente non arrivano alle università che ne hanno più bisogno ma a quelle che sono già realtà solidissime. Questo è uno dei tanti sistemi che alimentano il divario territoriale che è uno dei fondamenti assoluti delle politiche neoliberali; ad un certo punto è successo che le università di Napoli, di Bari, di Palermo, di Catania, che erano delle eccellenze, sono diventate povere di ricercatori, strutture, personale. Quindi, le famiglie si sentono in dovere di mandare i figli lontano, perché altrimenti non investirebbero a sufficienza nel loro futuro.
Ci sono statistiche che dicono il 25% degli studenti meridionali si laurea al Nord: non si tratta più di libera scelta, ma di ultima spiaggia. È un enorme sacrificio e un grande prosciugamento delle risorse del Sud. Oltrettutto, come dice Isaia Sales, le migrazioni di un tempo attivavano un’economia delle rimesse: la gente che emigrava mandava indietro i soldi; adesso sono le persone che restano che mandano soldi a chi va via. Milano ruba studenti anche a Bologna, Pisa, Firenze e Venezia, città storicamente universitarie. È una competizione feroce, liberista. I rettori, d’altronde, si comportano come attori immobiliari primari: usano gli studenti come capitale umano, come mandrie, se li puoi gestire bene e a frotte puoi porti come un attore potentissimo sul mercato: “Hai bisogno di riqualificare Cascina Merlata? Ti mando le mie facoltà scientifiche!”. I dirigenti scolastici hanno un peso: pensa alle Scuole civiche a Bovisa, all’Accademia di Brera a Scalo Farini… Non c’è grosso operatore immobiliare che non voglia accaparrarsi qualche migliaio di studenti, e i rettori operano come mercanti di vacche. Gli studenti sono stati poco consapevoli in passato, le proteste per gli spostamenti a Rho (che, obiettivamente, sono un peggioramento) sono state deboli.
Sono tanti i motivi per cui questi processi si concentrano in particolare a Milano. Quando ti ho intervistata insieme a Giovanna Silva all’uscita di Napoli. Contro il panorama, abbiamo parlato, tra le altre cose, di come a Milano si concentrino i flussi di denaro pubblico. Nell’Invenzione di Milano completi il discorso raccontando le iniziative che il Comune stesso ha messo in campo, contribuendo attivamente ad attrarre gli speculatori – come tenere molto bassi gli oneri di urbanizzazione.
Sì, Milano è stata in questi anni una specie di paradiso fiscale per gli immobiliaristi, ed è una scelta cosciente di chi l’ha governata. Si dice che il Comune non può fare molto per arginare la rendita e la speculazione, ma questo è vero solo in parte. Le pressioni sono tante, ed è difficile agire a livello esclusivamente locale, ma ad esempio i politici che cercano di far ricadere la responsabilità della turistificazione e di AirBnb sul governo sono gli stessi politici che hanno governato per dodici anni alimentandoli! Proporre una legge nazionale è un assist clamoroso che alcuni movimenti stanno offrendo ai responsabili del disastro attuale. Così gli assessori o i sindaci di centrosinistra possono fare bella figura comportandosi da opposizione e scaricando il barile sul governo nazionale, quando loro hanno fatto di tutto per favorire la gentrificazione, non esercitano nessuna forma di calmieramento del mercato e nemmeno controlli e tassazioni che potrebbero applicare sugli immobili vuoti e sfitti. Insomma, sarebbe un colpaccio, e infatti i politici del centrosinistra otterranno sicuramente dei vantaggi.
A Milano, naturalmente, il libro sta ricevendo molta attenzione: e nel resto d’Italia?
Ho scritto il libro con il grande obiettivo che altre città prendessero coscienza che Milano non è esattamente in una situazione radiosa da imitare. Il libro è stato letto soprattutto dove c’è un avanzamento molto veloce di politiche simili a quelle di Milano, e poi è circolato nel tessuto di studenti e attivisti più agguerrito, più colto e consapevole. A Napoli c’è stata addirittura un’intervista in cui mi hanno lasciato dire che la nuova amministrazione rischia di andare dritta verso il baratro del modello Milano, senza godere dei suoi vantaggi posizionali. Poi ho fatto incontri a Bari, a Catania: anche lì ci sono queste piccole diaspore di attori – associazioni o persone – che tornano al Sud e diffondono queste pratiche. Ho fatto un passaggio a Genova, dove la gente era entusiasta del libro perché il loro sindaco ha detto che Genova diventerà il più bel sobborgo di Milano: chiaramente, nessuno di loro era d’accordo.
E le recensioni? Come stanno andando?
Le prime recensioni del libro sono arrivate dalla parte “avversa”. Che poi, per la verità, queste recensioni in sé non sono state così avverse: partendo dalla prospettiva dell’“innovazione” finiscono per prendere di petto la parte più aggressiva del libro, ma non in maniera sprezzante, il che è abbastanza stupefacente. Se proprio devo constatare un’assenza, è in certe testate di centrosinistra.