N el libro La colpa di non avere un tetto (Eris 2021), la sociologa Daniela Leonardi denuncia il fatto che il discorso pubblico non parli mai “di homelessness come di un fenomeno sociale”, ma solo del “problema dei senzatetto”, come se la loro esperienza fosse di tipo esclusivamente individuale e dipendesse dalla sfortuna, da un fallimento nelle proprie traiettorie di vita, o da una colpa. Secondo l’autrice, la questione di una definizione più precisa del fenomeno sociale della homelessness sarebbe invece di primaria importanza per l’implementazione di politiche che siano concretamente in grado di condurre le persone coinvolte in questo fenomeno fuori da questa condizione. “In questi anni”, scrive Leonardi, “abbiamo assistito a una depoliticizzazione della questione homelessness, che da problema politico viene derubricata a un qualcosa che semplicemente accade o può accadere nel percorso di vita. Sembra che a un certo punto semplicemente le persone finiscano per strada, perlopiù a causa di loro comportamenti sbagliati”.
Leonardi sottolinea il fatto che la riduzione del fenomeno sociale della homelessness a un’esperienza individuale sfortunata, o addirittura a una colpa, serva a molti scopi politici: a disciplinare i gruppi sociali minoritari; a inasprire le leggi anti-immigratorie; a usare l’architettura come dispositivo di esclusione ed espulsione di alcune categorie di persone ritenute “indecorose” perché usano lo spazio pubblico in modi che differiscono dalla norma – per dormire, per ricavare un reddito, per manifestare pubblicamente la propria dissidenza. In altre parole, serve a condurre una “guerra contro i poveri”, anziché una guerra alla povertà. E condurre una guerra contro i poveri – anziché contro la povertà – implica l’occultamento di quelle che Leonardi definisce “cause strutturali” del fenomeno sociale della homelessness, e di conseguenza il disimpegno pubblico nei riguardi della loro sovversione.
La deregolamentazione del mercato abitativo, la speculazione edilizia, l’assenza di politiche della casa, le discriminazioni rispetto alla residenza sono solo alcune delle cause annoverate da Leonardi nel suo libro. Fra le cause strutturali, tuttavia, l’autrice include anche le “diseguaglianze sociali”. Significa forse che la diseguaglianza non è solo ciò che segna l’esperienza di chi ha già perso una casa, ma è anche ciò che può esporre alcuni gruppi di persone a un più alto rischio di perderla, rispetto ad altri? Cosa potrebbe comportare per l’analisi del fenomeno sociale della homelessness annoverare più esplicitamente, fra le sue cause strutturali, anche le diseguaglianze di genere e sessuali?
Una ricerca condotta nel 2015 dall’Albert Kennedy Trust in Gran Bretagna dimostra ad esempio che le persone Lgbtq+ tra i quindici e i venticinque anni costituiscono circa il 25% della popolazione senzatetto del paese. Una ricerca condotta nel 2017 dalla Federación Estatal de Lesbianas, Gays, Transexuales y Bisexuales e dalla RAIS Fundación, dimostra che il dato, in Spagna, ammonta al 35%. Alcune indagini condotte negli Stati Uniti tra il 2011 e il 2017 concordano nel ritenere che le persone Lgbtq+ tra i quindici e i venticinque anni hanno circa il doppio delle possibilità, rispetto ai coetanei eterosessuali e cisgenere, di essere allontanate da casa (throwaway) o di fuggire da situazioni di violenza domestica a causa della propria identità di genere o del proprio orientamento sessuale, senza farvi ritorno (runaway). E il dato si quadruplica nel caso di adolescenti trans.
La diseguaglianza non è solo ciò che segna l’esperienza di chi ha già perso una casa, ma è anche ciò che può esporre alcuni gruppi di persone a un più alto rischio di perderla.
