Questo articolo è stato scritto e pubblicato prima che l’8 luglio l’ex premier Abe Shinzo venisse ucciso in un attentato. Abe, per quanto controverso, è stato uno dei grandi riformatori del Giappone contemporaneo. Se oggi possiamo speculare sull’esistenza di un progressismo giapponese di destra, molto lo dobbiamo a lui.
N ito Yumeno è una giovane donna di Tokyo, la cui adolescenza non è stata delle più semplici. Ai tempi delle superiori, Nito passava diverse notti a dormire all’aperto per paura di rientrare a casa. La situazione familiare non era serena, ha raccontato qualche anno fa in un’intervista all’Asahi Shimbun. Durante queste nottate, le uniche persone che le rivolgevano la parola erano uomini adulti in cerca di avventure sessuali o recruiter professionali di minorenni, intenzionati ad attrarre giovani studentesse in attività poco trasparenti. Nito sarebbe probabilmente caduta nel mondo semi-legale dei servizi erotici, spesso una semplice foglia di fico per non incorrere nelle proibizioni della legge anti-prostituzione. La sua storia però ha preso una piega diversa e oggi Nito è un’attivista che lavora nel campo del sociale.
Il pulmino rosa della sua associazione, Colabo, si può trovare per le strade del centro di Tokyo tra Shinjuku e Shibuya, non lontano da quelle zone in cui l’industria del sesso risucchia molte giovani giapponesi nel giro della tratta di esseri umani. Alcuni anni fa Colabo iniziava a cercare giovani ragazze a rischio e dare loro assistenza, provando a strapparle al possibile destino di violenze e illegalità verso cui la vita di strada le spingeva. Oggi l’associazione è cresciuta e offre sostegno a tutte le ragazze che si trovino in difficoltà. Oltre a fornire consulenza, Colabo possiede anche alcune strutture dove alloggiare queste donne, le aiuta a interfacciarsi coi servizi sociali e con l’assistenza sanitaria e distribuisce generi di prima necessità come alimenti e vestiti.
Soprattutto negli ultimi anni, a servirsi di questo aiuto non sono più solo le ragazze finite (o a rischio di finire) nella tratta di persone. Con la pandemia è aumentato il numero di donne in fuga dagli abusi domestici, così come quello di donne che hanno perso ogni fonte di reddito. Tra il 2019 e il 2020 le richieste di aiuto giunte a Colabo sono aumentate di due volte e mezza. Queste donne non rientrano nelle categorie protette dalla legge anti-prostituzione del 1956, e difficilmente possono ricevere assistenza presso le istituzioni pubbliche. “Quanto più qualcuno ha bisogno di assistenza pubblica, tanto meno probabile è che riesca a ottenerla”, dice Nito.
Questo però dovrebbe presto cambiare. Una proposta di legge bipartisan è stata approvata dal parlamento lo scorso maggio per proteggere le donne vulnerabili, siano esse oggetto di sfruttamento sessuale, violenze domestiche o in povertà, e aiutarle a riprendersi una vita dignitosa e indipendente. La legge stabilisce che il governo dovrà emettere linee guida nazionali per riaffermare i diritti umani delle donne e per assicurarne il benessere, mentre le amministrazioni locali dovranno mettere in atto tali prescrizioni con l’aiuto delle organizzazioni non-governative attive sul territorio. Con la nuova legislazione, il lavoro sul territorio degli enti pubblici dovrà essere molto più simile a quello del furgoncino rosa di Nito, andando attivamente in cerca di donne in difficoltà che tuttavia non sono ancora in grado di cercare aiuto.
Il paese, spesso additato come esempio di conservatorismo sociale, ha preso diverse misure che noi europei non esiteremmo a definire progressiste.
Il nuovo provvedimento è un passo in avanti per il Giappone. La protezione delle donne vulnerabili però non è un caso isolato e nell’ultimo periodo il paese, spesso additato come esempio di conservatorismo sociale, ha preso diverse misure che noi non esiteremmo a definire progressiste. Parità di genere, pianificazione familiare, diritti dei lavoratori, immigrazione, minoranze: il governo di Tokyo sta pian piano mettendo mano a tutti questi dossier. Nulla di eccezionale in sé, molti paesi si stanno muovendo lungo queste direttrici. Ciò che però stupisce è che il motore dietro questa serie di nuovi provvedimenti non è una forza politica progressista, bensì la destra incarnata dal Partito Liberaldemocratico (LDP).
Una destra progressista?
