N el 2014 compare sulla rivista americana The Atlantic un articolo che darà al suo autore fama mondiale. Ha per titolo “The Case for Reparations” (A favore delle riparazioni) ed è firmato dal giornalista allora trentanovenne Ta-Nehisi Coates. È un lungo viaggio attraverso la segregazione dei neri, partendo dalla violenza sui corpi degli schiavi nel Settecento per poi attraversare le innumerevoli forme che ha assunto il razzismo nei tre secoli di storia successiva, fino all’elezione di Obama. Un testo documentatissimo, che analizza nel dettaglio anche le leggi del mondo del lavoro, i modi in cui l’urbanistica è stata pensata per segregare, le complicità del settore immobiliare, i mille gangli – alcuni più subdoli di altri – con cui l’esclusione è stata applicata e rinforzata.
La tesi di Coates, afroamericano figlio di un ex militante delle Pantere Nere, è questa: c’è un lungo filo spinato che lega eventi lontani tra loro nel tempo come le leggi Jim Crow, che sistematizzarono la segregazione razziale, il redlining – vale a dire la pratica di rifiutare l’erogazione di un servizio o del credito a specifiche comunità – e la crisi finanziaria del 2008, che ha colpito con particolare durezza proprio la comunità nera. Si tratta di uno spaventoso e a suo modo coerente progetto di ingegneria sociale, volto a mantenere le persone di colore in una condizione di subalternità ineludibile, ingranata nel tessuto sociale dell’America. Grazie a questo progetto, di lungo corso, l’impero-faro dell’Occidente “ha potuto gettare le basi economiche per il suo esperimento democratico”.
Questa considerazione spinge il premiatissimo autore di Tra me e il mondo a formulare una proposta radicale: i secoli di oppressione nelle piantagioni, i cento anni di segregazione razziale e i quarant’anni di discriminazione istituzionalizzata vanno risarciti economicamente. I mea culpa non bastano: i neri vanno pagati. Coates pensa a qualcosa che sia “più di un sussidio, di una liquidazione, di una bustarella, del prezzo per ottenere il silenzio di qualcuno: sto parlando di un regolamento di conti nazionale che porterebbe a un rinnovamento nello spirito”. In fondo, spiega, gli ebrei hanno ottenuto risarcimenti per l’Olocausto dopo la Seconda guerra mondiale, i nativi del Canada per i maltrattamenti nelle scuole missionarie, quelli australiani per i soprusi coloniali, i nippo-americani per la detenzione nei campi di concentramento rooseveltiani, e così via; perché i neri no? Cosa c’è di diverso nella loro sfortuna?
Dai margini al centro
Il termine reparations era già emerso nel dibattito politico statunitense, sotto forma di proposte avanzate da gruppi extraparlamentari e, timidamente, alla fine degli anni Ottanta quando alcuni membri del Partito democratico tentarono di istituire una commissione per valutare l’impatto economico delle discriminazioni sui neri. Ma tutte queste proposte non superarono mai la soglia del Congresso, e restarono per decenni confinate nelle frange radicali dell’attivismo. Per di più, la presidenza di Bill Clinton era considerata dagli afro-americani la migliore alleata che avessero avuto da molto tempo a questa parte, e gli eredi istituzionali del movimento dei diritti civili scelsero l’acquiescenza.
Secondo Coates, i secoli di oppressione nelle piantagioni, la segregazione razziale e la discriminazione istituzionalizzata vanno risarciti economicamente.
Quando esce il già citato long form di Coates la parola reparations ha una risonanza ben maggiore, per lo meno in ambito culturale: gli intellettuali sono costretti a confrontarvisi e a prendere posizione, in un senso o nell’altro. Se la sinistra radicale trasforma Coates in una delle sue voci più autorevoli e ascoltate, i moderati si perdono in tentennamenti e distinguo, mentre i conservatori, com’è facile immaginare, non ne vogliono proprio sentir parlare. Tutti però – favorevoli e contrari – concordavano allora sul fatto che mai e poi mai l’argomento delle riparazioni avrebbe conquistato il mainstream politico, della politica che conta. Soprattutto con un presidente come Obama che faceva del moderatismo su alcune questioni storiche il peso per bilanciare l’apertura su altri fronti-tabù, come la sanità pubblica e il matrimonio gay. Sembrava essersi già spinto troppo in là un Paese che si era permesso l’azzardo del primo presidente nero, dove una generazione di maschi bianchi di mezza età stava per convertire il suo terrore per la cultura liberale e la galassia dalle sinistre in un’ondata di reazione che avrebbe mandato Trump alla Casa Bianca.