Come rilevano Giuliana Costa e Silvia Magino in un’indagine pubblicata di recente sulla rivista “Autonomie locali e servizi sociali” (Il Mulino, 2, 2021), le ricerche a disposizione sono in generale molto scarse, e il fenomeno è ovunque sottostimato. In linea con questo trend, anche in Italia non esistono dati sufficientemente attendibili, derivanti da indagini specifiche, in grado di illustrare l’entità del fenomeno. Gli unici dati in grado di approssimarlo derivano dall’indagine realizzata nel maggio del 2020 dalla European Agency for Fundamental Rights sulla condizione delle persone Lgbtq+ in Europa, la quale, per la prima volta, ha incluso un campione di circa diecimila persone italiane di età diverse. Pur costituendo un campione insufficiente, e dunque non rappresentativo a fini sociologici (nel senso che le statistiche che si possono stilare da questi dati rischiano di sottostimare il fenomeno), alle domande “hai mai sperimentato difficoltà di carattere abitativo?” e “se sì, quali delle seguenti?”, il 10% ha dichiarato di aver dovuto spesso alloggiare presso parenti o amici, il 3% di aver vissuto in luoghi non idonei all’abitazione, il 3% in sistemazioni temporanee di emergenza e l’1% in strada. Nei casi in cui queste domande siano state rivolte a persone trans, le percentuali salgono al 50%.
Nonostante la loro scarsità, le ricerche a disposizione dimostrano che una volta divenute senzatetto, le persone Lgbtq+ tra i quindici e i venticinque anni si ritrovano a fronteggiare nuove esperienze traumatiche e rischiose con una frequenza nettamente superiore rispetto a quella dei coetanei eterosessuali e cisgenere nella stessa condizione. Si parla di relazioni con le famiglie d’origine che diventano ricattatorie e violente, si parla di dispersione scolastica – con una probabilità duplicata di interrompere prematuramente gli studi – o di maggiori difficoltà a trovare una fonte di reddito. Ma si parla anche di problemi di isolamento sociale e di una sproporzionata esposizione a nuove situazioni di violenza; infine, si parla di tassi sproporzionatamente elevati di disagio psichico e di malattie mentali, accompagnati da atteggiamenti suicidari. E le persone trans più giovani rappresentano il gruppo più vulnerabile di tutti perché sono esposte a maggiori probabilità di esperire tutte queste problematiche proprio per le difficoltà cui vanno incontro nei processi di transizione.
Un’ulteriore implicazione specifica del fenomeno della homelessness tra le minoranze di genere e sessuali è che spesso finisce per essere meno trattabile dalle risposte di welfare esistenti. Per loro, le probabilità di accedere ai cosiddetti servizi di “bassa soglia” (cioè i dormitori pubblici) sono enormemente più basse, per almeno due motivi: il primo concerne le forme di stigmatizzazione ed esclusione che le persone Lgbtq+ ricevono dai servizi stessi; il secondo riguarda invece il rifiuto di rivolgersi alle strutture esistenti, da parte delle stesse persone Lgbtq+, per sfiducia nei riguardi degli operatori sociali e per la paura di subire nuove discriminazioni, nuove molestie, nuove violenze e dunque nuovi traumi rispetto a quelli già vissuti. Questa combinazione fatale finisce per far sì che le minoranze di genere e sessuali senza dimora facciano più fatica dei loro pari eterosessuali a uscire dalla strada o da contesti abitativi precari o d’emergenza.
Anche in questo caso, le persone trans sono tendenzialmente più vulnerabili, in quanto maggiormente esposte a vessazioni e forme di violenza. Come già rilevava una ricerca condotta in Italia nel 2011, commissionata dall’Unar – Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Ministero per le Pari Opportunità), l’identità di genere può giocare un ruolo di primo piano nell’accesso al mercato abitativo. A distanza di un decennio, il dato appare confermato dall’indagine dell’European Agency for Fundamental Rights del 2020, secondo la quale molti proprietari di case si rifiutano di affittarle alle persone trans per via del timore della reazione dei vicini che assimilano l’esperienza trans all’esperienza della prostituzione – reazione alla quale raramente vanno incontro le persone eterosessuali e cisgenere, anche nei casi in cui effettivamente si prostituiscano lavorando a casa. Chiaramente, il dato consente di osservare quanto sia ancora radicato questo pregiudizio – e consente anche di contrastarlo. Al contempo, il dato consente di non occultare la vulnerabilità e la ricattabilità di quelle persone trans che effettivamente si prostituiscono, per le quali la prostituzione costituisce l’unica fonte di reddito e che lavorano a casa: e ciò perché dalle interviste alle persone trans che lo hanno dichiarato, riportate nell’indagine del 2011, è emerso che per un numero consistente di loro la possibilità di avere un tetto sulla testa fosse legata a doppio nodo al ricatto di cedere una percentuale del proprio reddito al locatore, in aggiunta ai soldi dell’affitto. In questa, come in molte altre forme di accesso a beni e servizi fondamentali – quale è l’accesso a una casa –, le persone trans pagano dunque il prezzo della non conformità alle norme culturali che stabiliscono come si deve esprimere il genere per essere degno di credibilità, di supporto, di reddito e, appunto, di una casa.
