I l Green New Deal è il piano di riforme per la completa decarbonizzazione dell’economia americana entro il 2030 che la parlamentare Alexandria Ocasio-Cortez e il senatore Ed Markey hanno presentato al Congresso degli Stati Uniti lo scorso 7 febbraio. Il piano, apertamente progressista, ancora embrionale e caliginoso, è stato accolto con favore dai candidati democratici in corsa per le elezioni del 2020, mentre i repubblicani – sordi alle previsioni degli scienziati secondo cui la politica negazionista del Presidente Donald Trump potrebbe determinare nei prossimi dieci anni un aumento medio della temperatura mondiale compreso tra i 2°C e i 4°C – hanno tacciato la misura d’essere un inammissibile “manifesto socialista”.
Le quattordici pagine di risoluzione congressuale firmate Ocasio-Cortez e Markey si appellano a “dieci anni di mobilitazione nazionale” per far sì che gli Stati Uniti assumano “il ruolo guida nella riduzione delle emissioni a livello internazionale attraverso la trasformazione della propria politica economica”. È una proposta urgente e necessaria, visto e considerato che gli Stati Uniti rappresentano ad oggi il maggiore responsabile della crisi climatica in corso: mediamente, un americano nato nel 1960 ha infatti prodotto 1.100 tonnellate di CO₂ nell’arco della sua vita, tre volte quanto emesso da un coetaneo italiano, sei volte da un cinese e ventitré da un indiano.
Storicamente, la formula “Green New Deal” compare per la prima volta in un articolo pubblicato sul New York Times nel 2007 da Thomas Friedman, che ha più volte rivendicato la paternità del concetto. Da allora, la fortunata dicitura ha cominciato a farsi largo tra i movimenti neoambientalisti e le forze progressiste sino alla prima, vera ratifica politica con la risoluzione congressuale di Ocasio-Cortez e Markey, equivalente a una dichiarazione di intenti più che a una proposta di legge.
Per capire davvero quali sono le opportunità e i limiti del Green New Deal è utile guardare a come viene raccontato, a partire dai libri recenti di Jeremy Rifkin e Naomi Klein.
Negli ultimi tempi, Green New Deal è diventato addirittura un termine conteso, equiparato a numerosi falsi amici come l’European Green New Deal da 1.000 miliardi di euro promesso dall’Unione Europea o il recentissimo – e ben più modesto – “Decreto Clima” da 450 milioni di euro del governo italiano. “Per avere un termine di paragone”, scrive Giulio Calella su Jacobin Italia, “Bernie Sanders in occasione della campagna per le primarie, ha fatto sapere di prevedere per il Green New Deal un investimento complessivo di 16.300 miliardi di dollari”.
C’è però chi teme che il Green New Deal possa essere solo un nuovo abito con cui il capitalismo sta ingannevolmente cercando di risolvere le proprie contraddizioni ambientali, candidando così l’eco-capitalismo a diventare la narrazione ecologica dominante per gli anni a venire. Ma per capire davvero quali sono le opportunità e i limiti del Green New Deal è utile guardare a come viene raccontato, a partire da due libri recenti: Un Green New Deal Globale di Jeremy Rifkin (Mondadori) e Il mondo in fiamme di Naomi Klein (Feltrinelli).
Apocalittici ma integrati
“Con questo libro”, scrive Jeremy Rifkin, “farò partecipi i lettori dell’esperienza che ho fatto [prestando] la mia assistenza ai governi per preparare la loro transizione stile Green New Deal verso una terza rivoluzione industriale a zero emissioni di carbonio”.