L’LDP è stato il partito di governo quasi ininterrottamente dal 1955 a oggi. Al suo interno ospita diverse anime, da quelle nazionaliste e ultra-conservatrici a quelle centriste e più liberali, che negli anni hanno avuto alterne fortune nell’avvicendarsi alla guida del partito e, perciò, anche del governo.
In Giappone i movimenti sociali di ispirazione progressista sono un fenomeno che difficilmente si è riuscito a inserire nel processo politico del paese. Per questo motivo, le loro campagne di mobilitazione raramente hanno ottenuto risultati concreti in termini di legislazione. Senza significative pressioni da parte della popolazione, il governo dell’LDP ha mantenuto intatte per decenni le proprie politiche conservatrici su molti temi sociali.
È quindi curioso che sia stato l’ex premier Abe Shinzō, l’anima dell’ala neoconservatrice del partito, a introdurre nel linguaggio di governo in Giappone la womenomics. Con questo termine adottato nel 2013, Abe intendeva descrivere una politica di agevolazioni verso le donne che ne favorissero l’impiego e la partecipazione nella vita socio-economica del paese. Eppure Abe non è estraneo a posizioni decisamente poco progressiste, come quella di inserire nella costituzione giapponese la famiglia quale nucleo centrale della società o la sua ostilità verso la successione al trono imperiale per linea femminile. I suoi successori, sebbene meno radicali, hanno mantenuto la rotta sul tema della parità di genere. Anzi, negli ultimi mesi l’attuale premier Kishida Fumio sembra anche aver premuto sull’acceleratore.
È curioso che sia stato l’ex premier Abe Shinzō, l’anima dell’ala neoconservatrice del partito, a introdurre nel linguaggio di governo in Giappone la womenomics.
Continuando nel solco tracciato da womenomics, sotto la guida di Kishida il paese sta discutendo come migliorare l’ambiente lavorativo per le donne. “L’emancipazione economica femminile è al centro del mio Nuovo capitalismo” ha dichiarato il premier, il cui governo in queste settimane sta discutendo come modificare le partiche consolidate nel mondo del lavoro giapponese che ostruiscono la parità di genere. Al momento è al vaglio dell’esecutivo una proposta di riforma che intende ampliare il ventaglio di informazioni aziendali che devono essere rese pubbliche. L’idea, enunciata da Kishida a gennaio, è che le imprese con più di 300 impiegati siano obbligate per legge a pubblicare sul proprio sito la differenza salariale tra dipendenti maschi e femmine, includendo anche i dati per i dipendenti con contratto regolare e per quelli con contratto atipico. Da questo provvedimento, che dovrebbe essere finalizzato entro l’estate, sarebbero interessate le 17600 imprese più grandi del paese mentre per le altre la pubblicazione di questo dato sarebbe opzionale. Resterebbe comunque in vigore per tutti l’obbligo di pubblicare i dati su almeno due indicatori tra quelli elencati dal governo in una lista sulla partecipazione femminile alla forza lavoro.
Un provvedimento simile è invece già stato approvato dall’Agenzia per i servizi finanziari, che dall’anno prossimo vuole introdurre per le aziende quotate in borsa l’obbligo di inserire nei report annuali i dati sulla disparità salariale di genere e sulla partecipazione femminile alla direzione aziendale. La trasparenza di governance è un tema su cui l’attuale governo ha deciso di puntare molto, in modo tale da dare ad aspiranti lavoratori/lavoratrici e agli investitori un indicatore dell’importanza del capitale umano nella cultura aziendale su cui basare le proprie scelte.
Un altro punto sul quale il governo di Kishida ha mostrato una sensibilità progressista è quello dei salari. La redistribuzione della ricchezza è stata messa al centro del progetto di Nuovo capitalismo proposto da Kishida in occasione delle elezioni generali dello scorso ottobre, e la crescita del reddito dei lavoratori ne è una componente fondamentale. Durante le tradizionali negoziazioni sindacali di primavera, il premier ha chiesto alle aziende di concedere aumenti salariali del 3% minimo in modo tale da far riprendere i consumi e l’economia in generale. Per farlo, il governo ha anche approvato incentivi fiscali per le aziende che avrebbero deciso di aumentare le paghe dei dipendenti. Sebbene l’obiettivo non sia stato centrato e i dati dei sindacati riportino solo un aumento generale appena sopra il 2%, Kishida si è comunque potuto fregiare di aver aiutato il secondo aumento annuale dei salari più importante degli ultimi 20 anni. Inoltre, la svolta pro-lavoro impressa da Kishida all’LDP ha avuto importanti conseguenze politiche. In primis, il partito egemone della destra giapponese ha intrapreso da alcuni mesi un notevole avvicinamento col principale sindacato del paese, conosciuto come Rengō. La seconda conseguenza è che durante la campagna elettorale per le elezioni parlamentari in programma il prossimo 10 luglio, uno dei temi al centro del dibattito pubblico è proprio l’aumento dei salari.