Un lustro più tardi, le cose sembrano andate in maniera parecchio differente. Coates si è confermato scrittore best-seller e autore cinematografico di prim’ordine, in cima alle classifiche del New York Times e ascoltato con reverenza. Soprattutto, su scala globale, c’è un movimento di nome Black Lives Matter, che partendo dalla richiesta di giustizia per la morte di George Floyd nelle mani della polizia di Minneapolis si è espanso in tutto il mondo, ha messo in discussione la militarizzazione eccessiva delle forze dell’ordine e in Inghilterra ha portato a buttare all’abbattimento di statue di schiavisti davanti agli occhi attoniti di un partito conservatore che ha stravinto le ultime elezioni.
Ma già prima che prima che la crisi del coronavirus e la morte di Floyd occupassero le cronache, era successo qualcosa di sbalorditivo: l’ipotesi delle riparazioni aveva conquistato la politica istituzionale. Sotto la pressione della stampa e degli attivisti, durante le primarie del partito democratico, ogni candidato si era sentito obbligato a dire la propria. Così si sono dichiarati favorevoli alle proposta sia la senatrice Elizabeth Warren che l’ex sindaco Peter Buttigieg, sia pure nella forma – un po’ fumosa – di una commissione di studio sugli effetti materiali del razzismo. Due candidati afroamericani, l’ex procuratore generale della California Kamala Harris e il senatore del New Jersey Cory Booker, pur ritenendo legittima la domanda, l’hanno girata in una promessa molto cauta di aiuti ai segmenti sociali più disagiati.
Il tema delle riparazioni sembra significare cose diverse a seconda delle persone che ne parlano.
Il vincitore della competizione, Joe Biden, il più “istituzionale” tra i candidati, colui che nel 1975 aveva rigettato le riparazioni con sdegno, spiegando che non doveva essere lui a pagare le colpe dei suoi antenati, ha fatto di tutto per schivare la domanda durante le primarie, e adesso parla d’altro, descrivendosi come colui che rimarginerà le ferite del Paese. Forse la cosa più sensata l’ha detta Bernie Sanders, il socialista senatore del Vermont, secondo il quale la domanda è legittima ma nessuno ha davvero capito di cosa si parla.
Il tema delle riparazioni sembra significare cose diverse a seconda delle persone che ne parlano. La sensazione prevalente è che la proposta avanzata da Ta-Nehisi Coates si tradurrà, se dovesse vincere un Democratico nel novembre 2020, in un rafforzamento di programmi anti-povertà preesistenti, basati sul reddito del ricevente oppure sulla sua località di residenza. More of the same, e in una forma annacquata, per non destare le ire della parte radicalizzata dei conservatori. Il dato forse fondamentale emerso dal recente dibattito è che nessuno dei candidati democratici ha accennato a una qualche forma di sussidio basato sull’etnicità di appartenenza. Che è, ricordiamolo, il punto centrale della proposta di Coates. Di quell’idea resterebbe l’etichetta del “risarcimento”, e poco più.
Ma anche i simboli hanno un loro peso. Perché segnalano lo spostamento di un’agenda, dei limiti di cosa è accettabile all’interno un discorso pubblico. Gli argomenti di Coates – lungi dall’essere rimasti parte di una frangia estremista – stanno influenzando in modo rilevante nientemeno che la corsa alla presidenza dopo quattro anni di Trump, nel mezzo di un confronto spietato tra la galassia liberal-progressista e quella conservatrice-sovranista. Per ora sappiamo che, per quanto la società statunitense sembri più aperta a idee che un tempo appartenevano alla sinistra radicale, sul tema dei risarcimenti prevale ancora lo scetticismo: secondo un recente sondaggio Abc/Ipsos, soltanto uno statunitense su quattro si dichiara favorevole a una gratifica economica per i discendenti degli schiavi.