Un po’ economista e un po’ filosofo, Rifkin si è distinto negli anni per un attivismo cangiante e contraddittorio, araldo di profezie economiche cui è sempre sopravvissuto. Dopo essersi guadagnato la nomea di “uomo più odiato dalla scienza”, soprattutto per la sua accanita battaglia contro le biotecnologie tra gli anni Settanta e Ottanta, ha dato alle stampe una ventina di best-seller futuristici dai titoli altisonanti anche se spesso presto dimenticati: La fine del lavoro (1995), L’era dell’accesso (2000), Il sogno europeo (2004), La civiltà dell’empatia (2009). Poco importa se le sue audaci previsioni si sono rivelate in larga parte sbilenche: il “profeta imperfetto”, come l’ha definito il Post qualche settimana fa, è stato sempre preso dannatamente sul serio dai leader politici di mezzo mondo che, a quanto dichiara lui stesso, hanno letto voracemente i suoi scritti e trovato in lui un fido consulente in materia di politiche energetiche ed economiche.
Con il suo ultimo libro, Rifkin concentra l’attenzione sul piano avanzato da Ocasio-Cortez e Markey ma alza tuttavia la posta in gioco, invocando un Green New Deal globale che promani dagli Stati Uniti al resto del mondo, “avvincente e praticabile nelle grandi città, come in quelle piccole e nelle comunità rurali”. Egli è certo che un nuovo corso verde per l’economia mondiale potrebbe finalmente “rompere il letargo” delle coscienze ecologiche (“l’umanità sta vivendo un grande risveglio”), e che a condurci fuori dal medioevo della società del carbonio sarà l’istinto tutto americano del can do, del “si può fare” (“esso è nel nostro DNA culturale”). Con il Green New Deal, scrive ammirato e apologetico, “una nuova generazione di americani sta entrando sulla scena nazionale e globale per intraprendere una missione senza equivalenti nella storia umana”.
Rifkin e Klein condividono lo stesso ottimismo entusiasta per le sorti ecologiche del mondo.
Dello stesso ottimismo entusiasta per le sorti ecologiche del mondo è gonfio il libro di Naomi Klein. Scrittrice prolifica al pari di Rifkin, Klein è considerata la più eminente intellettuale del movimento neoambientalista, almeno da quando nel 2014 ha pubblicato Una rivoluzione ci salverà, libro in cui lei stessa riconobbe però di aver “misconosciuto la realtà del cambiamento climatico per molto tempo, più a lungo di quanto vorre[bbe] ammettere”. Il mondo in fiamme si proclama invece un libro tempestivo ma è “composto da lunghi reportage, momenti di riflessione e discorsi tenuti e scritti nell’arco di un decennio”, e risulta quindi inevitabilmente raffazzonato (“ho resistito all’impulso di modificare i testi originari”). Alcuni capitoli del libro riescono datati o superficiali, temi complessi come la geoingegneria vengono licenziati in poche righe, gli inviti a non comprare prodotti-spazzatura e a passare più tempo a contatto con la natura appaiono naïf, se non addirittura elitari. Senza andare nel dettaglio di alcuna delle misure previste dal Green New Deal, Klein si limita a perorarne la causa morale tessendone un’ode sommaria e idealizzata.
“Naomi Klein fa benissimo a lanciare l’allarme climatico”, ha dichiarato Rifkin a il Tascabile in occasione di una delle numerose presentazioni italiane del suo nuovo libro, “ma ora dobbiamo passare al lato pratico e io cerco di mostrare come fare”. La rivoluzione verde che egli stesso prospetta in Un Green New Deal Globale risulta tuttavia poco comprensibile, incorporando glocalizzazione, blockchain, big data, algoritmi, sharing economy e Nuova Via della Seta senza un ordine apparente. “La scrittura [di Rifkin] è talmente ingombra di numeri, statistiche e gergo tecnologico”, commenta Jeff Goodell nella sua recensione sul New York Times, “che non è facile capire esattamente quale aspetto avrà, secondo l’autore, questa rivoluzione”.