C’è poi il piano della vita famigliare, sul quale il governo si sta muovendo su più fronti contemporaneamente. Nel gennaio 2020 l’allora ministro dell’ambiente Koizumi Shinjirō ha fatto parlare molto di sé quando ha annunciato di voler prendere due settimane di congedo di paternità per potersi curare del proprio figlio appena nato. Raramente in Giappone i padri prendono giorni di permesso. “Spero che la mia decisione aprirà la strada a nuovi modi di lavorare in cui al ministero dell’ambiente ognuno possa prendere facilmente un congedo parentale senza esitazione”, aveva detto Koizumi in una riunione interna al ministero. L’anno successivo, con l’obiettivo di incrementare la percentuale di congedi di paternità sul totale degli aventi diritto, il governo ha adottato un nuovo provvedimento per facilitare la richiesta di congedo da parte dei lavoratori-padri.
La redistribuzione della ricchezza è stata messa al centro del progetto di Nuovo capitalismo proposto in occasione delle elezioni generali dello scorso ottobre.
Il prossimo mese, inoltre, il ministero della giustizia presenterà la propria proposta di riforma del Codice civile, che dovrebbe contenere per la prima volta la possibilità della custodia condivisa dei figli tra i due genitori. La riforma più importante però è stata la creazione di un’Agenzia per l’infanzia e le famiglie, il cui compito è quello di coordinare tutte le politiche che accompagnano il concepimento, la gravidanza, la nascita e l’allevamento dei bambini. L’agenzia, che entrerà in funzione il prossimo aprile sotto la diretta supervisione del premier, in sostanza riunisce in sé una serie di funzioni che prima erano suddivise tra diversi apparati burocratici spesso non comunicanti tra di loro. Se da un lato le politiche per l’infanzia dovrebbero diventare più coerenti, la vera svolta sta nell’annuncio di Kishida di voler raddoppiare la spesa per il sostegno all’infanzia. Nonostante manchino ancora dettagli concreti su quando e come il budget della nuova agenzia verrà raddoppiato, e soprattutto da dove verranno i nuovi fondi, un’idea è stata fornita in un documento governativo sulla politica economica redatto a maggio. Nel documento si sostiene la necessità di introdurre meccanismi che permettano di condividere il fardello finanziario in modo solidario tra tutti i membri della società e dell’economia, incluse le imprese.
Un ultimo tema su cui il Giappone sta pian piano cercando di cambiare passo è quello dell’immigrazione e dei lavoratori stranieri. Grazie alle politiche di sommessa apertura migratoria messe in atto nell’ultimo decennio, oggi vivono e lavorano nel paese oltre 1,7 milioni di cittadini non giapponesi, molti dei quali però si trovano in condizioni di particolare vulnerabilità lavorativa. Per sostenere questi lavoratori, alcune aziende col supporto delle istituzioni pubbliche hanno lanciato a maggio il JP-MIRAI, un servizio di consulenza in diverse lingue per aiutare queste persone a risolvere i problemi sul posto di lavoro. I dipendenti delle aziende che lo volessero, potranno rivolgersi al JP-MIRAI affinché questo intervenga per fornire una soluzione a problemi come stipendi non pagati e intoppi burocratici o, in casi particolarmente gravi, per indirizzare il lavoratore migrante verso un avvocato col quale iniziare un’azione legale. Per il momento si tratta solo di un progetto pilota che interessa 20.000 dipendenti stranieri, ma l’obiettivo è quello di espandere il servizio a un milione di persone entro il 2024.
Un problema di prospettiva
Nonostante queste misure possano suonare come progressiste a un pubblico europeo, se calate nel contesto giapponese esse assumono un significato molto diverso. Il Giappone infatti è un paese dove alcune conquiste sociali non sono ancora un dato di fatto. Essendo la linea base posizionata molto in basso, molte delle misure fino a qui elencate servono semplicemente a riportare il paese più vicino agli standard sociali degli altri paesi sviluppati. Inoltre, la ratio di questi provvedimenti è quasi sempre molto meno progressista nelle aspirazioni di quanto in realtà sia utilitarista nei risultati attesi.
