D ue giovani ragazzi, seminudi e statuari nel loro fisico abbronzato, sono seduti sulla bassa ringhiera del ponte di Mostar. Sono tuffatori e aspettano di raccogliere ameno cinquanta marchi dai turisti per tuffarsi nel fiume. Quella di lanciarsi nella Neretva è una pratica antica nella città, più che sport è tradizione e, come ogni tradizione, si presta bene a farsi monetizzare e inglobare nella macchina insaziabile del turismo. La folla intorno è asfissiante: il ponte, i vicoli della città vecchia, i gradini sotto i negozi, ogni centimetro è occupato da corpi in villeggiatura; molti hanno gli occhi e i telefonini puntati sui due atleti. Nonostante la temperatura rovente e un sole quasi crudele, nessuno sembra rinunciare a farsi un giro nell’antico Pazar, tra l’accozzaglia di ristorantini e botteghe di chincaglieria, per catturare una foto dei minareti sul fiume o dell’iconico Stari Most: il Ponte Vecchio, o solo Il Vecchio. Capolavoro di ingegneria ottomana e uno dei ponti più belli al mondo. Il rischio di un’insolazione vale la cattura del Vecchio nel proprio feed Instagram.
Eppure quell’antico ponte di anni non ne ha più di venti. Sotto la direzione dell’UNESCO è stato ricostruito e riaperto nel 2004. È uno dei luoghi simbolo della guerra civile che per anni ha insanguinato i Balcani: sopra quell’arcata si sono sparati i primi colpi tra serbi, croati e bošnjaci che poi sarebbero degenerati in una sequela di atrocità genocidiarie e pulizie etniche. Nel ’93 l’artiglieria croata del generale Slobodan Praljak lo abbatte, idea che gli costerà vent’anni dopo una condanna internazionale per crimini di guerra e una fiala di cianuro per chiudere la faccenda in maniera teatrale. Il bombardamento del ponte servì non tanto per interrompere una linea di comunicazione, quanto per colpire l’identità della comunità locale: non solo i musulmani da scacciare, ma anche gli altri abitanti che rifiutavano di aggredire i propri vicini di casa. Tutti dovevano capire che il tempo secolare della convivenza tra fedi e comunità diverse era finito. La regressione politica dei nazionalismi parla una lingua di sangue e le ferite finiscono per trascinarsi negli anni, trasmettersi come malattia ereditaria.
Oggi quel ponte bellissimo e instagrammabile non unisce più: Mostar rimane una città divisa, le comunità bošnjaca e croata vivono per lo più sulle due opposte sponde del fiume, bandiere differenti appese ai lampioni segnalano la componente maggioritaria nei quartieri. Rimangono sacche di convivenza, zone miste, un centro storico che, come ovunque, non è di nessuno perché è vetrina per turisti. Ma si è spezzata la capacità di essere un unico popolo. Lo conferma un vecchio abitante, mentre beve limonata in un chiosco appena defilato dall’orda dei villeggianti. “Abbiamo pianto, tutti abbiamo pianto quando è caduto il Vecchio. È stato come se ci avessero ammazzato un fratello maggiore, era la nostra comunità che volevano colpire. E poi tutto il resto, la violenza e il dolore… Non sono cose che vanno via di colpo e, dopo trent’anni, siamo ancora qui, ma non riusciamo a andare oltre”.
Nei fatti, la memoria ferita agisce sul presente plasmando nel profondo la psiche individuale e collettiva: i medesimi spazi vengono ora interpretati in modi completamente diversi, fino a costituire universi sovrapposti, ma separati. È difficile che politiche pubbliche orientate a promuovere una nuova identità culturale condivisa riescano a germinare laddove la memoria della guerra non è ancora stata seriamente rielaborata. In assenza di difficili percorsi di riconciliazione sociale rimangono piuttosto tentativi sterili di colonizzare un immaginario che ha messo radici troppo profonde per essere rimosse facilmente.
La regressione politica dei nazionalismi parla una lingua di sangue e le ferite finiscono per trasmettersi come una malattia ereditaria.
