L a marcia era lunga 8 chilometri. Partiva da piazza Taksim, passava per la redazione di Agos e poi giù, dritto fino alla chiesa Kumkapi della Vergine Maria. Nonostante la temperatura rigida di fine gennaio la folla si era radunata fin dall’alba e, al passaggio del carro funebre decorato con una moltitudine di fiori, era al suo massimo. Passi senza fretta, occhi pieni di lacrime, il capo chino, e la musica triste e solenne che arrivava da dietro. Mentre i brani armeni in sottofondo si mescolavano al cordoglio, un ronzio crescente richiamava la gente sui balconi, che applaudiva all’indirizzo dell’auto nera che avanzava lenta. E intanto il comitato organizzatore chiedeva ancora una volta di non gridare slogan e di mantenere il silenzio, così come richiesto dalla vittima. L’atmosfera cupa delle piazze era rotta da un solo coro, una litania. “Siamo tutti armeni. Siamo tutti Hrant Dink”.
Hrant Dink è stato un uomo, un marito, un giornalista, un armeno, un turco, uno scrittore, un testimone, un martire. La sua vita, la sua carriera e il suo omicidio, nel 2007, hanno segnato profondamente la storia recente della Turchia, ma soprattutto il dibattito sul genocidio armeno, ovvero la deportazione e l’eliminazione negli anni 1915-1916 di parte della popolazione armena, allontanata da Cilicia e Anatolia e dispersa nel deserto della Siria, tramite le cosiddette “marce della morte”. Erano gli anni del tramonto del plurisecolare Impero ottomano e Istanbul temeva l’alleanza dei circa due milioni di sudditi armeni (cristiani) con gli slavi ortodossi fedeli alla Russia: al governo, i Giovani Turchi del Comitato di unione e progresso gettavano benzina sul fuoco del nazionalismo, puntando su una politica che alle tradizionali pratiche ottomane di ingegneria demografica intrecciava pulizia etnica e massacri. Il 24 aprile 1915 dal ministero dell’Interno turco partì l’ordine di arrestare i primi notabili e intellettuali armeni con l’accusa di alto tradimento. E da lì non si fermò. Le vittime totali si avvicinano ai due milioni secondo gli Armeni, ma diventano 500mila nella versione turca. In generale si tratta comunque della scomparsa di un intero popolo dal territorio anatolico, che ha lasciato numerosi indizi memoriali, tracce, ed echi della tradizione perduta.
Il dibattito vivo ancora oggi si basa sul riconoscimento di questo evento, considerato a livello ufficiale dall’Armenia (e da 26 Paesi nel mondo) un genocidio, ma negato con forza dalla Turchia. Ciò che avvelena ancora oggi le relazioni tra i due Paesi sono infatti l’ambiguo silenzio, la minimizzazione o l’esplicito negazionismo che nella Repubblica Turca circonda ogni menzione della tragedia. E che Hrant Dink non ha mai smesso di condannare.
Nato a Malatya il 15 settembre 1954, la sua famiglia si trasferisce a Istanbul quando lui ha cinque anni. Dopo la separazione dei genitori, viene trasferito insieme ai fratelli nell’orfanotrofio della scuola armena della Chiesa protestante Gedikpasa. Una condizione che influisce profondamente sul suo futuro. “Dink –scrive Gibbons sul Guardian nel 2007- ha trascorso la sua vita cercando di creare una nuova famiglia che potesse ospitare gente come lui e come tutti gli altri milioni di persone che non rientrano nelle categorie ufficialmente prestabilite di ciò che significa essere un turco”.
Hrant Dink non ha mai smesso di condannare l’ambiguo silenzio o l’esplicito negazionismo che circondano in Turchia ogni menzione della tragedia.
Dopo gli studi in zoologia e filosofia, inizia a scrivere recensioni di libri sulla storia armena per il quotidiano Marmara, sotto lo pseudonimo di Chootag (violino) ma ben presto realizza che se desidera davvero costruire un ponte tra etnia turca e minoranza armena ha bisogno di far sentire la propria voce. Il 5 aprile 1996, quindi, partecipa alla fondazione di Agos, il primo giornale settimanale pubblicato ad İstanbul sia in turco che in armeno e ne diventa direttore. La parola agos, usata in entrambe le lingue, indica il luogo dove l’aratro apre un buco nel terreno per piantare il seme. Lo scopo principale del quotidiano è infatti quello di dare voce ai problemi degli armeni-turchi a livello nazionale e di condividere la cultura e la storia armena, ma allo stesso tempo sottolineare le debolezze della stessa comunità, per scongiurare l’autoisolamento. Motivo per il quale il giornale sceglie la pubblicazione in doppia lingua: le pagine in armeno vogliono simboleggiare il rifiuto di una piena assimilazione ai turchi e quelle in turco rappresentano il desiderio di integrazione della comunità armena.