Appassionato di tecno-utopie e previsioni onnicomprensive, Rifkin arriva addirittura a dire che presto gli Stati Uniti raggiungeranno “una rete infrastrutturale federale integrata composta dall’internet delle comunicazioni, l’internet dell’energia rinnovabile e l’internet della mobilità sopra la piattaforma internet delle cose, che abbraccerà l’intero parco immobiliare e ogni ambiente edificato”.
Un Piano Marshall per la Terra
Come è evidente, l’immaginario cui attinge il nuovo corso verde è quello dell’ormai centenario New Deal, l’ampio spiegamento di riforme economiche e sociali ispirate alle teorie dell’economista John Maynard Keynes che il Presidente americano Franklin Delano Roosvelt varò per superare definitivamente la Grande Depressione del 1929. Nell’arco del decennio successivo il governo statunitense assunse direttamente dieci milioni di lavoratori, la copertura elettrica venne estesa alle campagne, furono costruiti centinaia di migliaia di edifici, piantati quasi due miliardi e mezzo di alberi e aperti ottocento nuovi parchi statali. Secondo Klein, si trattò del “più famoso stimolo economico di tutti i tempi, nato nelle spire della peggiore crisi economica della storia moderna”.
E tuttavia il piano di riforme del Presidente Roosevelt ebbe a posteriori anche dei risvolti tetri, creò le condizioni per la duratura crescita economica basata sui combustibili fossili e per l’inarrestabile società dei consumi della cosiddetta “grande accelerazione”. La stessa Klein definisce quest’esito nefasto “l’emergente keynesiano climatico”: il New Deal “rianimò le economie che boccheggiavano, ma portò anche agli immensi insediamenti suburbani e a un’ondata consumista che alla fine sarebbe stata esportata in ogni angolo del pianeta”. Meglio, allora, paragonare il Green New Deal al Piano Marshall, il progetto di vasta ricostruzione dei Paesi devastati dalla Seconda guerra mondiale che, sempre secondo Klein, “fu una specie di New Deal per l’Europa occidentale e meridionale”.
L’immaginario cui attinge il nuovo corso verde è quello dell’ormai centenario New Deal, un piano di riforme che però ebbe a posteriori anche dei risvolti tetri.
In verità anche il Piano Marshall nasconde premesse oscure, poiché venne disposto dal Presidente Harry Truman per sottrarre le nazioni dell’Europa continentale alla sfera d’influenza sovietica e creare un enorme mercato di sbocco per le esportazioni americane. In più fece lievitare il debito pubblico di molti Stati europei oltre ogni ragionevole possibilità di poterlo ripagare, determinando una dipendenza storica dal Patto Atlantico. Klein scrive che “è stato giudicato da quasi tutti la più felice iniziativa diplomatica di Washington”. Poi subito si contraddice quando nota che “la più grossa limitazione di tutti questi paragoni storici […] è che insieme sono riusciti a riavviare e allargare immensamente lo stile di vita ad alto tasso di emissioni con i suoi sterminati sobborghi suburbani e il suo consumo a perdere che sta al cuore dell’odierna crisi climatica”.
Klein e Rifkin convergono nel ritenere che le grandi ristrutturazioni economiche del passato, così come le mobilitazioni in tempo di guerra, furono eccessivamente centralizzate e imposte dall’alto. “Quello che i candidati democratici come Alexandria Ocasio-Cortez non capiscono”, dice Rifkin al Tascabile, “è che si stanno troppo richiamando al New Deal di Roosevelt, legato quindi a strutture centralizzate e coordinate dal governo federale”. Per Rifkin la terza rivoluzione industriale sarà una rivoluzione distribuita: “il 93% delle infrastrutture negli Stati Uniti è di proprietà dei singoli Stati, e questo non lo dice nessuno”. Il Green New Deal che Rifkin e Klein hanno in mente abbandona definitivamente l’utopia dello stato pianificatore e dell’ecologia verticale, per approdare a una transizione energetica orizzontale, equa, sostenuta da forme di auto-governo e di controllo democratico. Niente di meglio, almeno sulla carta.