Questo, Mostar lo sa bene e lo ha dimostrato quando, poco dopo la riapertura del ponte, ha inaugurato un monumento nel parco cittadino. Nelle intenzioni dei promotori doveva essere un simbolo di riappacificazione e convivenza; per cui si sondarono gli umori degli abitanti, tentando di trovare un personaggio positivo, qualcuno che fungesse da esempio e mettesse tutti d’accordo. Probabilmente gli ideatori immaginavano di mettere su un Mahatma Gandhi, un Nelson Mandela o un Altiero Spinelli. Invece, alla fine l’ingrato compito di mediatore simbolico è toccato a Bruce Lee. Nella sua iconica posa da karateka, a dimensione naturale, è stato installato al centro del parco Zrinjevac il primissimo monumento alla memoria del celebre attore sino-americano.
La bronzea riproduzione del divo marziale è la surreale soluzione di compromesso di una comunità che, a dieci anni dalla fine delle ostilità, non era ancora in grado di superare le ferite della guerra. D’altronde, in città dove sui muri campeggiano ancora i volti dei comandanti militari, invariabilmente eroi per alcuni e carnefici per altri, può esserci un personaggio in grado di unificare, soprassedendo al confronto, senza scadere in una strampalata impotenza? Più volte vandalizzata, oggi di quella statua rimane solo il malmesso piedistallo. Qualcuno l’ha trafugata lo scorso marzo, mutilandola per poterne rivendere il materiale a peso. Infelice fine per un bronzo assurdo, investito della missione impossibile di far dialogare universi separati senza suturare le linee di faglia che ancora li dividono.
Mentre l’overtourism prosciuga la viabilità di Mostar, al capo opposto del Paese si celebra la commemorazione del massacro di Srebrenica. Ogni 8 luglio migliaia di persone si mettono in marcia dal villaggio di Nezuk per arrivare, tre giorni dopo, al memoriale di Potočari, realizzato di fronte al complesso industriale che ospitava la forza ONU incaricata di proteggere i civili. Il giorno dopo l’arrivo della marcia, ogni anno vengono inumate le salme degli ultimi corpi riconosciuti.
È la Marš Mira o Marcia della Pace: un percorso di quasi cento chilometri che ripercorre la cosiddetta “Marcia della morte”, vale a dire la fuga collettiva di quasi quindicimila bošnjaci scappati in quel luglio del ‘95 dalla zona di Srebrenica. Erano tutti coloro che, a ragione, non avevano fiducia nella protezione dei caschi blu. Dopo ripetuti agguati e rastrellamenti, ne arrivarono in salvo meno di settemila. È una pagina di quella storia semi-rimossa nelle narrazioni occidentali, citata come fosse una nota a margine, che resta invece uno degli argomenti più ricorrenti nelle conversazioni con la gente del posto, un grande tassello nel gigantesco trauma sociale che fu quel massacro.
La “marcia della morte” fu la fuga collettiva di quasi quindicimila bošnjaci scappati nel luglio del ‘95: coloro che, a ragione, non avevano fiducia nella protezione dei caschi blu.
Per i sopravvissuti della marcia ripercorrere quei passi è troppo doloroso, significa ritornare nel luogo di una disperazione assoluta; come per Esad che apparentemente è allegro e ospitale, ma che non ha mai preso parte alla marcia e mal soffre la presenza di molti dei partecipanti: “ora fanno gli eroi e vengono qui col petto grosso e le bandiere”, dice “ma non c’erano! Non sanno che cosa vuol dire soffrire la sete, strisciare sotto i cespugli con la paura di essere colpiti da un cecchino a ogni centimetro e dover scavalcare qualcuno, magari un fratello, che ti è appena morto davanti… Forse l’anno prossimo, per i trent’anni, se sarò in grado rifarò la Marcia per i miei amici e per tutti quelli che non ce l’hanno fatta”. Ci si adatta a convivere con gli spettri perché la resa dei conti con un passato simile mette in crisi, fa paura, una paura che blocca le gambe e spezza il respiro, per cui è necessario rimandarla ancora, di anno in anno.
