I mmaginate di prepararvi per una passeggiata. Uscite dalla vostra abitazione, attraversate l’androne del palazzo e notate sul portone d’ingresso un bel fiocco rosa: immediatamente realizzate che i vicini di pianerottolo con cui ogni tanto vi soffermate a chiacchierare sono diventati genitori di una bambina. Una volta per strada, incontrate un nonno che porta a spasso il nipote: come sapete che è un maschietto? Avrà sì e no quattro anni: se non fosse per i capelli corti, lo zaino dei Gormiti e il suo outifit blu, grigio e verde non lo indovinereste. Decidete di andare a comprare un regalo per la nuova nata. Al negozio di abbigliamento per bambini chiedete alla commessa in quale reparto poter trovare un body. L’impiegata vi chiede se si tratta di un regalo per un bimbo una bimba, perché cambiano i colori e i disegni. Abbandonate l’idea del body e andate in un negozio di giocattoli. Prima di trovare il reparto dei giochi dedicati alla prima infanzia vi perdete nei corridoi su cui campeggiano indicazioni molto chiare in merito al sesso e all’età dei possibili destinatari. Guardate distrattamente il packaging dei prodotti: quello delle bambine è caratterizzato da una sovrabbondanza di rosa, viola e glitter, quello dei bambini è sui toni del blu e verde e presenta grafiche molto più dinamiche.
Per chi lavora nel mondo dell’infanzia o per chi ha figli/e la scena che ho provato a descrivervi risulterà familiare. L’abbigliamento, i giochi o gli oggetti destinati all’infanzia hanno una connotazione di genere che si esprime primariamente nel colore: rosa per le femmine, blu per i maschi. Ad oggi, quasi nessun oggetto che si rivolge al mondo dell’infanzia è neutro. Se non ci credete, provate a regalare una bella tutina rosa ad una coppia di genitori che ha appena avuto un maschietto: vi guarderanno storto o, al massimo, vi diranno che gliela metteranno per stare in casa (cioè quando non viene visto). Come qualsiasi altro oggetto, anche i giochi non sono neutri: la maggior parte si basa su stereotipi che contribuiscono a rafforzare la socializzazione di genere, quel processo mediante il quale bambini e bambine apprendono le aspettative sociali in relazione al loro sesso di appartenenza. Tale processo è complesso e coinvolge molte agenzie tra cui la famiglia, la scuola, i media. Come vedremo in seguito, alcune fungono da veicoli inconsapevoli, altri no.
Il fenomeno della genderizzazione (che significa caratterizzare un oggetto affinché sia chiaro il genere a cui si riferisce) non si è sviluppato in modo rapido o lineare; secondo Jo Paoletti, le spinte consumistiche della seconda metà del secolo scorso hanno apportato un contributo significativo a tale processo. Del resto, l’attenzione all’infanzia è un sentimento piuttosto recente. Come ha messo in luce lo storico Philippe Ariès nei suoi studi, per molti secoli i bambini sono stati semplicemente “adulti in miniatura”. Se sopravvivevano all’elevatissima mortalità infantile, all’incuria, alle scarse attenzioni, venivano introdotti il prima possibile al mondo del lavoro. Non c’era un’attenzione specifica al guardaroba dei bambini: maschi e femmine vestivano come piccoli adulti/e. Il colore che caratterizzava la prima infanzia era il bianco, più facile da lavare. Fino alla fine dell’ottocento, inoltre, non era inusuale che i bambini indossassero gonne, che differivano da quelle della bambine solo per la forma o il tipo di abbottonatura.
La maggior parte dei giocattoli si basa su stereotipi che contribuiscono a rafforzare la socializzazione di genere.
L’attribuzione di un colore specifico per l’abbigliamento dei bambini e delle bambine compare intorno alla Prima Guerra Mondiale. Diversamente da oggi, i colori risultavano invertiti: il rosa – assimilato al rosso, colore del sangue e della guerra – era destinato ai maschi; il blu alle bambine, perché rimandava all’abito della Vergine Maria. Solo dopo gli anni ’40, complici alcuni studi di marketing condotti negli USA, il rosa comincia ad essere associato alla femminilità. Contemporaneamente, i giochi, che prima del dopoguerra rappresentavano un lusso destinato a pochissime famiglie, cominciano ad essere commercializzati su larga scala, aderendo e perpetuando il binarismo di genere. Come affermava Simone De Beauvoir, “donne si diventa”: non a caso, negli anni ’50 viene commercializzata la prima Barbie con la quale si inaugura la linea delle “fashion dolls” che aprirà successivamente la strada a molti altri modelli (le Lol, le Bratzs solo per citarne alcune). Barbie costituisce un terreno d’apprendimento perfetto per le bambine. Si tratta di un oggetto con cui possono giocare in ambienti chiusi, protetti. Barbie rappresenta i prototipo di una donna perfetta, dalle forme impossibili. Le bambine compiono giochi di ruolo immedesimandosi nella bella protagonista mentre fanno cose “da grandi” (cambiarsi d’abito, pettinarsi, uscire). Giocare è parte integrante del processo di sviluppo e le modalità in cui si esplica forniscono esperienze funzionali ad acquisire una socializzazione diversificata per maschi e femmine. Maschilità e femminilità rimandando a territori diversi che costruiscono diversi ordini simbolici di appartenenza, a loro volta organizzati in gerarchie di potere. La femminilità si acquisisce attraverso esperienze che aiutano a costruire l’etica della cura degli altri, a rafforzare le proprie doti seduttive, a essere belle.