Le minoranze di genere e sessuali senza dimora fanno più fatica dei loro pari eterosessuali a uscire dalla strada o da contesti abitativi precari o d’emergenza.
Nel caso in cui un* adolescente o una persona trans, gay, lesbica, bisessuale, non binary… queer subisca l’allontanamento da casa a causa della propria identità di genere o del proprio orientamento sessuale, o nei casi in cui questa persona fugga dalla violenza domestica senza farvi più ritorno, entra a far parte del gruppo sociale degli homeless – dunque nel gruppo sociale dei poveri, degli indigenti –, quale che fosse l’estrazione sociale ed economica di partenza. A meno che non decida di adeguarsi ai termini dominanti della riconoscibilità di genere e sessuale, capitolando così al ricatto, quella persona verserà in uno stato di deprivazione radicale e si troverà al margine, in quella condizione in cui il senso stesso di vivibilità di una vita è messo radicalmente in discussione.
Sulla scia della più longeva esperienza delle case protette per le donne vittime di violenza da parte degli uomini, negli ultimi anni – e specialmente nell’ultimo anno, segnato dalla pandemia e dall’obbligo di “restare a casa” – si è assistito a una moltiplicazione di rifugi per persone Lgbtq+ che a causa del proprio genere o della propria sessualità sono divenute senzatetto. Per limitarci alle esperienze italiane: Casa Arcobaleno a Milano, Refuge Lgbt a Roma, Questa casa non è un albergo a Napoli, ToHousing a Torino e, da ultimo, Casa Marcella in Toscana – dedicata alla memoria dell’attivista trans Marcella Di Folco. Si tratta di esperienze preziose, che tentano di colmare l’improvvisa perdita di sostegno a cui può andare incontro chi si ritrova da un momento all’altro in mezzo alla strada, e che offrono immediato riparo, cibo, soldi, socialità, assistenza medica, psicologica e legale. Eppure, cosa stanno a indicare, esperienze come queste, se non che la vulnerabilità di adolescenti e persone Lgbtq+ alla possibilità di ritrovarsi senzatetto, alla pari di quella delle donne, è strutturale?
Quando si parla dell’oppressione, della diseguaglianza e della violenza di genere e sessuale non si pensa mai all’oppressione, alla diseguaglianza e alla violenza materiale ed economica, ma le si tratta come due cose distinte. Si pensa di solito a fenomeni come l’insulto, l’umiliazione, la discriminazione, la violenza – sia essa morale, psicologica, fisica o sessuale. Non si pensa però adeguatamente al fatto che la violenza non è solo deplorevole di per sé, ma produce specifici effetti materiali che a loro volta espongono a nuova violenza e a nuova marginalità. Nell’immaginario collettivo, l’oppressione, la diseguaglianza e la violenza di genere e sessuale hanno finito per coincidere interamente con problemi culturali radicalmente indipendenti dal modo in cui è strutturata materialmente ed economicamente la società, vale a dire dalla distribuzione diseguale delle risorse, materiali e immateriali.
Ricollegare questi due aspetti vuol dire invece sottolineare che la subalternità materiale ed economica non è mai un fenomeno da ricondurre alla sfortuna o al caso, né ai meriti o alle colpe individuali – nonostante le retoriche volte a giustificarla e a normalizzarla dicano proprio questo. La subalternità economica e materiale, piuttosto, è il prodotto di una specifica organizzazione sociale delle relazioni tra le persone, dei rapporti di forza che le innervano, nonché del modo in cui, in seno a questa specifica organizzazione sociale e relazionale, si diventa soggetti – soggetti più privilegiati di altri in un caso, o soggetti più abietti e sacrificabili di altri, nell’altro.
Nell’immaginario collettivo la diseguaglianza e la violenza di genere e sessuale hanno finito per coincidere interamente con problemi culturali indipendenti dal modo in cui è strutturata materialmente ed economicamente la società, vale a dire dalla distribuzione diseguale delle risorse.