Quanto a disuguaglianze di genere, il Giappone è uno dei fanalini di coda a livello globale. Su 156 paesi esaminati dal World Economic Forum, il paese di classifica in 120esima posizione soprattutto per colpa del basso punteggio negli indici politici e economici. “Solo il 10% dei parlamentari della camera bassa [ndr, quella più importante delle due esistenti in Giappone] sono donne” dice Inada Tomomi, una parlamentare di spicco dell’LDP. Il partito di governo in particolare non brilla quanto a rappresentanza di genere: oltre a presentare regolarmente gabinetti con appena due o tre ministre, anche durante le elezioni le candidate dell’LDP sono sempre molto poche in percentuale. Nonostante il piano per la parità di genere approvato dal partito stesso stabilisca che entro il 2025 almeno il 35% dei candidati debbano essere donne, alle prossime elezioni del 10 luglio l’LDP non è riuscito a fare meglio del 23,2%.
La ratio di questi provvedimenti è quasi sempre molto meno progressista nelle aspirazioni di quanto in realtà sia utilitarista nei risultati attesi.
Sul fronte economico e lavorativo la situazione non è certo migliore, anzi. La divisione di ruoli di genere tra vita famigliare e vita lavorativa è ancora molto legata al modello tradizionale: se nel 2018 l’82% delle donne aventi diritto e impiegate nel settore privato si era preso un congedo parentale, solo il 6% degli uomini avevano fatto la stessa scelta. Per di più, la media dei congedi di paternità non sorpassava nemmeno i 5 giorni. Anche se in anni recenti la percentuale è aumentata, rimane ancora fortemente radicata la convinzione che un dipendente maschio debba mostrare una completa abnegazione per il lavoro, anche a scapito della propria famiglia. In un sondaggio del 2021, solo il 39,4% degli uomini sposati nella fascia 20-39 anni diceva di voler prendersi un congedo di paternità, mentre il 42,2% non aveva intenzione di chiederlo: le due motivazioni più ricorrenti per questa decisione erano il disagio causato ai colleghi e l’apparente ostilità dell’azienda verso questa opportunità.
Questa mentalità si riproduce poi anche nella gestione delle mansioni domestiche e nell’allevamento dei figli. Mentre gli orari lavorativi degli uomini sono tra i più lunghi dei paesi sviluppati, il tempo speso per lavori domestici non retribuiti è di appena 41 minuti al giorno. Così, la mancanza di adeguate strutture dovuta a una spesa pubblica per i servizi all’infanzia molto limitata (nel 2018 appena l’1,65% del PIL, molto al di sotto della media europea) fa sì che siano soprattutto le donne a farsene carico. La pandemia non ha fatto che rinforzare questa tendenza.
Il risultato di questa divisione dei ruoli di genere è quindi evidente anche nel mondo del lavoro. Col dato medio di 22,5% il Giappone è il paese del G7 con la più alta disparità salariale tra uomini e donne. Un motivo in questa discrepanza è il fatto che l’interruzione di carriera dovuta alla maternità pone le donne in una condizione svantaggiosa, soprattutto in un contesto in cui le paghe vengono commisurate al tempo speso da un dipendente nell’azienda. Il rientro sul posto di lavoro per le donne avviene nel segno della discriminazione: un sondaggio rivela che dopo il parto la percentuale di donne che lavora a tempo pieno scende dal 38% al 25%, mentre la percentuale di quelle con contratto part-time sale dal 19% al 42%. Per confronto, secondo i dati del ministero, il 72-74% degli uomini di 30-34 e 45-49 anni sono impiegati a tempo pieno. Senza poter acquisire un certo livello di anzianità, molte donne non riescono a ottenere gli stipendi dei loro colleghi maschi. Né possono quindi aspirare a ottenere cariche da dirigente. I dati dell’OCSE riportano che in Giappone appena il 12,6% delle posizioni manageriali è occupato da donne e la percentuale scende al 9,3% tra le imprese quotate nel Prime market della borsa di Tokyo. Non a caso il divario salariale di genere è particolarmente elevato nella fascia di età sopra i 55 anni.
Il problema delle disparità salariali di genere si salda poi con quello del reddito da lavoro più in generale. Negli ultimi decenni le paghe sono rimaste virtualmente piatte. Se si indicizzassero i salari reali del 1990 su una base di 100 punti, il valore di quelli di oggi sarebbero appena 104. A causare questa stagnazione è stata la rapida espansione negli ultimi decenni di un’ampia fetta di lavoratori, soprattutto donne, impiegati con contratti atipici e pagati meno di un contratto regolare. Non solo, l’espansione di questa forma di precariato ha anche notevolmente ridotto la produttività media dei lavoratori giapponesi.
Il nocciolo della contraddizione di un paese conservatore che adotta politiche progressiste in fondo sta tutto qui, dentro la crisi demografica che il Giappone sta attraversando.