La speranza di molti osservatori progressisti è che Black Lives Matter quest’anno riesca a superare i confini della militanza, dell’associazionismo giovanile, delle università e delle metropoli. Riuscendo, come sembrano mostrare altri sondaggi, a “convertire” molti scettici alla causa antirazzista e alla riforma della polizia, anche attraverso una serie di gesti simbolici che soltanto un lustro addietro sarebbero apparsi inconcepibili. Secondo un “falco liberale” come Jonathan Chait, invece, il movimento avrà l’effetto di polarizzare ancora di più la società tra difensori della tradizione e iper-progressisti, e rendere le elezioni presidenziali di novembre un appuntamento ancora più drammatico e divisivo.
Sacrificati per la nazione
Quella statunitense non è, ovviamente, l’unica società che ha dovuto guardarsi allo specchio e riconoscere di essere stata fondata sull’annientamento psicologico, fisico ed economico di un popolo. Fare i conti con le minoranze sacrificate sull’altare della costruzione nazionale è un classico di diversi governi occidentali, soprattutto dell’ex-Commonwealth. Se gli indiani d’America sono stati ricompensati con le famose riserve – che fungono da “zone liberate” dalla burocrazia federale -, in diversi Paesi dell’Est europeo la politica ha scelto di chiudere un occhio sui rituali e le eccezioni di alcune migliaia di sinti. In Australia il dibattito sulla “generazione perduta” degli aborigeni dura da decenni e ancora non si è risolto. L’India, che ha trovato nell’epica della decolonizzazione lo strumento per unificare centinaia di lingue e culture differenti, deve gestire il sentimento di rigetto della borghesia in ascesa verso le numerose tribù semi-primitive dell’interno del Paese, e la religione hindu viene usata dal governo nazionalista non tanto come collante religioso quanto identitario, gerarchico, e di ritorno all’ordine contro le pretese avanzate dagli altri culti.
In Gran Bretagna e negli Stati Uniti si è pensato di saldare i debiti con gli ex-schiavi o con i discendenti delle ex-colonie attraverso un sistema compensativo piuttosto che “assimilazionista”, producendo quella che viene chiamata “azione affermativa”, vale a dire la prassi burocratica di garantire alle minoranze etniche e sessuali canali privilegiati di rappresentanza sui luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle istituzioni, in modo da bilanciare secoli di pregiudizi. Questo trattamento di favore, sebbene non impedisca alle minoranze di patire le difficoltà di un sistema educativo sempre più dispendioso e di un ascensore sociale anchilosato, ha acceso un senso di rivalsa da parte dei segmenti più conservatori, e la percezione da essere discriminati nel loro stesso paese.
E in Italia? Nonostante per decenni i governi della Prima Repubblica siano stati dominati da una corposa componente meridionale – ministri, sottosegretari, presidenti del Consiglio e capi di Stato – lo status “post-coloniale” del Mezzogiorno continua a restare un argomento di discussione importante. L’eroe del filone più vittimistico e rancoroso del “sudismo” è Pino Aprile, che con i suoi best-seller sui massacri del brigantaggio e le ruberie dei Savoia ha fornito argomenti facilmente citabili per una generazione di giovani risentiti per la mancanza di opportunità lavorative e financo esistenziali; una massa che è confluita negli ultimi anni in massa verso partiti “anti-sistema” come il Movimento 5 stelle, Fratelli d’Italia e in misura non trascurabile persino nella Lega di Salvini.
Quella statunitense non è l’unica società che ha dovuto guardarsi allo specchio e riconoscere di essere stata fondata sull’annientamento psicologico, fisico ed economico di un popolo.