Sulle pagine di Agos Hrant Dink scrive spesso della necessità di rapporti di buon vicinato tra Turchia e Armenia, ma soprattutto si espone sul genocidio come nessun giornalista aveva mai fatto, creando le prime preoccupazioni nel governo turco. Ciò che i nazionalisti iniziano a considerare come insulto all’identità turca è in realtà per Dink un atto in difesa del proprio Paese, un tentativo di miglioramento di uno Stato che dovrebbe restare al passo con i tempi.
Dink infatti parla di convivenza, di cooperazione, ma il suo pensiero non trova molti sostenitori nell’opinione pubblica turca e il giornalista si ritrova al centro di numerose accuse. Tutto inizia nel 2002, quando viene denunciato per un discorso tenuto durante un conferenza a Urfa, circa l’identità e la cittadinanza. La frase “non sono turco, ma armeno di Turchia”, viene interpretata come insulto all’identità turca e Dink viene incriminato. Da quel momento parte una lunga serie di inchieste e processi e i media iniziano a estrapolare frasi o commenti dai suoi saggi sulla questione armena, in modo da renderle vere e proprie accuse. Ai processi si sommano poi le minacce, le intimidazioni, le manifestazioni di protesta e infine, il 7 ottobre del 2005, la condanna a sei mesi di carcere per il reato di insulto all’identità turca.
Dink sconta la pena, ma le minacce di morte diventano sempre più pressanti. Il giornalista, senza una scorta a proteggerlo, non smette comunque di lavorare. “Proprio come una colomba. – scrive nel suo ultimo articolo — Come lei ho gli occhi puntati su di me, alla mia destra, alla mia sinistra, davanti a me, dietro di me. La mia testa è agitata come la sua… E rapida al punto da girarsi in un attimo».
Poche ore dopo la stesura di queste parole, il 19 gennaio 2007, tre colpi di pistola sparati alla testa, di spalle, lo uccidono per strada a Istanbul, nel quartiere centrale di Sisli, fra l’ingresso della sua redazione e il negozio di un ottico. L’omicidio sconvolge l’intero Paese. Il premier Erdoğan inizialmente condanna l’atto violento parlando di “una pallottola sparata contro la libertà di pensiero e la vita democratica in Turchia”, ma poi non si presenta al funerale con la scusa di impegni istituzionali.
Il 19 gennaio 2007, tre colpi di pistola sparati alla testa, di spalle, uccidono Dink per strada a Istanbul. Erdoğan inizialmente condanna l’atto violento, ma poi non si presenta al funerale.
Nei giorni successivi vengono arrestati una serie di giovani che lasciano intendere la presenza di mandanti ultranazionalisti. La famiglia del giornalista, soprattutto la moglie Rakel, accusa più volte lo Stato di proteggere funzionari sospetti, negando o non considerando prove valide durante il processo. La verità è però che, oltre alle responsabilità reali, vere o presunte, e ai possibili mandanti, dietro la morte di Hrant Dink esiste un responsabile molto più oscuro. Scrive il premio Nobel Orhan Pamuk, grande amico di Dink, in un articolo del giornale turco Hurriyet Daily News : “Siamo tutti responsabili per questa morte. La maggiore responsabilità è però di coloro che ancora difendono l’articolo 301 del codice penale turco. Coloro che hanno intrapreso una campagna contro di lui, quelli che hanno considerato questo nostro fratello come un nemico della Turchia, coloro che lo hanno dipinto come un bersaglio”.
Il discusso articolo 301 del Codice penale turco punisce infatti chi denigra pubblicamente la turchicità, ovvero la Repubblica, il Governo, le istituzioni giudiziarie, le organizzazioni militari, e in generale considera un crimine qualsiasi espressione di pensiero atta a criticare l’identità turca. Un articolo, entrato in vigore nel 2005, che negli anni è diventato la principale barriera contro la libertà di espressione e di pensiero.