Come ho avuto modo di illustrare più diffusamente altrove, la mia idea è che una teoria e una politica queer materialiste dovrebbero assumere come prioritaria la denaturalizzazione della subalternità economica e materiale esperita dalle minoranze di genere e sessuali. Ciò non significa sostenere che una teoria e una politica queer dovrebbero occuparsi anche delle questioni economiche e materiali, come se si trattasse di qualcosa di estraneo o di secondario rispetto all’oppressione di genere e sessuale. Al contrario, significa auspicare una teoria e una politica queer che non concepiscano come accidentale la subalternità materiale ed economica delle minoranze di genere e sessuali, bensì come determinata direttamente dalla posizione oppressa che già occupano nel sistema sociale eterosessuale. Se si può diventare senzatetto proprio perché si occupa una posizione minoritaria o abietta dal punto di vista del genere e della sessualità, significa che ciò che genericamente si definisce “povertà” deve essere ripensato anche alla luce di questo.
Eppure, gli ordini discorsivi dominanti – che Daniela Leonardi, nel suo libro, analizza e decostruisce minuziosamente – tendono solitamente a occultare che il fenomeno della homelessness possa intrattenere legami molto stretti con l’oppressione di genere, sessuale, o razziale o di altri tipi. I “senzatetto”, per le retoriche dominanti, sono “uomini di mezz’età con problemi di dipendenza, basso livello di scolarizzazione, rapporti familiari e amicali deboli o assenti, problemi psichiatrici”. Ma questo, secondo Leonardi, accade perché nelle fonti ufficiali il numero delle donne che si trovano sprovviste di abitazione è a dir poco sottostimato: nella sua analisi, le donne si rivolgono infatti nettamente di meno, rispetto agli uomini, ai servizi di “bassa soglia” e si orientano assai di rado per la soluzione di dimorare per strada, dal momento che entrambe queste soluzioni le esporrebbero a ulteriori rischi – innanzitutto, al rischio della violenza sessuale. Ciò significa dunque che le donne si trovano più spesso degli uomini a dormire in situazioni insicure, esposte a meccanismi relazionali di ricatto e a ulteriore violenza, e tuttavia non vengono conteggiate nei dati ufficiali, anche nei casi in cui siano a tutti gli effetti sprovviste di una sistemazione sicura.
L’invisibilizzazione della homelessness delle donne – alla pari di quella delle altre minoranze di genere e sessuali – dipende dunque essa stessa dalla diseguaglianza e dall’oppressione di genere e sessuale, e a sua volta la alimenta e riproduce, dal momento che impedisce di indagare – e di sovvertire – la specificità dei motivi per i quali una donna potrebbe da un momento all’altro trovarsi senza un tetto sulla testa. In alcuni casi, questi motivi possono forse somigliare a quelli di un uomo nella stessa condizione; assai più spesso, però, tendono a divergere radicalmente. È infatti poco probabile che un uomo bianco di mezz’età si ritrovi in mezzo alla strada in fuga dalla violenza domestica esercitata sistematicamente, nei suoi riguardi, da una donna, o ne resti brutalmente vittima, mentre il contrario è a dir poco frequente. Così come poco probabile è che un adolescente eterosessuale e cisgenere fugga dalla violenza domestica esercitata nei suoi riguardi da una famiglia queer, mentre il contrario si verifica sistematicamente. Lo testimonia il fatto che l’esperienza stessa della “casa protetta” nasce storicamente in risposta alla sistematicità della violenza etero-patriarcale nei riguardi delle donne, e tuttora persiste in tal senso anche nei riguardi delle persone Lgbtq+, rivelando la matrice comune dell’oppressione, della diseguaglianza e della violenza esperita dalle donne e dalle minoranze di genere e sessuali – e invocando la necessità di una lotta altrettanto comune, volta a sovvertire proprio la sistematicità di quell’oppressione, di quella diseguaglianza e di quella violenza.
Quanto queste esperienze ci impongono di rivedere il modo in cui concepiamo la “povertà”? E quanto questo modo di concepire la povertà ci impone di ampliare la nostra concezione di ciò che occorre sovvertire per eliminarla? Ammesso che si vogliano ritenere valide queste suggestioni, infatti, si potrebbe facilmente obiettare: che differenza c’è se la subalternità economica è dettata dalla razza, dall’abilità psicofisica, dal genere o dalla sessualità? La povertà è sempre povertà: quali che possano essere le sue cause, i suoi effetti sono sempre gli stessi – e ciò potrebbe essere vero.