Il piano Rifkin
Secondo Rifkin, un Green New Deal globale è necessario a creare l’infrastruttura tecnologica ed edilizia per supportare la transizione alle energie rinnovabili che, prevede lui stesso, avverrà presumibilmente non più tardi del 2028. Entro quella data l’energia solare ed eolica diventerà più conveniente dei combustibili fossili, al punto da far finalmente scoppiare la “bolla del carbonio”, “la più grande bolla economica della storia”. Oggi la combustione di benzina, carbone e gas soddisfa l’80% del fabbisogno energetico umano, ma Rifkin è certo che “nel giro di otto anni il solare e l’eolico saranno molto più a buon mercato delle energie da combustibili fossili, costringendo l’industria di questi combustibili a una resa dei conti”.
Nel 1977 il costo fisso per watt delle celle fotovoltaiche in silicio era di 76 dollari, oggi è sceso sotto i 50 centesimi. In dieci anni il prezzo dei pannelli solari è diminuito del 70%, quello delle turbine eoliche del 60%. Nel 2010 le batterie al litio costavano 1.000 dollari per kilowattora, nel 2017 solo 209. In sostanza, il costo marginale per produrre un’unità di energia rinnovabile in più sta diminuendo, mentre sta aumentando quello di estrazione dei combustibili fossili, sempre più impervi e dunque onerosi da trovare ed estrarre. Per Rifkin si tratta di una legge di mercato inesorabile, tale da rendere inevitabile il crollo della civiltà del carbonio: entro il 2028, 100mila miliardi dollari di combustibili fossili diventeranno stranded assets, letteralmente “beni incagliati”, ovvero “beni che si svalutano prematuramente, prima che il loro prevedibile ciclo di vita giunga normalmente al termine”.
Rifkin parla addirittura di “carneficina già palpabile” quando scrive che “gli impianti solari ed eolici hanno già in molti casi costi di gestione inferiori a quelli delle attuali centrali a carbone e gas”. Compito del Green New Deal globale sarà dunque quello di accelerare questa transizione energetica, già inscritta nel mercato, investendo denaro pubblico in una “piattaforma tecnologica polifunzionale” fatta di “banda larga, big data e comunicazione digitale a costo marginale quasi zero, elettricità verde a emissioni zero, veicoli elettrici autonomi alimentati da energie rinnovabili che corrono su strade intelligenti, edifici a saldo energetico positivo e zero emissioni connessi per nodi”.
Rifkin irride due secoli di teorie critiche del capitale, mette le “tesi di Marx a testa in giù”, lascia intendere che i veri capitalisti sono i lavoratori di tutto il mondo con i loro fondi pensione.
Rifkin prevede che ci vorranno dieci anni per costruire questa “Pangea digitale” ed energetica e altri dieci per la sua messa in funzione, poi approderemo finalmente alla “neutralità climatica”. Grazie al Green New Deal globale centinaia di milioni di persone potranno produrre da sé l’energia di cui hanno bisogno e vendere quella in eccesso alla rete elettrica, che come un vasto “sistema nervoso” planetario porterà l’elettricità a un costo marginale insignificante nelle aree in cui sole e vento sono scarsi o intermittenti. Questa infrastruttura decentralizzata ma connessa di micrositi di produzione dell’energia segnerebbe “l’inizio della grande democratizzazione del potere nelle comunità di tutto il mondo”.
Quanto ci costerà questo sogno tecno-utopistico? Rifkin stima che per realizzare l’infrastruttura energetica della “terza rivoluzione industriale” basterà investire annualmente il 3,5% del PIL mondiale, non molto per quella che lui stesso reputa “la più grande campagna di disinvestimento/reinvestimento della storia del capitalismo”. Certo, per finanziare il Green New Deal sarà necessario che i governi – in primis quello americano – taglino i sussidi ai combustibili fossili e le spese per la difesa, tassino i super-ricchi, magari inaspriscano la carbon tax e istituiscano delle “banche verdi” per gli investimenti etici. Tuttavia, Rifkin è sicuro che a fare la parte del leone saranno i fondi pensione, il più grande capitale privato di investimento del mondo con 41mila miliardi di dollari, di cui più della metà detenuti dai risparmiatori americani.