Non tutti reagiscono come Esad. Churli, per esempio, preferisce dare una mano pur restando in disparte, senza tornare su quei passi. È un uomo di sessant’anni, calvo e magro, di sera raggiunge i campi dove si riuniscono i camminatori, tra le tende della Croce Rossa che cura vesciche, slogature e cali di pressione, i bivacchi dove si mangia e i capannelli di gente che chiacchiera, fumando una sigaretta dopo l’altra. Con i palmi delle mani indica il terreno circostante. “Siamo sopra una fossa comune, qui c’erano sepolti un centinaio di corpi. Intorno a noi, ovunque, ci sono stati omicidi di massa. Queste persone, con la Marcia, riportano un po’ di vita, ridanno speranza”, ed effettivamente il clima è quello di un campo scout, sereno, cordiale, ma con un alone intenso che circonda tutti, come fosse una sorta di consapevolezza collettiva.
I luoghi vibrano delle storie che li hanno attraversati e gli umani, nella presenza cosciente, non possono che riflettere quelle vibrazioni. Churli si illumina all’improvviso, come sorpreso dal suo stesso pensiero, sorride e allarga le braccia: “Italia! L’Italia è un paese amico, ci ha aiutato! Ha dato la base di Aviano per bombardare Belgrado!”
In realtà l’Italia non li ha aiutati in alcun modo, così come il resto della cosiddetta comunità internazionale. Anzi, quando il generale olandese Thom Karremans, comandante della base di Potočari, chiese l’intervento aereo della NATO sulle postazioni serbe che bersagliavano Srebrenica, gli alti comandi opposero fumosi rifiuti. Consci della situazione, con i velivoli che monitoravano e raccoglievano informazioni senza interferire, lasciarono degenerare la situazione e mollarono agli olandesi la patata bollente. Così la pavida condotta di Karremans, il grottesco video in cui brinda imbarazzato con Mladjic, e i risultati disastrosi del suo operato gli valsero il marchio d’infamia. Non immeritato magari, ma a guardar bene non è altro che un capro espiatorio per la cinica indifferenza euro-americana.
I luoghi vibrano delle storie che li hanno attraversati e gli umani, nella presenza cosciente, non possono che riflettere quelle vibrazioni.
Le bombe caddero invece su Belgrado nel 1999, quando il presidente serbo Slobodan Milosevich decise di scatenare la sua quarta guerra in otto anni, stavolta in Kosovo. Ma la NATO non era più disposta a tollerare che sul suolo europeo qualcuno tentasse di fare la parte del leone. L’intervento, denominato Allied Force, fu voluto fortemente dal Pentagono e il governo D’Alema diede l’assenso affinché dalla base di Aviano partissero i raid aerei di un’operazione che nemmeno il consiglio di sicurezza dell’ONU aveva autorizzato. Fu la prima guerra umanitaria. Un intervento militare esplicitamente presentato come estrema forma di salvataggio delle popolazioni civili. Ma più che a salvare civili, serviva a rendere chiaro al mondo chi era adesso il vero “padrone di casa” attraverso la punizione collettiva di un’intera nazione.
In circa due mesi e mezzo di bombardamenti, oltre a bersagli militari vennero colpiti ponti, scuole, villaggi ed edifici, tra cui quello dell’ambasciata cinese. Il numero delle vittime fu di oltre duemilacinquecento, senza contare l’enorme numero di sfollati e gli incalcolabili strascichi dovuti alle leucemie causate dall’uranio impoverito delle munizioni. Ora Churli, quest’uomo che non è un uomo cattivo e che ha vissuto su di sé l’orrore della guerra, sorride di tutto questo e si complimenta con noi per il servizio reso dal nostro paese. È difficile rispondergli che quello fu un crimine contro cui protestammo e che ancora ricordiamo come una vergogna. Il capovolgimento delle prospettive obbliga a silenzi imbarazzati. Attraverso la parola si palesano distanze siderali fra mondi diversi.