Denigrare la turchicità è un concetto ambiguo e pericoloso, eredità dell’ortodossia kemalista, che diventa quasi un’ossessione dopo la formazione della Repubblica. Strettamente connessi all’articolo 301 sono infatti i cosiddetti quattro tabù della Turchia, ovvero quei temi che lo Stato preferisce non affrontare. Si tratta della questione curda, del ruolo dei militari, della figura di Atatürk e ovviamente il più spinoso: il dibattito sulla questione armena. In particolare lo Stato non si limita a negare il genocidio, ma fa un passo ulteriore: proibisce a chiunque di parlarne. Lo dimostrano le numerose storie di intellettuali e uomini di cultura processati e imprigionati con l’accusa di insulti all’identità turca, molti dei quali puniti per aver toccato proprio il tema del genocidio armeno.
Il caso con il maggiore impatto internazionale è certamente il processo intentato proprio contro lo scrittore Orhan Pamuk nel 2005, un anno prima del suo Nobel per la letteratura. Gli attriti tra Pamuk e il governo turco in realtà iniziano molti anni prima. Già nei suoi primi scritti e nelle interviste lo scrittore dichiara infatti di considerarsi amante di Istanbul e della Turchia, ma molto distante dalla mentalità chiusa e guardinga nei confronti degli stranieri. Nel 1990 firma una petizione internazionale che esorta il governo turco a fornire ai membri della minoranza curda garanzie costituzionali dei loro diritti; nel 1999 poi rinuncia al riconoscimento di “artista di Stato”, in quanto non disposto ad accettare le cosiddette regole del gioco e rinunciare alla possibilità di scrivere liberamente le proprie opinioni. E infine nel 2002, con l’uscita di Neve, si concentra sui conflitti interiori dei turchi del suo tempo, sulle contraddizioni tra Islam e modernità, parlando del desiderio del suo popolo di essere parte dell’Europa ma, allo stesso tempo, la paura di essa.
I cosiddetti quattro tabù della Turchia sono quei temi che lo Stato preferisce non affrontare: la questione curda, il ruolo dei militari, la figura di Atatürk e la questione armena. Lo Stato non si limita a negare il genocidio: proibisce a chiunque di parlarne.
Queste esternazioni sono in realtà solamente il prologo di ciò che porterà Pamuk ad affrontare un lungo processo per violazione dell’articolo 301. Il 5 febbraio del 2005, infatti, la rivista svizzera Das Magazin pubblica un’intervista all’autore turco in occasione della pubblicazione di Neve. Nell’intervista Pamuk si lancia in una lunga invettiva nei confronti dei nazionalisti, che definisce timorosi che un turco, uno di loro, possa raccontare la verità sul Paese a degli estranei, per di più occidentali. Nel corso dell’intervista lo scrittore afferma che i turchi infatti “hanno ucciso 30mila curdi e un milione di armeni. E quasi nessuno osa parlare di questo. Io lo faccio. E per questo mi odiano”. Il giorno dopo il nome di Pamuk è su tutti i giornali turchi accanto alla parola traditore.
La notizia del processo scatena da una parte le reazioni indignate di molti scrittori, da Gabriel Garcia Marquèz a Umberto Eco, dall’altra quelle esultanti dell’opinione pubblica turca per la quale Pamuk è ormai un nemico. E le manifestazioni e le proteste per le strade di Istanbul lo confermano. Alla sua uscita dal tribunale, alcuni giovani lanciano uova e intonano cori di insulto urlando: “Questa è la Turchia, o la ami o la lasci”. In pochi giorni Pamuk diventa “spia dell’occidente”, “intellettuale imperialista”, i suoi libri vengono bruciati durante una manifestazione e la sua foto viene fatta a pezzi durante un raduno. Hürriyet, il più grande giornale della Turchia, lo definisce una “creatura abietta”. Il 22 gennaio 2006 però, un po’ a sorpresa e tra numerose polemiche, tutte le accuse vengono ritirate a seguito delle insistenti pressioni internazionali. L’annullamento del processo in realtà non fa che alimentare l’odio dei cittadini turchi nei confronti dello scrittore, costretto ancora oggi a vivere lontano dalla sua amata Istanbul.