I fondi pensione sono i salari differiti e accumulati da milioni di lavoratori del settore pubblico e privato, liquidabili nel momento in cui lasciano il loro impiego. Il loro improvviso risveglio finanziario rappresenterebbe secondo Rifkin “il segreto meglio custodito” della storia capitalistica moderna: “la clamorosa iniziativa assunta dai fondi pensione pubblici e privati di sottrarre miliardi di dollari dei loro investimenti al settore dei combustibili fossili e industrie connesse per reinvestirli nell’economia verde intelligente segna l’avvento dell’età del capitalismo sociale”.
Nel suo libro denso e labirintico, è forse questo il passaggio nodale: Rifkin irride due secoli di teorie critiche del capitale, mette le “tesi di Marx a testa in giù”, lascia intendere che i veri capitalisti – quelli che hanno causato la crisi climatica, ma riusciranno a risolverla cambiando pacchetto di investimenti – sono i lavoratori di tutto il mondo con i loro fondi pensione. “Senza sparare un colpo, senza lotta di classe, senza scioperi, ribellioni o rivoluzioni, i ruoli, almeno sulla carta, si sono invertiti: la principale classe capitalistica è oggi rappresentata da questi milioni di lavoratori”.
Realismo eco-capitalista
Nella ricetta di Rifkin per un Green New Deal globale, la conversione dell’infrastruttura energetica dai combustibili fossili alle energie rinnovabili sarà dunque finanziata con i fondi pensione della classe media, per lo più americana. Il resto del lavoro è demandato all’infallibile mano invisibile del mercato, che inciderà sempre più marcatamente sul costo dei pannelli solari, delle turbine eoliche e delle batterie per l’accumulazione di energia elettrica pulita. “Le forze di mercato”, scrive Rifkin, “sono molto più potenti di qualsiasi manovra lobbistica l’industria dei combustibili fossili possa tentare”. Con impeto neoliberista e cieco a ogni evidenza, aggiunge addirittura che di fronte alla crisi climatica “il mercato è un angelo custode che vigila sull’umanità”.
Un po’ meno sfacciatamente di Rifkin, anche Klein finge che non esista alcuna dialettica tra capitalismo e socialismo: “quando l’economia globale entrerà in un’altra crisi o rallentamento, cosa che succederà di sicuro, l’appoggio al Green New Deal non crollerà come è successo ad altre grandi iniziative verdi durante le recessioni passate [ma] diverrà la più grande speranza di rianimare l’economia”. Sebbene Klein si dichiari da sempre ostile al capitalismo – il sottotitolo all’edizione italiana di Il mondo in fiamme è Contro il capitalismo per salvare il clima, quello di Una rivoluzione ci salverà è Perché il capitalismo non è sostenibile – le soluzioni che propone di fronte alla crisi climatica non vanno oltre la retorica ormai lisa dello sviluppo sostenibile, dell’economia circolare e della green economy, che vorrebbe trasformare il limite ecologico in un’ulteriore occasione di crescita economica.
Il Green New Deal immaginato da Rifkin e Klein si inserisce così in una prospettiva segnatamente eco-capitalistica che tenta di adattare il vincolo ambientale all’economia di mercato, postulando una piena compatibilità tra crescita economica e tutela dell’ambiente, capitale e natura. Di fondo vi è la presunzione che sia possibile ridurre le emissioni di carbonio senza interrompere la crescita economica, una teoria, questa, che è stata però contestata da centinaia di studi scientifici. L’esperienza ci insegna che la concentrazione di carbonio nell’atmosfera è sempre diminuita in corrispondenza di periodi di recessione delle economie avanzate, così come è sempre aumentata in quelli di crescita. L’unico modo storicamente certo per frenare il riscaldamento globale è quello di interrompere la crescita economica.