Come detto, la Marcia termina nel memoriale del massacro: una collina su cui si stendono migliaia di lapidi bianche tutte identiche; su ognuna di queste, sotto la prima sura coranica, lo stesso epitaffio: “non sono morti, sono vivi ma non potete udirli”. In questo ventinovesimo anno, le lapidi diventano ottomilatrecentosettantadue. Ma sono ancora molti i corpi che mancano, in attesa di essere riesumati da fosse comuni e riconosciuti. Il lavoro di riconoscimento delle vittime è un processo lento, tecnicamente difficoltoso oltre che emotivamente lacerante. Inizialmente ai sopravvissuti veniva chiesto di sfilare davanti a file di resti umani, cercando di riconoscere qualcosa, un dettaglio come una maglietta o un bracciale, qualsiasi cosa potesse aiutare a restituire un’identità a quelle spoglie.
Quando questo non fu più sufficiente si iniziò a lavorare con il riconoscimento del DNA, ma per avere un riscontro attendibile bisogna avere una buona percentuale di resti, il che è meno scontato di quel che sembri: dopo l’eccidio le vittime vennero tumulate in fosse comuni e poi, per scongiurarne il ritrovamento, vennero riesumate e sparpagliate in altre innumerevoli fosse, con l’ausilio di ruspe e camion, così che uno stesso corpo, o meglio parti di esso, possa essere ritrovato in quattro o cinque diversi luoghi. Sulla disciplina dell’identificazione mortuaria la Bosnia è diventata, suo malgrado, un’eccellenza: tre decenni di pratica hanno formato specialisti e centri di ricerca affermati internazionalmente. Bizzarro premio di consolazione. Più il tempo passa, più è difficile concludere i riconoscimenti, ma rimane un aspetto cruciale per la chiusura di quel capitolo di Storia, non tanto per un fattore legale, processuale, ma per una dimensione esistenziale legata alla memoria della comunità.
Churli, quest’uomo che ha vissuto su di sé l’orrore della guerra, si complimenta con noi per il servizio reso dal nostro paese. È difficile rispondergli che quello fu un crimine contro cui protestammo.
Quest’anno le nuove salme da inumare sono quattordici, e sono disposte in fila, dentro piccole bare di legno, coperte da drappi verdi, su cui è stesa una piccola bandiera con lo scudo gigliato: lo stemma della defunta Repubblica di Bosnia Erzegovina. Ognuna di queste verrà inumata il giorno seguente, dopo il rito funebre islamico e la commemorazione ufficiale. Verranno calate nella fossa da uomini che si alterneranno alle pale per coprirle di terra, spontaneamente, senza un ordine predefinito. Per ora restano esposte al pubblico. Intorno i parenti si inginocchiano per pregare, toccarle, salutarle, piangerle.
Una ragazza di dodici anni singhiozza tra le lacrime accarezzando una bara. La targa riporta la data di nascita del defunto: 1952. Quello che piange potrebbe essere il nonno, o uno zio, magari di secondo grado. In ogni caso, piange qualcuno che non ha mai conosciuto. Personaggi di mitologie familiari, che hanno come sola consistenza quella delle parole di chi li ricorda dentro casa, dei racconti ripetuti. È attraverso la parola, infatti, che queste anime sparite nel nulla l’11 luglio del 1995 prendono ancora posto a tavola di fronte alle nipoti, magari nate vent’anni dopo. Finché un corpo non ha sepoltura, finché è solo scomparso, il racconto diventa un esorcismo per colmare il vuoto. È questo il modo attraverso cui le generazioni possono entrare in contatto con la ferita insanata della memoria familiare e della comunità intera.