Se volessimo modificare un po’ l’affermazione di De Beauvoir potremmo dire che, così come “donne”, anche “uomini” si diventa. In questo caso le esperienze di gioco devono stimolare le competenze spaziali e fisiche, sviluppando la competizione, l’espressione dell’aggressività, la capacità di gestire e stare nel conflitto. In prospettiva gerarchica, al maschile viene concesso più potere, che si esprime in una gamma molto più vasta di territori simbolici che il bambino può esplorare (spazio pubblico, fisicità, competitività…). I maschi vengono abituati all’espressione della propria virilità e il confine con tutto ciò che pertiene al femminile deve essere ancora più rigido. Secondo una logica gerarchica, infatti, è più tollerabile che una bambina si comporti “come un maschiaccio” (termine dispregiativo, che tradisce un certo biasimo, ma che comunque viene accettato) piuttosto che un bambino che si comporti “come una femminuccia”. La bambina rumorosa, attiva, intraprendente, infatti, sembra che attui una scalata all’acquisizione di uno status sociale più elevato; al contrario un bambino che preferisce stare a casa, che non ama il calcio e che si trova a proprio agio con giochi considerati femminili, compie una retrocessione perdendo i privilegi di sua competenza. Come ribadito dal sociologo Stefano Ciccone, la virilità e il suo esercizio costante – affinché ogni maschio possa essere riconosciuto e accettato dal gruppo – costituisce allo stesso tempo l’espressione più forte del potere maschile e la sua stessa limitazione, dato che ricade come una gabbia su tutti quei bambini e uomini che non riescono/vogliono aderire al modello egemonico proposto come vincente.
Bambini e bambine imparano prestissimo ad aderire al modello prestabilito mettendo in atto rappresentazioni di sé idonee riguardanti il modo di muoversi nello spazio pubblico, di piangere, di relazionarsi con gli adulti, di giocare o di sporcarsi. In questo processo educativo gli/le adulti/e occupano un ruolo centrale. Quando ci relazioniamo con bambini e bambine (giocando, parlando con loro, acquistando per loro oggetti necessari) entrano in campo schemi mentali derivanti dalle prassi acquisite, dalla nostra biografia o dalla cultura che abbiamo ricevuto, in sostanza dagli stereotipi recepiti. Lo sguardo degli adulti, il più delle volte è inconsapevole, frutto più di prassi acquisite e date per scontate che non di un ragionamento preciso. Una mamma di una bambina che affigge il fiocco rosa sulla porta di casa, che acquista capi d’abbigliamento quasi sempre rosa, che mette a sua figlia di pochi mesi fasce o accessori per capelli (anche quando i capelli non ci sono) non lo fa in modo consapevole. O meglio, non lo fa in modo ragionato. Se le si chiede perché mette alla figlia una fascia anche quando i capelli non ci sono, probabilmente risponderà perché così è più bella o per differenziarla dai maschi. Se ha acquisito una socializzazione di genere analoga dalla propria madre è probabile che la riproponga. Inoltre, se compie questi acquisti senza ragionarci tanto, avrà molta più probabilità di entrare in contatto con negozi che vendono questa tipologia di oggetti rispetto ad altri, in cui la varietà è più ampia e meno genderizzata. Lo stesso ragionamento vale per i genitori di un maschio: prediligeranno acquistare capi d’abbigliamento (i jeans, che emulano il babbo, o comode tute) sui toni del blu, del grigio, del rosso o del verde e magari con disegni di animaletti come i draghi, o frasi buffe che tradiscono la passione sportiva del padre, ad esempio. Tutto ciò è funzionale ad allontanare l’idea della femminilità, perché un maschio non deve essere effemminato. Anche in questo caso, se si chiedesse ad un genitore perché veste in un certo modo il figlio è probabile che risponderebbe per farlo stare comodo o per farlo sembrare un ometto, cioè per ribadire la sua virilità e allontanarlo dal genere opposto.
Quando ci relazioniamo con bambini e bambine, entrano in campo schemi mentali derivanti dagli stereotipi recepiti.