Con impeto neoliberista Rifkin aggiunge addirittura che di fronte alla crisi climatica “il mercato è un angelo custode che vigila sull’umanità”.
Ma l’esperienza ci insegna anche che, quando incappa in uno dei suoi periodici cicli di crisi, il capitalismo rischia davvero di non sopravvivere. È in quelle situazioni di minaccia, recessione e anomia che lo Stato disegnato da Keynes entra in azione, corregge i malfunzionamenti dei mercati e ne crea di nuovi. Il capitalismo keynesiano, con lo Stato “imprenditore” e manutentore del mercato, funziona meglio di quello puramente liberista, che in linea teorica possiamo anche immaginare ma che nella realtà storica ha dato prova di non potersi sostenere a lungo da solo. Lo Stato minimo del liberismo tutela il diritto di proprietà privata, garantisce la concorrenza tra gli operatori economici, disciplina gli individui recalcitranti all’ordine capitalista. Quello interventista del modello keynesiano allenta anche la pressione fiscale sui capitali quando questi ristagnano, riduce il costo del lavoro se aumenta la disoccupazione, si fa carico di bonificare le esternalità negative del mercato. Senza uno Stato di questo tipo, invadente ma medicamentoso nei momenti di crisi, il capitalismo sarebbe forse finito già da un po’.
Rifkin e Klein aderiscono perfettamente a questa logica neokeynesiana e riformista, da sinistra moderata e ormai incapace di pensarsi al di fuori delle leggi del capitale. Il loro Green New Deal non mette in discussione le fondamenta del sistema economico ma si limita a piccoli ritocchi ecologisti che ne allungheranno ulteriormente la vita, forse per l’ultima volta nella storia. Piuttosto che sconvolgere l’attuale ordine economico, Rifkin e Klein, in misura diversa, sembrano entrambi accettare che there is no alternative. L’Economist ha definito quest’attitudine degli intellettuali di sinistra il “climate-change dilemma”: le forze progressiste dovrebbero operare per un completo superamento del sistema capitalistico o fanno meglio a ripiegare su misure graduali e politicamente meno dannose, ma non risolutorie come il Green New Deal? D’altra parte, se anche riuscissimo a portare a zero le nostre emissioni di carbonio senza intervenire sull’economia capitalistica e lo stile di vita consumistico, attorno a noi procederebbero inesorabili la sesta estinzione di massa, la deforestazione, il consumo di suolo, l’inquinamento ambientale, lo sfruttamento intensivo delle risorse minerarie.
Occupazione verde
Per rendere socialmente desiderabile il loro affresco del Green New Deal, Rifkin e Klein sottolineano ripetutamente le enormi opportunità di occupazione schiuse da un nuovo corso verde per l’economia mondiale. Il Green New Deal, annuncia Rifkin, “porterà a un’ultima impennata del lavoro salariato e di massa dipendente, fenomeno che durerà trent’anni”. Le stime parlano di circa 20 milioni di posti di lavoro nei soli Stati Uniti, ma non è chiaro se dal computo complessivo siano decurtati i posti persi nel settore dei combustibili fossili. Sperabilmente, i lavori “verdi” saranno “degni, sindacalizzati, in grado di sostenere una famiglia con ferie e indennità varie” (Klein), oltre che con retribuzioni già oggi più alte della media “in una misura che va dall’8 fino al 19 per cento” (Rifkin).
“Qualsiasi Green New Deal credibile”, aggiunge ingenuamente Klein, “deve comprendere un progetto concreto per garantire che gli stipendi di tutti i posti di lavoro verdi che crea non siano immediatamente riversati in uno stile di vita iperconsumista che finisce involontariamente per aumentare le emissioni”. Ma il denaro guadagnato col lavoro serve soltanto a consumare: se non viene impiegato per quello, a cos’altro potrebbe essere utile? La necessità di vendere le proprie prestazioni lavorative ed essere sempre più produttivi è compensata dalla possibilità di consumare di più: il lavoro salariato serve soltanto a permettersi una vita borghese, dunque consumistica, e a null’altro.
