I stanbul, ultime ore del 2016. Abdullah Can Saraç attraversa una città blindata. Le autorità temono attentati nella notte di capodanno e hanno disseminato per le strade più di 17.000 poliziotti. Saraç si dirige verso il quartiere di Ortaköy, in pieno centro. Prima di raggiungere il club Reina, dove è stato chiamato come dj, passa attraverso tre checkpoint. Anche il locale ha un suo servizio di sicurezza privato, 50 uomini nessuno dei quali armato. Saraç si prepara dietro la consolle. Un’ora e mezza dopo aver salutato l’arrivo del 2017 scappa dal Reina insieme ad altre centinaia di persone, mentre all’interno un uomo armato di kalashnikov spara, indisturbato, per otto minuti. L’imponente dispositivo di sicurezza che doveva proteggere la città mostra tutti i suoi limiti. L’attentato farà 39 morti e decine di feriti. L’autore, l’uzbeko Abdulkadir Masharipov, si dilegua. Verrà catturato solo due settimane più tardi, sempre a Istanbul.
Fin dai primi mesi del 2015, la Turchia è stata colpita da una lunga e ininterrotta sequenza di attentati. Il percorso sempre più autoritario intrapreso dal presidente Erdoğan ha riportato in vita sigle della sinistra marxista-leninista che sembravano quasi scomparse. È ripreso il conflitto con il Pkk, l’organizzazione indipendentista curda che porta avanti con Ankara una guerriglia fin dagli anni ’80, facendo naufragare il fragilissimo processo di pace che era in corso. Sono tornate in auge altre formazioni della galassia curda, capaci di compiere attentati nelle principali città turche e non solo nel sud-est anatolico. Anche l’Isis ha mandato i suoi kamikaze dalla Siria. I miliziani dello Stato Islamico hanno colpito più volte in Turchia, benché nessuna di queste stragi sia mai stata rivendicata ufficialmente. Nella lista c’è anche quella di Ankara del 10 ottobre 2015, il più grave attentato avvenuto nella Turchia moderna, che ha spezzato 103 vite e ferito più di 500 persone.
Se ci si ferma alla cronaca spicciola, questa ingarbugliata catena di eventi sembra rientrare nella “nuova normalità” della Turchia, così che l’attentato di capodanno a Istanbul appare come uno dei tanti tasselli, in tutto simile ai precedenti. Ci sono buone ragioni per dubitare di questa lettura dei fatti. Con la strage del Reina, per Ankara si chiude un capitolo doloroso e si apre una stagione nuova e temibile. Una stagione in cui la Turchia è chiamata a pagare l’ambiguità dei suoi rapporti con l’Isis.
I miliziani dello Stato Islamico hanno colpito più volte in Turchia, ma nessuna di queste stragi era stata rivendicata ufficialmente. Con l’attacco al Reina, si apre una stagione nuova e temibile.
Diversi indizi fanno presagire questo cambiamento. Il primo segnale è la novità assoluta della rivendicazione. In tutti i precedenti attentati compiuti in Turchia, i media collegati allo Stato Islamico hanno sempre taciuto. Un comportamento che stride con la necessità, per un’organizzazione terroristica che ha fatto della propaganda e del reclutamento il suo marchio distintivo, di testimoniare la propria forza in ogni occasione disponibile. Cosa che, infatti, l’Isis non manca di fare in qualsiasi altro paese dove porta a termine attentati, dalla Francia al Bangladesh, dal Belgio all’Egitto, oltre ovviamente a Siria e Iraq.
La ragione è semplice: si tratta di una tattica per raggiungere l’obiettivo desiderato. Qualsiasi atto di terrorismo ha lo scopo di destabilizzare lo Stato in cui avviene o il gruppo preso a bersaglio. Rivendicare un attentato, quindi, significa dimostrare che si è più forti dell’avversario e metterci la firma. Nel caso della Turchia, invece, questo meccanismo finora funzionava solo se invertito. In questi anni l’Isis ha sempre colpito una categoria ben precisa di obiettivi: raduni e manifestazioni legate al mondo curdo. Non la Turchia in quanto tale, non i simboli del potere, ma gruppi e organizzazioni che Ankara riconosce come avversari e accosta, senza mezze misure, ai guerriglieri del Pkk.
L’assenza di rivendicazione ha permesso di ipotizzare che la mano dietro molti degli attentati fosse in realtà quella di Erdoğan, o che il presidente e l’Isis avessero stretto un qualche tipo di accordo, spingendo il Pkk a proseguire lo scontro invece di tentare una de-escalation. Dell’instabilità crescente ha saputo approfittare Erdoğan per riprendere il controllo del paese. Dopo la debâcle elettorale del suo partito, che aveva visto rafforzarsi la formazione filo-curda Hdp, la repressione del Pkk gli ha permesso di allargare la definizione di “terrorista” anche a politici e attivisti a vario titolo simpatizzanti della causa indipendentista. Allo stesso tempo, l’Isis sperava che la Turchia alzasse il tiro fino a colpire i curdi siriani, che per i miliziani di al-Baghdadi rappresentano il nemico più ostico. Tant’è vero che quando, infine, Ankara ha invaso la Siria lo scorso agosto, l’Isis si è sostanzialmente ritirato per decine di chilometri senza opporre resistenza e l’esercito turco ha attaccato anche i curdi siriani.