A testimonianza di quanto detto può essere importante citare un esperimento realizzato da J.A. Will, P. Self e N. Datan negli anni ’70. Le studiose avevano mostrato ad un gruppo di madri una bambina, Beth, di circa sei mesi. Avevano chiesto di giocare per un po’ con lei mettendole a disposizione un trenino, una bambola, un peluche a forma di pesce. Avevano poi chiesto a un altro gruppo di madri di giocare con un bimbo di sei mesi, Adam, sempre con gli stessi giocatoli. In entrambi i casi avevano osservato le interazioni e successivamente intervistato le partecipanti. Le madri che si erano rapportate con Beth l’avevano descritta con aggettivi come “deliziosa”, il suo pianto era stato considerato dolce, diversamente da quello di Adam. In loro presenza, inoltre, Beth aveva giocato maggiormente con la bambola, diversamente da Adam. Peccato, però, che entrambi i gruppi avessero interagito sempre con lo stesso bambino, soltanto vestito in maniera diversa. L’esperimento (così come altri che si sono succeduti nei decenni successivi) dimostra che l’atteggiamento degli adulti cambia a seconda che si interagisca con un bambino o una bambina: cambia la postura, il tono della voce, le parole che usano, gli oggetti di cui li circondano. Lo sguardo con cui l’adulto si relaziona ai bambini/e diventa prescrittivo: rispecchiandosi in esso bambine e bambini imparano prestissimo come devono comportarsi.
Molti studi hanno ormai dimostrato che tra i tre e i quattro anni bambini e bambine hanno già imparato a elaborare i contenuti forniti dagli adulti ed evitare così le attività considerate del genere opposto. Come ha chiarito la sociologia dell’infanzia, inoltre, bambini e bambine prendono parte al meccanismo culturale attraverso un processo di riproduzione interpretativa, mediante il quale assorbono la cultura degli adulti e la fanno propria riproducendola all’interno del gruppo dei pari o nelle relazioni con gli adulti. Ciò significa che dopo aver acquisito le informazioni necessarie relative a come ci si aspetta che essi/esse si comportino sono pronti/e a metterlo in campo, nelle relazioni con gli altri. Per avere una riprova di quanto affermato basta osservare un gruppo di bambini/e che giocano o, se avete figli/e, dare uno sguardo ai loro giocattoli. Partiamo da questi ultimi. Se i vostri figli/e hanno più di quattro anni, è probabile siano stati loro a chiedervi di acquistarli; ciò deriva dal fatto che la tv e gli altri media si rivolgono anche ai bambini/e attraverso la pubblicità. Molti studi hanno rivelato come questa non sia univoca: la pubblicità partecipa alla socializzazione di genere differenziando i messaggi che i piccoli/e telespettatori/trici ricevono. Così, ai maschi vengono proposti principalmente giochi di avventura, armi, ambientazioni in campo aperto che rimandano a mondi fantastici attraverso parole con cui li invitano a “conquistare”, “entrare in azione”, “combattere”, “difendere”. Alle femmine, invece, si propone di accudire, pulire, cucinare, truccarsi. Le ambientazioni pubblicitarie sono sempre in un interno, le voci di sottofondo sono morbide e rassicuranti. Al grido di “è facile”, o “è fashion!” scorrono immagini di forni, carrelli delle pulizie, bambolotti, trucchi, bambole alla moda.
Alla caratterizzazione di genere intrinseca, inoltre, si somma un’ulteriore differenziazione di genere, legata al diverso approccio che hanno bambine e bambini nei confronti del medesimo giocattolo. Potrei portare molte esperienze legate alle mie osservazioni, ma preferisco citare la ricerca condotta da Luisa Stagi e Emanuela Abbatecola in due scuole dell’infanzia genovesi. Le studiose hanno osservato il modo di relazionarsi di bambini e bambine agli spazi e ai giochi presenti nelle classe, in particolare nei confronti di una cesta di Barbie, Ken e “action figure” – modellini snodati che raffigurano supereroi. Partendo dall’osservazione, le ricercatrici notano che il modo di giocare è completamente differente: i maschi non prendono le Barbie ma solo Ken o gli action figure e li fanno scontrare, simulando lotte o battaglie. Come affermano le autrici, sembra che i bambini non giochino con (le barbie), ma contro. Questa modalità di gioco appare coerente con le aspettative di genere. I giochi considerati maschili, infatti, sono associati al movimento, alla competizione e enfatizzano il ruolo della violenza e dell’aggressività nella costruzione identità maschile. Anche l’uso delle parole ribadisce quanto detto: le Barbie sono fashion dolls e quindi il loro nome sottolinea l’importanza della dimensione estetica nel processo di socializzazione alla femminilità. Il corrispettivo maschile non può essere definito dolls, per questo si ricorre alla parola figures che, preceduto dall’aggettivo action, rimanda ad una soggettività attiva.