Le donne si trovano più spesso degli uomini a dormire in situazioni insicure, esposte a meccanismi relazionali di ricatto e a ulteriore violenza, e tuttavia non vengono conteggiate nei dati ufficiali perché dimorare per strada le esporrebbe a ulteriori rischi.
Ciò che questa obiezione sottovaluta, tuttavia, è che dal momento che la subalternità economica e materiale non è un fenomeno naturale né da imputare a colpe individuali, diventa cruciale denaturalizzare non solo le matrici culturali che presiedono a queste relazioni sociali, ma anche, o forse soprattutto, gli stessi “fenomeni sociali che esprimono la nostra oppressione”, perché è proprio la loro naturalizzazione, come scriveva Monique Wittig, “a rendere impossibile qualunque forma di cambiamento”. Tra questi fenomeni non ci sono forse la povertà, o il fatto di non avere una casa in cui vivere? Le minoranze di genere e sessuali non sono certo l’unica fascia di popolazione a essere esposta a questi fenomeni; e non si tratta nemmeno, qui, di stabilire se quella esperita da loro sia più grave o inaccettabile di quella esperita da altri gruppi sociali.
Semmai, si tratta di sottolineare che l’analisi di questi fenomeni, esperiti in quanto minoranze di genere e sessuali, è la precondizione per una trasformazione sociale delle strutture economiche che non rischi di liberarci da un certo numero di oppressioni materiali mantenendo tuttavia inalterate le dinamiche culturali e sociali che le producono e le ripartiscono in modo differenziale. Se concordiamo attorno al fatto che la povertà, proprio perché non è un fenomeno naturale né da imputare a una colpa, è sovvertibile, diventa cruciale nominare sia i fattori culturali che la determinano, sia le forme sociali attraverso le quali diventa intelligibile, proprio per sovvertirla. Quei fattori culturali, infatti, costituiscono il fenomeno stesso, sono i suoi prerequisiti e i suoi ingranaggi, e dunque concorrono non solo a una sua critica più avveduta, ma costituiscono anche ciò che deve essere sovvertito affinché una sovversione del fenomeno “generico” della povertà possa essere non solo più mirata ed effettiva, ma innanzitutto desiderabile. La sovversione delle matrici culturali che confluiscono nella determinazione delle forme sociali che la povertà assume è il prerequisito per la sua sovversione, e per l’instaurazione di un ordine sociale fondato sull’eguaglianza radicale delle condizioni materiali di vita, e sulla giustizia.
“La casa e la povertà”, scrive d’altronde Daniela Leonardi, “sono fortemente correlate. Come in una fotografia, sono aspetti da mettere a fuoco anziché lasciare che risultino sullo sfondo, o peggio ancora lasciare che siano fuori dall’obiettivo”. E aggiunge ancora: Le persone senza dimora non sono altro da ‘noi’; prendono forma in relazione a noi. Sono prodotte in relazione alle diseguaglianze e all’assenza di regolamentazione del mercato abitativo privato, nelle politiche discriminatorie rispetto alla residenza, e non sono invisibili, ma sono rese invisibili: aver contezza di questo significa parlarne diversamente, aprire spazi che facilitino e garantiscano possibilità di presa di parola, possibilità di agire diversamente. Contrastare la
homelessness vuol dire intervenire per ridurre le diseguaglianze. Contrastare la homelessness vuol dire dar spazio di parola alle persone che fanno l’esperienza di trovarsi senza casa. Contrastare la homelessness vuol dire parlare di politiche per l’abitare. Strumenti di contrasto alla homelessness sono gli sportelli di resistenza agli sfratti, le occupazioni di edifici abbandonati e autorecuperati, perlopiù attuate da realtà autorganizzate al fine di rivendicare pubblicamente condizioni di vita migliori per tutt* – un ripensamento radicale delle società in cui viviamo.
Parole come queste possono costituire un valido sostegno per una teoria e una politica queer che non alimenti la scissione gerarchica tra le oppressioni culturali e le oppressioni materiali, riducendo l’oppressione, la diseguaglianza e la violenza di genere e sessuale a qualcosa di emendabile per mezzo di leggi genericamente antidiscriminatorie – ma che, al contrario, denunci gli effetti materiali della violenza etica e culturale, al fine di sovvertire le diverse e molteplici matrici culturali alla base delle oppressioni, delle diseguaglianze e delle violenze economiche.