L’utilitarismo economico di alcune recenti riforme progressiste è quindi abbastanza evidente. Ad esempio, l’attenzione verso le prospettive lavorative delle donne non sembra nascere da una particolare sensibilità femminista. Uno studio dell’Università Keio ha riscontrato che a un aumento di donne in posizioni manageriali corrisponderebbe un miglioramento della produttività ed è probabilmente questo il dato che gira negli ambienti governativi di Tokyo. Inoltre, una più equa partecipazione delle donne al mondo del lavoro, unita a un maggiore sostegno statale e coniugale alla maternità, sarebbe secondo alcuni esperti uno stimolo per far riprendere la natalità del paese. Il nocciolo della contraddizione di un paese conservatore che adotta politiche progressiste in fondo sta tutto qui, dentro la crisi demografica che il Giappone sta attraversando.
Con 840.000 nuovi nati e 1.450.000 decessi, nel 2020 il paese ha perso oltre 600.000 abitanti e le proiezioni suggeriscono che dai 125 milioni di oggi la popolazione potrebbe scendere sotto i 100 milioni nel 2053. Questo rapido invecchiamento della popolazione avrà conseguenze sociali ed economiche senza precedenti: entro il 2040 ci saranno circa 10 milioni di persone in età lavorativa in meno, mentre la percentuale di persone sopra i 65 anni continuerà a crescere. Per quella data, si stima che il Giappone avrà bisogno di quadruplicare il numero di lavoratori stranieri per sostenere la propria economia e il proprio sistema si assistenza sociale. Il ricorso all’immigrazione sembra poi inevitabile. Anche se la percentuale di donne e di anziani attivi nella forza lavoro aumentasse di un altro 10% (abbastanza complesso visto che il tasso di occupazione femminile è già del 73%), nel paese comunque mancherebbero ancora 3,6 milioni di lavoratori secondo le stime del Nikkei Asia.
Guardare oltre l’utilità
Che l’LDP non si sia convertito al progressismo è un fatto che ci viene ricordato da molti altri elementi. Nel paese vige ancora il divieto per le coppie sposate di mantenere due cognomi separati, i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono ancora osteggiati da gran parte delle autorità, il numero di nuovi rifugiati accolti ogni anno nel paese non supera mai qualche decina di unità, i residenti stranieri non possiedono il diritto di voto nemmeno nei referendum locali, e la lista andrebbe ancora avanti.
Sarebbe però una verità parziale dire che il Giappone abbia adottato politiche sociali apparentemente progressiste solo per convenienza economica o demografica, perché la realtà è che forse davvero il paese negli anni sta cambiando. Sui temi dei diritti LGBT o dei cognomi separati, i sondaggi riportano che la popolazione sta diventando effettivamente recettiva verso queste idee. E non è solo l’opinione pubblica a muoversi, ma anche quella della dirigenza politica: sugli stessi temi pure i candidati dell’LDP stanno assumendo posizioni più tolleranti, anche se lentamente e con notevoli resistenze interne.
Sarebbe una verità parziale dire che il Giappone abbia adottato politiche sociali solo per convenienza economica o demografica, perché la realtà è che forse davvero il paese negli anni sta cambiando.
Alcuni dei provvedimenti recentemente presi difficilmente si potrebbero spiegare solo in termini di utilitarismo. La legge che permette agli attori pentiti di essere entrati nell’industria pornografica la possibilità di rescindere i contratti e impedire la distribuzione del materiale senza incorrere in penalità, la riforma del Codice civile per eliminare il divieto di risposarsi entro cento giorni dal proprio divorzio imposto solo alle donne, le ordinanze delle amministrazioni locali per punire chi incita all’odio contro le minoranze etniche, la prontezza con cui il governo giapponese si è dichiarato disponibile ad accettare e sostenere gli ucraini in fuga dalla guerra. Sono tutti elementi che in qualche modo ci dicono che il Giappone non è quel paese immutabilmente conservatore che in molti abbiamo in mente.
Tokyo non è la patria del progressismo ma ciò non ci dà diritto di dire che l’impegno giapponese per il progresso sociale sia irrilevante. Come Nito, la ragazza di Tokyo, migliaia e migliaia di altri giapponesi nelle proprie cariche ufficiali o in qualità di privati cittadini fanno la loro parte per cercare di rendere il paese un posto più giusto e più equo. A piccoli passi il Giappone sta compiendo un suo percorso di progresso sociale, forse non ortodosso ma sicuramente meritevole di attenzione, perché anche noi potremmo avere molto da impararvi.