La legge ferrea della storia ci insegna invece che per ridurre la nostra impronta ambientale dovremmo lavorare, produrre e consumare di meno. Ai tempi del New Deal, un americano medio lavorava 45 ore la settimana, ma lo stesso Keynes era fiducioso: in un famoso saggio del 1930 si azzardò a profetizzare che di lì a un secolo il coefficiente di produttività delle tecnologie industriali sarebbe stato così alto da permettere a tutti un orario di lavoro di sole 15 ore settimanali – decisamente meno delle 38 attuali, nonostante i progressi tecnologici abbiano abbondantemente superato le previsioni dello stesso Keynes. Con il Green New Deal rimaniamo ancora intrappolati nell’irrazionale eterogenesi dei fini tra lavoro e produzione dei beni, per cui le riforme economiche sono indirizzate ad aumentare l’occupazione sebbene siano venuti meno molti dei reali bisogni produttivi. L’operosità umana non è più un mezzo per produrre i beni e soddisfare i bisogni, ma è diventata essa stessa un fine: dobbiamo produrre anche quando diventa nocivo per l’ambiente, lavorare anche se non è più necessario, inventare di continuo quelli che David Graeber ha definito “lavori senza senso”.
Per cominciare a ridurre le emissioni di gas serra e l’impatto ambientale del nostro stile di vita consumistico, oltre che l’alienazione dai “lavori senza senso”.
Per cominciare a ridurre le emissioni di gas serra e l’impatto ambientale del nostro stile di vita consumistico, oltre che l’alienazione delle mansioni prive di scopo, la proposta politica di una settimana lavorativa di quattro giorni sarebbe sicuramente efficace e di largo consenso. Successivamente, potrebbe essere utile introdurre un reddito di base universale senza obbligo di impiego, che spezzerebbe finalmente il legame tra lavoro e consumo. Come scrivono Simon Lewis e Mark Maslin nel loro Il pianeta umano (2019), con un reddito di base universale “potremmo lavorare meno e consumare meno, riuscendo comunque a soddisfare le nostre necessità” e a ridurre ciascuno la propria impronta ambientale. Nessuno sarebbe obbligato ad accettare occupazioni senza senso o dannose per l’ambiente, le retribuzioni degli impieghi mal pagati aumenterebbero perché meno persone sarebbero disposte ad accettarli. Contemporaneamente, le retribuzioni di professioni di rilievo come il medico o l’avvocato diminuirebbero poiché ogni individuo di talento avrebbe l’opportunità di intraprenderle, aumentandone significativamente la qualità e riducendo drasticamente le disuguaglianze sociali. “Un aspetto cruciale”, aggiungono Lewis e Maslin, “è che il genio in grado di contribuire a risolvere qualche problema ambientale, sociale o tecnico ne avrà l’opportunità, anziché essere costretto a un lavoro estenuante per pagare l’affitto”.
Tuttavia, su queste incredibili opportunità di riforma sociale il Green New Deal – per quanto urgente e necessario – ha il vizio di tacere. Così come tace sulla possibilità di estendere il concetto di lavoro garantendo, ad esempio, una retribuzione a chi intraprende attività produttive organiche che non impiegano combustibili fossili, coltiva e tutela boschi fuori mercato per il solo sequestro della CO₂, svolge servizi di cura alla persona non retribuiti e a basso impatto ambientale. Più in là, se anche il Green New Deal dovesse fallire nella sfida a ripristinare l’equilibrio ecologico ed energetico delle società umane, dovremo trovare il coraggio politico di fare ciò che oggi sembra ancora impensabile.