Ma la vicenda di Pamuk non è isolata. Elif Şafak è una scrittrice coraggiosa e profondamente legata alla sua patria. Nei suoi romanzi spiccano temi forti come il femminismo, la xenofobia e l’individualismo, temi che in pochissimo tempo la pongono sotto la lente d‘ingrandimento del governo turco. Ma il motivo che la porta ad affrontare un vero e proprio processo nel 2006 è ancora una volta la questione armena e in particolare il tabù del genocidio.
Nel 2006 esce infatti il secondo romanzo della scrittrice, La bastarda di Istanbul, il libro più venduto in Turchia quell’anno. Un romanzo che suscita polemiche soprattutto per una dichiarazione fatta da un personaggio, l’armeno Dikran Stamboulian, che, parlando della nipotina Armanoush, immagina cosa potrebbe dire la bambina dopo che la madre ha iniziato a frequentare un turco di nome Mustafa: “Io sono la nipote di sopravvissuti al genocidio che hanno perso tutti i loro parenti per mano dei macellai turchi nel 1915, ma mi è stato fatto il lavaggio del cervello per negare il genocidio perché sono stata allevata da un turco di nome Mustafa!”. Una frase che ammette quindi il genocidio e viene considerata “attacco all’identità turca”.
Accanto a Pamuk e Şafak esiste una lunga lista di giornalisti, intellettuali e uomini di cultura perseguitati dalle istituzioni per aver affrontato il tema del genocidio armeno.
Quando il processo si apre, Şafak è al settimo mese di gravidanza e in Turchia le cause contro i giornalisti accusati di lesioni all’identità turca aumentano a dismisura. Nel frattempo alla scrittrice vengono recapitate lettere minatorie che la appellano come “pedina dei nemici della Turchia”. Il processo questa volta però ha vita breve: il 22 settembre 2006 il giudice della Corte Penale fa cadere tutte le accuse. Sono mesi cruciali per la Turchia che tenta di entrare in Europa, e gli osservatori internazionali valutano la chiusura del processo contro la scrittrice come una prova di buona volontà del Paese di riformare il sistema legale per soddisfare gli standard dell’Unione Europea sui diritti fondamentali. Una prova che però non sarà sufficiente.
Accanto a Pamuk e Şafak, più conosciuti a livello internazionale, esiste una lunga lista di altri giornalisti, intellettuali e uomini di cultura perseguitati dalle istituzioni ufficiali per aver affrontato il tema del genocidio armeno. La questione continua infatti a rappresentare un nodo irrisolto per la Turchia e, nonostante i piccoli passi in avanti compiuti negli ultimi anni, i rapporti con Erevan sono ancora tesi e lontani dall’essere pacificati. Ad oggi sono 26 i Paesi che riconoscono il genocidio, con Germania e Stati Uniti che si sono aggiunti alla lista soltanto negli ultimi cinque anni.
Il 12 aprile 2015 Papa Francesco si è esposto, dichiarando che quello armeno “viene definito come il primo genocidio del XX secolo”, provocando l’immediata reazione di Erdogan che due giorni dopo ha ammonito il Pontefice affermando che “quando i politici e i religiosi si fanno carico del lavoro degli storici non dicono delle verità, ma delle stupidaggini”. Le principali vittime di questo nodo irrisolto sono proprio la libertà di pensiero e di opinione e tutti quegli intellettuali colpiti che paradossalmente hanno sempre messo al primo posto gli interessi della Turchia, un Paese che amano e che li ha condannati. Questa duplicità ha sempre spiazzato gli uomini di cultura, che da anni temono per il futuro di una Turchia oggi ormai sempre meno democratica e più autoritaria. Lo conferma un articolo scritto ormai 10 anni fa dallo stesso Orhan Pamuk:
Nella mia infanzia la bandiera era il simbolo della nazione. In seguito comprendemmo che era, piuttosto, il simbolo del nazionalismo. Adesso invece essa sembra significare qualcosa di molto più indistinto e molto più singolare del nazionalismo. Se non comprenderemo al più presto cosa sia esattamente questo qualcosa e non ne definiremo le regole, a causa della bandiera scorrerà ancora molto sangue.
La speranza è che quello versato da Hrant Dink non venga dimenticato.