Quelle lacrime non sono semplicemente la manifestazione di un lutto privato ma la messa in forma di un dolore collettivo che preme per essere riconosciuto. È un pianto al contempo doloroso e liberatorio, e d’altronde a questo servono le cerimonie funebri: la chiusura di un ciclo è il presupposto per la prosecuzione della vita; ciò che è stato deve essere consegnato al passato e depositarsi come ricordo, altrimenti avvelenerà il futuro in un corto circuito lacerante. Molti ancora sono i corpi che devono trovare degna dimora nel memoriale di Potočari, per potersi davvero riappacificare con quella tragedia, e ancora molti anni devono passare perché il dolore dei sopravvissuti sia bilanciato dalla memoria dei discendenti, mutato in consapevolezza e coscienza civile. “Il nostro dovere è ricordare, raccontare quanto successo e condividerlo con gli altri, non per perpetuare l’odio, ma perché il ricordo si trasformi in uno strumento di convivenza”. Sono le parole di Ajla, ventiquattro anni; sta in piedi davanti alle bare dei due zii paterni che stanno per essere sepolti. Si aggiungono un terzo zio sepolto qualche anno fa. “Domani alla cerimonia, per la prima volta, ci saranno con me undici amici di Sarajevo, sia croati che serbi. Dobbiamo vivere tutti insieme questo momento di lutto, per renderlo comune e andare avanti”.
Uscendo dal cimitero, lungo l’unica strada, centinaia e centinaia di volti ieratici, in bianco e nero, osservano i passanti. Sono fotografie di serbi uccisi durante la guerra. Vengono issate da un paio d’anni nelle aiuole delle case, su ringhiere e marciapiedi. Come girasoli, vengono ruotati secondo la direzione della marcia, in entrata e in uscita dal memoriale. Perché siano ben visibili. È solo in occasione della Marš Mira che questi ritratti vengono esposti. È una richiesta di riconoscimento del proprio dolore, ma anche una provocazione, visto che ha lo scopo di mettere in discussione il significato politico del massacro di Srebrenica, per tenere salda la propria identità etnico-nazionale. Ancora una volta riemerge il gioco crudele delle prospettive, che rende medesimi oggetti manifestazioni di realtà inconciliabili.
L’esposizione dei ritratti serbi è anche una provocazione: mette in discussione il significato politico del massacro di Srebrenica, tenendo salda l’identità etnico-nazionale.
Li osserva anche Ado Hasanovic, un giovane regista di Srebrenica che la guerra l’ha vissuta con gli occhi di un bambino: “non conosco queste facce, è una provocazione serba… Capita, ma lo accetto, è un paese libero in fondo…”. Ado è una di quelle persone dall’energia inesauribile, gioviale; conosce tutti, parla con tutti, saltella qui e lì riprendendo ogni cosa col suo smartphone. Sta portando per la prima volta a Srebrenica un festival di cinema a cui parteciperanno anche artisti serbi e croati, oltre che dal resto d’Europa, il Silver Frame: “Voglio creare qualcosa di bello per questo posto e farlo con le altre persone. Non parleremo della guerra, lo fanno già abbastanza i politici, preferisco parlare dei problemi più immediati e soprattutto portare un momento di condivisione qui dove ancora abbiamo difficoltà a dialogare tra comunità limitrofe”.
Non parlare di “politica”, soprassedere alla storia del massacro, in un festival simile e in questa località potrebbe sembrare, a un occhio esterno, quanto meno indelicato. È invece una scelta consapevole e attenta; una “mossa del cavallo” come dice Ado: “Se prendiamo frontalmente la questione, non ne ricaveremo nulla. Ognuno ha la sua memoria e non è in grado di decostruirla. Allora prima dobbiamo imparare a discutere di altro per stare insieme, per imparare di nuovo a convivere, e solo dopo saremo in grado di affrontare questa storia, come una vera comunità”. In effetti di nazionalismo e memoria ne fanno un gran parlare tutti i partiti, ma ben poca attenzione c’è verso i problemi quotidiani delle persone: il memoriale di Potočari è uno dei più significativi simboli nazionali, ma la zona è spopolata, economicamente e culturalmente depressa; non sono solo gli strascichi della guerra, ma anche una sostanziale indifferenza dello Stato verso una politica attiva per il territorio a far esacerbare un clima di scontento che si riversa poi in istanze identitarie.