Con linguaggi non poi dissimili da quelli degli studenti di colore entrati a far parte di Black Lives Matter, il nuovo meridionalismo radicale sostiene che i “terroni” – termine rivendicato con orgoglio insieme a quello di “briganti” – sarebbero stati scientificamente disumanizzati a partire dall’Unità per poi essere depredati dai capitalisti del Nord; che per questo motivo patiscono una condizione di impoverimento che si tramanda di generazione in generazione, che andrebbe affrontata con misure eccezionali. Ma nel caso del Sud Italia – ammesso che il discorso delle riparazioni possa mai mettere piede, con il M5s in declino e la Lega primo partito – il calcolo sarebbe relativamente facile, in quanto basato su un’antica demarcazione territoriale. Per quanto riguarda le argomentazioni a favore di un’ammenda per i neri svantaggiati, invece, le complicazioni sarebbero molte di più.
Tanto per cominciare, ci si troverebbe di fronte al bivio tra una misura basata sulla genealogia e una basata sulle condizioni socio-economiche. Gli immigrati somali negli Stati Uniti sono mediamente più poveri degli afroamericani, mentre al contrario gli immigrati nigeriani sono mediamente più brillanti negli studi. Eppure, entrambi potrebbero essere esclusi da una policy indirizzata soltanto ai pronipoti degli schiavi. In secondo luogo, per fare domanda per le riparazioni, quale dovrebbe essere la percentuale minima del Dna africano presente nel sangue? Nel caso degli aborigeni australiani o degli indiani nativi d’America, il dilemma è stato risolto lasciando che fossero le tribù a certificare la propria discendenza, e a identificare chi è meritevole degli eventuali bonus socio-economici. La stessa logica è stata applicata per risolvere, almeno nell’immediato Dopoguerra, la questione ebraica, trovando in Israele il locus della compensazione, e nelle comunità diasporiche gli “addetti alla selezione” di coloro a cui spettava la cittadinanza del nuovo Stato. Negli Stati Uniti, il rischio di un conflitto inter-etnico o di una ulteriore atomizzazione del corpo sociale è evidente.
A detta di Hughes, trasformare in legge la proposta sulle riparazioni vorrebbe dire privilegiare “la giustizia simbolica per i morti rispetto alla giustizia tangibile per i vivi”.
A detta di Coleman Hughes, polemista afroamericano che è stato chiamato l’anno scorso, nonostante i soli 22 anni di età a testimoniare al Congresso sulla questione delle riparazioni, trasformare in legge questa proposta vorrebbe dire privilegiare “la giustizia simbolica per i morti rispetto alla giustizia tangibile per i vivi”. Secondo Hughes – il quale rappresenta un po’ la nemesi Coates – un nodo cruciale da affrontare è la presunta “unicità” degli afroamericani. Davvero il trauma che da tempo immemore si portano dentro, spiega, è distinto e irripetibile rispetto a quello di altre minoranze e immigrati che verrebbero esclusi dalle reparations – qualunque cosa esse vogliano dire? E – domanda più importante – quel trauma è davvero all’origine delle (evidenti e indiscutibili) sperequazioni attuali?
La risposta standard, e piuttosto sbrigativa, dei liberisti è che delle ingiustizie della Storia si fa già carico il sistema educativo, in collaborazione con numerose misure di assistenza sociale e di beneficenza privata. Ma all’interno di questa posizione ci sono riflessioni di buon senso. L’economista afroamericano Thomas Sowell ha ragione quando sostiene che i soldi stanziati per ogni discendente degli schiavi – fossero anche decine di migliaia di dollari, indipendentemente dalla sua vicenda familiare e dalle sue circostanze finanziarie – potrebbero non avere alcun effetto trasformativo di lungo periodo sulla comunità che si vorrebbe aiutare. Quei soldi metterebbero, secondo Sowell, in secondo piano una serie di fattori che gli studi sociali hanno dimostrato essere decisivi nel miglioramento della condizione familiare, come non fare figli prima di sposarsi, finire l’università o crescere con genitori che stanno ancora insieme.