Uno degli aspetti più pericolosi degli stereotipi è che tendono a confondere il piano tradizionale con quello naturale.
Mi direte: ma qual è il problema se le bambine e i bambini vengono educati in modo diverso o sono attratti da diversi tipi di giocattoli? Potreste obiettare che “si è sempre fatto così”, o che è “naturale” che si faccia così. In questo caso l’ordine del problema è duplice. Anzitutto c’è un’importante differenza nell’affermare che “si è sempre fatto così” o che è “naturale” fare così. Uno degli aspetti più pericolosi degli stereotipi, infatti, è che tendono a confondere il piano tradizionale con quello naturale. Il fatto che si sia sempre fatto in un certo modo non dice nulla in merito alla presunta naturalezza dell’azione. Per questo ho voluto raccontare l’evoluzione storica che hanno subito colori e abbigliamento dedicati a bambine e bambine. Prima era naturale per un bambino indossare ampie gonne (diverse da quelle femminili solo per piccoli particolari) ed era altrettanto naturale indossare il rosa. Poi qualcosa è cambiato e se oggi si propone a un bambino di quattro anni di indossare una gonna o vestirsi di rosa potrebbe piangere o arrabbiarsi. In realtà non era naturale neppure prima, semplicemente si trattava della tradizione vigente, che nel frattempo è cambiata.
L’unico dato naturale su cui ci possiamo basare è quello sessuale, che è un connotato biologico – ma anche in questo caso il binarismo è una semplificazione, perché distinguendo solo in maschi e femmine, relega molte persone, tra cui gli intersessuali, nell’invisibilità. Se la presenza a lungo taciuta dell’intersessualità mette in luce il fatto che persino il binarismo biologico non esiste in modo netto, a maggior ragione si può mettere in dubbio quello di genere, che è legato a molti fattori e variabili. Nascere biologicamente maschi o femmine, infatti, non è prescrittivo rispetto agli interessi personali, alle preferenze di colore e alle modalità di gioco. Come è stato messo in luce dal genderbread model, le variabili sono molte e afferiscono la dimensione biologica, psicologica, l’espressione di sé e l’orientamento sessuale. Ognuna di queste variabili muove su binari separati con gradi e intensità diverse in base ai singoli casi.
Pertanto è possibile nascere maschi e avere un’identità di genere che si riconosce pienamente nel maschile, ma agirla attraverso un’espressione che la società non riconosce come maschile. È il caso di molti ragazzi che si riconoscono come uomini ma non amano il calcio, o che hanno scelto una professione di cura come l’infermiere, o che passano il tempo libero a leggere e non allo stadio. Sono “maschi” come gli altri, ma la società potrebbe considerarli meno virili per via delle loro scelte “non conformi”. Oppure è possibile nascere biologicamente maschi ma avere un’identità di genere che non si riconosce nel maschile. Se, come capita in alcuni casi, questa identità non può essere palesata, si dovrà forzatamente aderire agli stereotipi del proprio genere e dunque amare lo sport, essere competitivi, interessarsi alle auto sportive, optare per professioni tipicamente virili. La rappresentazione semplificata degli stereotipi ha una funzione sia pratica che rassicurante; da una parte aiuta a alleggerire una realtà complessa e dall’altra ferma l’inesorabile divenire del tempo. Ma possono anche dimostrarsi dannosi, perché sono resistenti al cambiamento, e, di generazione in generazione, diventano – come scrive Graziella Priulla – “veicoli di senso comune”. Gli stereotipi di genere contribuiscono quindi a produrre gabbie entro le quali circoscrivere le possibilità di espressione dei singoli, e nel farlo arrecano danni a tutti/e. Alle bambine, perché riducono le loro prospettive future; ai bambini, poiché l’ideale di maschilità egemonica richiede di aderire completamente al modello sacrificando scelte personali e limitando le proprie possibilità.
In tutti noi sesso biologico, identità di genere, espressione e orientamento sessuale sono variabili sfumate, che non sempre vanno nella medesima direzione; la socializzazione di genere ci obbliga invece a un adeguamento rigido che può anche portare a snaturare la nostra individualità. Questo non significa ovviamente che non esista, ad esempio, chi nasce maschio e si senta portato alla competitività, all’azione e ad altri tratti caratteriali considerati tipicamente maschili. In questi casi sesso biologico, identità di genere, espressione e orientamento sessuale sono tutti in perfetto accordo. Anche qui però abbandonare una rigida socializzazione di genere non arrecherebbe alcun danno, perché lascerebbe comunque il bambino libero di esprimere le sue inclinazioni senza attuare meccanismi di oppressione nei confronti degli altri. Rivedere la socializzazione di genere, dunque, può venire incontro alla grande diversità dei casi particolari che compongono la collettività umana, senza costringere nessuno/a a un percorso esistenziale che non può che essere individuale.