Quest’anno, dopo che l’ONU ha deciso di riconoscere l’11 luglio come giornata del ricordo del genocidio di Srebrenica, sia la Serbia che la Repubblica Srpska hanno alzato la voce: è tuttora forte il negazionismo verso i fatti del 1995, e non in qualche cerchia minoritaria di revanscisti. Sono le alte cariche dello stato a portare avanti una narrazione imperniata sull’idea del grande complotto ai danni dei serbi. Lo stesso sindaco di Srebrenica, serbo come la maggioranza della popolazione attuale della zona, ha scatenato polemiche dichiarando di voler cambiare nome alla città, ormai infangato dalle posizioni delle Nazioni Unite. Se questo è possibile è perché la regione fu negli anni ripopolata da profughi serbi fuggiti dalla Krajina, insediati dopo che la pulizia etnica aveva sgomberato i precedenti abitanti musulmani. Il trascorso comune, piuttosto che avvicinare le comunità, traccia solchi ancora più netti e non è raro che, in questo luogo dolorosamente simbolico, marcino le parate di estremisti cetnici.
Il presidente della Srpska, Milorad Dodik, soffia sul fuoco ormai da anni: sa di giocarsi una carta sicura nella ricerca di consensi e seguita a straparlare di secessione e riunificazione con la Serbia. Questo gli permette di occupare lo spazio politico e mediatico con una posizione di rendita, senza doversi occupare davvero delle urgenze sociali del suo territorio. Non è da meno Aleksandr Vucic, il discusso presidente serbo, che regge il gioco del collega, ma con più condiscendenza che convinzione. Sapendo di essere un po’ l’ago della bilancia non sembra credere davvero all’ipotesi secessionista, piuttosto la usa come utile strumento di pressione nel burrascoso rapporto con l’Unione Europea.
Non sono solo gli strascichi della guerra, ma anche una sostanziale indifferenza dello Stato verso il territorio a far esacerbare un clima di scontento che si riversa poi in istanze identitarie.
In giro tutti parlano dei problemi di convivenza, che non sono affatto pochi, ma nessuno crede davvero alla possibilità di un nuovo conflitto. Eppure un fondo d’inquietudine aleggia sottinteso nei discorsi mentre si guarda, pudicamente e con la coda dell’occhio, alle proteste che negli ultimi due anni hanno interessato la zona serba del Kosovo, con le forze ONU schierate nelle strade per la prima volta dopo tanto tempo, le truppe serbe ammassate al confine del paese e una pericolosa schermaglia diplomatica rintuzzata dalle azioni di gruppuscoli paramilitari.
Tutto è fermo in superficie, mutamenti significativi non si sono ancora dati, eppure una sensazione d’inquietudine aleggia sul cuore montano dei Balcani. La sera stessa della cerimonia, lungo le strade intorno a Srebrenica e poi in direzione di Sarajevo, per chilometri e chilometri, in mezzo ai boschi, tra insediamenti e piccoli paesi, vengono appiccati enormi fuochi. Falò nutriti con assi di legno, paglia e copertoni. Capannelli di famiglie stazionano attorno alle fiamme, bambini e adolescenti si muovono sul ciglio della strada, nella penombra scura di boschi di conifere, portando in mano lunghe fiaccole.
Un rito silenzioso e quasi sacro, inesplicabile se non fosse per gli onnipresenti simboli delle bandiere, che sono invece espliciti: ovunque i tricolori della Repubblica Srpska, le aquile bicefale di Serbia, e poi croci ortodosse che svettano davanti alle pire e abbracciano le spalle della gente.
Più che illuminare, queste fiamme proiettano ombre lunghe sulla sera bosniaca e sulla notte dell’onnipresente devoluzione revanscista. Cupe vampe di un passato che non passa e avvelena il suolo, infettando le possibilità di dialogo in una terra che per secoli è stata luogo di convivenza multietnica per poi collassare, tutto a un tratto, sotto i colpi di maglio di un nazionalismo mefitico, che oggi vorrebbe farsi spirito del tempo.