La strage al Reina esce dagli schemi seguiti finora dall’Isis in Turchia anche per quanto riguarda l’obiettivo. Nel locale, a festeggiare l’anno nuovo, c’erano civili, semplici cittadini tra cui molti stranieri. Proprio come al Bataclan di Parigi, come la folla ai mercatini di Natale di Berlino, come la gente che assiste ai fuochi d’artificio sulla promenade di Nizza. Uno scarto decisivo, anticipato già una settimana prima da un macabro video premonitore diffuso dall’Isis. Nel filmato, due soldati turchi venivano tenuti in una gabbia, vestiti con una tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo, e infine bruciati vivi. Il messaggio è palese: tutto quello che è successo finora non conta più. Colpendo l’esercito turco, l’Isis si dichiara pronto a uno scontro frontale.
Una settimana prima della strage, viene diffuso un video in cui due soldati turchi vengono bruciati vivi in una gabbia. Il messaggio è palese: colpendo l’esercito turco, l’Isis si dichiara pronto a uno scontro frontale.
Perché proprio adesso? La risposta va cercata al di là del confine, in Siria. Più precisamente, è legata alla nuova politica estera di Erdoğan e ai decisivi sviluppi della guerra con la sconfitta dei ribelli ad Aleppo a metà dicembre. Non si sbaglia di molto ad affermare che le carte in tavola sono radicalmente cambiate. La Turchia ha da sempre appoggiato i ribelli e spinto per la destituzione di Assad, ma negli ultimi mesi ha decisamente invertito la rotta. Dopo essersi riappacificata con la Russia, alleata di ferro del regime di Damasco, Ankara è stata fondamentale per raggiungere un accordo su Aleppo proprio con Mosca. Nei giorni successivi, Turchia e Russia hanno promosso nuovi negoziati di pace. Dal punto di vista di Erdoğan, questa svolta è perfettamente logica: persa Aleppo, i ribelli non hanno più alcuna speranza di sconfiggere Assad, dunque la cosa migliore è trasformarsi da loro sponsor a potenziale mediatore, riuscendo a mantenere un ruolo di primo piano. Ma le conseguenze di questa giravolta hanno una ricaduta fondamentale sull’Isis e rompono qualsiasi equilibrio precedente. Senza tutte le potenze della regione indaffarate ad appoggiare l’una o l’altra parte, senza regime e ribelli impegnati a combattere tra loro e a lasciare in secondo piano la lotta allo Stato Islamico, è proprio il sedicente califfato a diventare l’unico bersaglio.
La Turchia, però, potrebbe pagare a lungo lo spregiudicato atteggiamento che Erdoğan ha tenuto con l’Isis fino a pochi mesi fa. Da troppo tempo Ankara ha ignorato i movimenti dello Stato Islamico. Ha permesso per anni ai miliziani di attraversare i suoi confini, spostando armi, denaro, probabilmente trafficando petrolio con qualche intermediario turco. Più che un confine, quello tra Turchia e Siria era una porta d’accesso per i foreign fighters di tutto il mondo, così poroso da essere definito, con un’immagine piuttosto azzeccata, “autostrada del jihad”. E non è tutto qui, visto che l’autostrada la si può percorrere in entrambi i sensi. In nome di comune convenienza, le autorità hanno chiuso gli occhi di fronte al radicamento, sul territorio turco, di cellule dello Stato Islamico ben organizzate e composte da centinaia di persone.
Sono questi network che hanno permesso a Masharipov, l’attentatore del Reina, di muoversi indisturbato, procurarsi le armi necessarie e trovare rifugio a Istanbul dopo l’attacco. Cellule composte in gran parte da cittadini turchi, che la polizia e i servizi segreti non hanno finora tenuto d’occhio rendendo così estremamente difficile prevenire gli attentati e rendendo più lungo e complesso il compito di estirparli del tutto dal paese. Durante l’interrogatorio, Masharipov ha detto agli investigatori che l’ordine di entrare in azione gli è arrivato sotto forma di un messaggio via Telegram spedito da Raqqa, la città siriana che l’Isis usa come base per pianificare gli attacchi all’estero. Altri ordini possono partire con la stessa facilità e trovare destinatari pronti ad agire. Dopo la strage del Reina, il caos siriano rischia di straripare definitivamente in Turchia.
Immagine di copertina: Istanbul, militanti armati di estrema sinistra scortano le bare delle vittime di un attentato suicida.