Il rischio di questa critica è che finisca con l’arenarsi in un moralismo reazionario che trova la via per l’emancipazione soltanto negli attributi morali e lo sforzo individuale; oppure, viceversa, soltanto nel duro intervento dello Stato che appiana ogni differenza antropologica e storica con una copiosa infusione di lavoro garantito. Senza cadere nel rigetto totale di quella “scuola del risentimento” di cui parlava, con disprezzo, anche il critico Harold Bloom alla metà degli anni Novanta, quando la Generazione X voleva stravolgere il canone letterario occidentale, i tentativi per scongiurare una guerra culturale permanente vanno presi sul serio e non liquidati come necessariamente volti alla perpetuazione del sistema discriminatorio attuale.
Politicamente parlando, il risarcimento alla vittima si trasforma in un’amnistia al colpevole.
Del resto, la Storia ci insegna anche che i risarcimenti in denaro sono stati incoraggiati a volte proprio per mettere una pietra sulle dispute identitarie. Negli anni Novanta, l’intellettuale reaganiano Charles Krauthammer riteneva giustificata la battaglia delle riparazioni per gli afroamericani proprio perché un assegno una tantum avrebbe messo fine, secondo lui, all’affirmative action, che considerava una farsa e un impedimento allo sviluppo individuale. Allo stesso modo, molti anni più tardi, è tutta economica l’offerta avanzata da Trump e Israele ai palestinesi in Cisgiordania, nel recente Deal of the Century: dovessero accettare il risarcimento per i territori occupati da Gerusalemme a partire dal 1967, gli abitanti degli stessi non potrebbero più avanzare pretese o rivangare nel passato, e considerarsi soddisfatti. Il risarcimento alla vittima (vera o presunta) in questo modo si trasforma in un’amnistia al colpevole (vero o presunto), per lo meno dal punto di vista politico.
Corpus delicti
Una metafora adoperata nelle terapie per i disturbi da stress post-traumatico spiega che coloro a cui accade qualcosa di terribile si ritrovano talvolta affidate l’onere della prova. Per quanto possa sembrare paradossale, mostrarsi subito reintegrati con il resto della comunità, o mostrare all’esterno le apparenze di una guarigione rischia di far perdere alle vittime la prova della violenza che hanno subito, e dunque lo stesso status di vittime. Questo provoca l’affermarsi di una narrativa basata sul perdurare del “corpo del delitto” – ovvero della malattia – che funge da ancoraggio a quello status. Ritornando ai movimenti antirazzisti di oggi, il rischio è che il loro corpus delicti sia l’ingiustizia subita dagli antenati – cioè dai morti – e che esso faccia da freno a una piattaforma per creare alleanze, e comunioni di intenti, tra i vivi.
Scrittori come Coates e Hughes sono riusciti a stimolare, seppur partendo da prospettive ideologiche differenti, un dibattito che attraversa come dei raggi X la democrazia liberale in cui vivono. Affrontare l’eredità dello schiavismo al tempo di Trump – che Coates chiama “il primo presidente bianco”, ossia la cui elezione è segnata in modo determinante dal colore della pelle – è inevitabile. La discussione diventa, anzi, un modo per scongiurare un nuovo ciclo di discriminazioni istituzionalizzate; una controreazione alla reazione. Tuttavia, il risarcimento economico è paradossalmente la forma più primitiva, arcaica e in definitiva inaccettabile per i crimini “penali”, tanto più storici. Non è un caso che molte socialdemocrazie avanzate abbiano stabilito da tempo che alcuni crimini non possono essere compensati da nessun denaro.
Affrontare l’eredità dello schiavismo al tempo di Trump, la cui elezione è segnata in modo determinante dal colore della pelle, è inevitabile.
Se è vero che gli sforzi collettivi che ci imponiamo per superare la disperazione, i lutti e gli abomini imposti sui nostri simili sono lastricati di ipocrisia, o anche solo di semplice pragmatismo, il timore è che ridurli a una somma da mercificare o a un atto notarile rischia di essere una scelta eticamente ancora più discutibile, e lacerante per la collettività. Sarebbe nefasto dover scegliere tra riduzionismo identitario e oblio, piuttosto che tra proposte che possano connettere, anziché dividere, i corpi sociali.